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L’INESPRESSO | La fuga di Youssef

Francesco Veltri
Francesco Veltri
Marzo06/ 2016

Aveva appena 26 anni, ma poteva considerarsi già un uomo. Youssef Suleiman era diventato padre da poche settimane e vedeva lo sport come una fuga dalla realtà. Desiderava scappare così come avevano già fatto molti suoi amici, ma voleva che fosse il calcio e non il mare a regalargli quella nuova speranza, quella nuova vita. Non era molto alto eppure da attaccante centrale si faceva valere. Guardava in tv i grandi campioni e le partite più importanti, e lavorava sodo per poter arrivare un giorno a quei livelli. Era promettente e in molti erano pronti a scommettere su di lui. In alcune stanze del mondo, però, le scommesse non riguardano solo le normali aspirazioni che ogni singolo uomo pone dinnanzi a sé. In certe stanze del mondo, scommettere sul talento di un giovane calciatore è un po’ come vaneggiare, uscire dagli schemi di una dimensione che parla d’altro e non consente di volare troppo in alto. Nessuno ti prende sul serio.

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Eppure Youssef quel sogno non voleva abbandonarlo, era deciso a fare tutto ciò che gli era possibile per liberarsi da quelle catene invisibili che dalla nascita lo avevano costretto a rimanere immobile, legato per sempre ad un destino già scritto, identico a quello di chi gli stava intorno. Voleva sfondare, e in campo, in ogni partita, in ogni allenamento, ci metteva l’anima. Aveva un obiettivo: migliorare come calciatore per meritarsi sul campo l’approdo in un universo migliore, meno grigio e doloroso di quello che si trovava di fronte ogni mattina. Nessuno poteva fargli cambiare idea. Quasi nessuno.

Il 20 febbraio del 2013 lo stadio Tishreen di Damasco è pronto ad ospitare la partita di campionato tra l’Al-Wathba, una delle società più antiche della Siria, e l’Al-Nawair. Youssef ha appena pranzato con la squadra in un hotel situato a pochi passi dall’impianto sportivo e si gode gli ultimi istanti di relax prima della gara. Gli spalti del Tishreen sono ancora vuoti ma fra poco si riempiranno di volti, di cori, di emozioni che non fanno paura, per uno dei pochi momenti di svago che restano da assaporare in una terra martoriata e senza prospettive di rinascita. La guerra civile da tempo ha sconvolto la popolazione e anche una semplice e innocente partita di pallone non si riesce a vivere completamente con serenità. Ma è un’occasione rara di condividere una passione comune e di provare a mettere da parte, almeno per un po’, l’ingombrante macigno di un drammatico conflitto senza vie d’uscita. Un conflitto che ti entra in casa, ti entra nel cuore e nella testa, invadendo ogni angolo della tua esistenza.

Manca poco all’inizio della sfida e adesso l’Al-Wathba può prepararsi per raggiungere lo stadio. I borsoni dei calciatori sono posizionati ordinatamente in un angolo della hall dell’hotel. Youssef e i suoi compagni sorridono, si scambiano le ultime battute prima di entrare in pieno clima pre-gara. Da lontano si sentono rumori, fischi di pallottole che vagano senza mete certe, colpi di fucile e bombe che cadono chissà dove. È una musica oscura, tremenda, eppure nessuno sembra farci caso. Nessuno vuole farci caso. Ma è proprio il caso a smuovere quei pensieri, interrompendo bruscamente la magia del gioco più bello del mondo che sta per avere inizio ancora una volta in uno dei tanti posti sperduti del pianeta. Si sente un fruscio che si avvicina sempre di più, il suo rumore aumenta, si fa imponente, assordante. Ora tutti guardano istintivamente verso il soffitto, come se al suo posto ci fosse un cielo rivelatore, ma non fanno in tempo a rendersi conto di ciò che sta succedendo. Improvvisamente c’è un’esplosione, potente, fragorosa, che smuove le mura dell’hotel come un terremoto violentissimo. La polvere inebria il salone enorme e stritola gli occhi delle persone. Non si vede più nulla, dopo un lungo silenzio si sentono solo urla di dolore, di angoscia. Due colpi di mortaio hanno oltrepassato quel confine che dovrebbe essere neutrale.

La polvere e il fumo lentamente si alzano e diventano una sola cosa. Afflosciati a terra si intravedono appena quattro calciatori dell’Al-Wathba. Tre si muovono urlando qualcosa di incomprensibile, uno, distante qualche metro dagli altri, è fermo. Quell’uomo è Youssef Suleiman. Gli corrono incontro delle persone, provano a svegliarlo, a rianimarlo, ma la punta dell’Al-Wathba non dà segni di vita. Il sangue sgorga dal suo volto già irriconoscibile, dalla sua pelle, e la scena è straziante. Alcune schegge hanno colpito il ragazzo al collo. Tutti intorno a lui rimangono immobili, non sanno cosa fare. Ma non c’è tempo da perdere, bisogna chiedere aiuto. La corsa in ospedale è disperata, ma non servirà a nulla. Youssef Suleiman muore poche ore dopo, davanti allo sguardo attonito dei suoi compagni di squadra che ancora scioccati, feriti, spaventati e scuri in volto come minatori appena emersi dagli abissi della terra, lo hanno seguito fino alla fine. Piangono, si abbracciano l’uno con l’altro. Poteva capitare a chiunque di loro, è capitato al loro amico, il loro attaccante migliore, quello che con i suoi gol li faceva gioire e stordiva la realtà. Doveva essere una semplice e innocente partita di calcio. Doveva essere l’innocente illusione di un ragazzo siriano che sognava di diventare un campione. Sapeva benissimo che non ci sarebbe riuscito, eppure quel sogno era il suo antidoto ai tormenti di ogni giorno. Ma nel mondo di Youssef non è consentito aspettarsi l’impossibile.

E la fuga, qualunque essa sia, diventa una drammatica salvezza.

Francesco Veltri
Francesco Veltri

Guaribile romantico del giornalismo calabrese. Scrive per non dimenticare e si ostina a osservare l'inosservabile. Ha lavorato con alterne sfortune nelle redazioni della Provincia cosentina, di Cosenza Sport, di Cronaca della Calabria, di Calabria Ora e dell’Ora della Calabria. Per Diarkos ha scritto "Il Mediano di Mathausen"

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