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L’INESPRESSO | Il mai abbastanza di Vincenzo Nibali

Francesco Veltri
Francesco Veltri
Agosto07/ 2016

Mancano 12 chilometri al traguardo. E la strada ora scende violentemente, imboccando curve improvvise che sai bene che ti faranno perdere il sonno anche quando tutto quel caos sarà passato. Mancano 12 lenti passi che hanno l’odore dell’eternità, verso un traguardo che cancella ogni ferita, ogni paura, ogni sfortuna. L’uomo col numero 38 sulla schiena non vuole distrarsi. Non volta mai lo sguardo indietro, sguscia via tra tornanti privi di senso senza porsi troppe domande. Vuole vincere quella corsa, più d’ogni altra cosa. Ha messo tutti alle spalle, quasi tutti. Gli manca un ultimo scatto e poi sarà fatta. Gli è rimasta una discesa per andarsene tutto solo verso la gloria. E allora insiste, spinge al massimo i suoi pedali e alza le dita dai suoi freni. Tutti sanno che sarà lui, alla fine, ad alzare le braccia verso il cielo. Perché lo merita, è il più forte. Aspettava Rio come si aspetta l’occasione di una vita, come se tutto quello che ha conquistato fino a quel momento non basti a farlo sentire grande. Deve fare di più, deve sconfiggere i suoi tormenti.

Mancano 12 chilometri e in quel tratto di discesa sarebbe il caso di andare piano. Si rischia l’osso del collo, si rischia la carriera. Ma Vincenzo ha un obiettivo da portare a termine. Ha vinto due Giri d’Italia, una Vuelta, un Tour de France pur essendo perseguitato dalla cattiva sorte, eppure non gli basta. Non sente l’amore della gente, pensa che il popolo diffidi di lui, non considerando speciali le sue fatiche. Ogni suo sguardo è triste, ogni sua vittoria passata è stata un pianto liberatorio che è riuscito a scacciare l’angoscia solo per qualche ora. Tutti sanno che sarà lui, alla fine, a vincere. Perché su quello strano e insolito percorso sudamericano, sa cosa fare più di ogni altro. Ha fame, fiato e più gambe di tutti Vincenzo, e spinge follemente la sua bici tremante. Ancora poche curve e poi il rettilineo finale di Copacabana. Deve lasciarsi dietro assolutamente i suoi rivali. Non vuole volate, sogna un arrivo solitario.

Mancano poco meno di 12 insignificanti chilometri e le telecamere ora staccano sugli inseguitori. Sono dietro, troppo dietro, non possono più creare problemi al trio di testa guidato dal siciliano che tutti chiamano “Lo Squalo”. Poi il ritorno in testa, ma la testa, improvvisamente, non sembra esserci più. In pochi secondi è saltato tutto. La moto che manda le immagini a casa, corre verso l’ignoto alla ricerca di qualcuno, del punto di riferimento che aveva fino a poco fa, senza però scovarlo mai. A terra, si è lasciata due uomini doloranti, schiantatisi contro una curva assurda che tutti sapevano di trovare lì. Si fatica a comprendere, poi è tutto chiaro: sull’asfalto c’è Vincenzo Nibali. E’ ferito, non riesce ad alzarsi. Prova ad avvicinarsi alla sua bicicletta, ma non ce la fa. Riesce a strisciare verso il marciapiede e a sedersi come può. Il suo sguardo è perso nel vuoto, le sue mani raggiungono a fatica la testa e il silenzio si è impadronito dei suoi pensieri, imprigionandoli ancora una volta. Ha quasi 32 anni e quella doveva essere la sua storia, il suo giorno, la sua Olimpiade. Aveva preparato tutto nei minimi dettagli: salite, sudore, gambe, attacchi, discese. Ma non aveva fatto i conti con la sfortuna di sempre. Quella sfortuna che colpisce solo certi campioni. Quelli che quando vincono, sanno solo versare lacrime interminabili prima di salire sul podio. E mentre vengono portati in trionfo, stanno già pensando che non è ancora abbastanza.

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In copertina | Nibali visto da Gabriele Benvenuti

Francesco Veltri
Francesco Veltri

Guaribile romantico del giornalismo calabrese. Scrive per non dimenticare e si ostina a osservare l'inosservabile. Ha lavorato con alterne sfortune nelle redazioni della Provincia cosentina, di Cosenza Sport, di Cronaca della Calabria, di Calabria Ora e dell’Ora della Calabria. Per Diarkos ha scritto "Il Mediano di Mathausen"

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