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La solitudine di Fabio Aru

Francesco Veltri
Francesco Veltri
Luglio24/ 2017

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Vince sempre il più ricco, il più potente, quello che può spendere di più. Ci si abitua all’idea, alla legge del più forte, anche se più forte di tutti non è. Vince sempre chi costruisce corazzate, chi sborsa milioni e compra campioni per fargli fare i gregari del prescelto. Che poi, a un certo punto, diventa anche difficile tifare per qualcun altro che poteva, chissà, rompere l’incantesimo, e poi, naturalmente, non ce l’ha fatta. Diventa, anzi, persino più semplice esaltarsi e gioire per il Real Madrid, per il Barcellona, per la Juve, per Miguel Indurain e per Christopher Froome. Poi, però, può capitare, in un giorno qualsiasi d’estate, che un piccolo uomo riesca a stravolgere tutto o qualcosa vicino a quel tutto. Succede che un giovane sardo, dai denti sporgenti che un sorriso timido e sincero non nascondono mai, batta la Sky, la squadra invincibile, quella che tira il gruppo ogni giorno e che nessuno riesce ad affondare. Una macchina perfetta, come l’Ungheria di Ferenc Puskas, come il Real Madrid di Alfredo Di Stefano e il Barcellona di Leo Messi. Come la rossa di Michael Schumacher, come Ivan Drago. Accade che quel giovane sardo, che tra le montagne non è nato, decida di inventarsi scalatore di pendenze letali. Il perché non si sa, non è dato sapere. Poteva scegliere una vita di pianura, più semplice, più calma e tranquilla laggiù, a San Gavino Monreale. Ma la mente degli uomini è misteriosa. E così Fabio va via, perché per crescere senza impazzire deve trovarle quelle benedette e maledette montagne che già ama, che già odia, senza conoscerle ancora del tutto. Lascia la sua terra, lascia la famiglia. Piange, soffre, vorrebbe tornare indietro mille volte e forse più. Accusa la sua mamma di averlo abbandonato, ma poi resta e diventa un fuoriclasse silenzioso. Di quelli senza squadra, senza ricchezze esagerate, senza fisico scultoreo e definito. Senza i favori del pronostico. Mai. Ora è un predestinato che sa che difficilmente alzerà le braccia verso il cielo. Ma lui se ne frega. E quando il solito mondo pensa che lo squadrone britannico anche oggi abbia messo tutti a tacere, arriva lui, con la maglia verde, bianca e rossa sul petto, col volto scavato da scalatore per caso e con le gambe fini e leggere com’è l’aria in certe discese.

Peyragudes, sui Pirenei, a 400 metri dal traguardo, Fabio scatta. E’ stato tutto il giorno a guardarli fare e comandare, quelli della Sky. Si è tenuto a ruota del loro campione, quel Froome che la maglia gialla sembra averla scolpita sul corpo. Quel Froome che corre scomposto ma anche quando sbaglia una curva non cade mai, non si spezza mai. Tutto il giorno alle sue spalle, a tenere il ritmo di quegli uomini fortissimi vestiti di bianco, sempre pronti a proteggere e a far stancare poco il loro capitano. Il piccolo sardo, invece, di protezioni non ne ha. Non ha compagni decisi a sacrificarsi per lui, non ha più Michele Scarponi. Non ha neanche dalla sua parte la Francia che di solito si affeziona ai combattenti generosi. E’ rimasto solo, ma lo sapeva che sarebbe andata così. L’ultimo strappo è violento, fa girare la testa, fa quasi cadere dalla bici, soprattutto se lo affronti dopo una giornata come quella, piena di arrampicate, di precipizi e di sudore. Fabio scatta e con quelle pendenze disumane ogni pedalata e un po’ come quando è andato via di casa. Fa male, fa bene. Sale, sale ancora e Froome non è più accanto a lui. Il campione e il suo squadrone sono rimasti indietro. Da non credere. Pesa troppo arrivare in cima ma Fabio ci arriva, ed è terzo. Venti secondi dopo arriva il favorito, la star, il campione preferito dall’aristocratica francese. Se non c’è un francese di mezzo ovviamente. La maglia gialla adesso è sua. E’ di Fabio Aru. C’è ancora tanto da percorrere fino a Parigi, ma è in quel preciso momento che il Tour, dopo decenni, ritorna umano. Nessuno se ne accorge, nessuno forse se ne ricorderà, ma è in quell’istante che il piccolo uomo sardo dai denti sporgenti e dal sorriso timido e sincero, cambia la storia e le regole del gioco. Annientando la macchina perfetta, quella che tutti amavano perché pensavano, e forse si illudevano, di non potere amare altro all’infuori di lei.

E’ soltanto la dodicesima tappa. Poi, com’era previsto, arriveranno, implacabili, i venti e i ventagli, la bronchite e i distacchi, le Alpi e l’isolamento, il tormento e la crisi, la disillusione e la delusione. E infine, di nuovo, la solitudine. Cose da uomini normali. Cose da uomini speciali. Cose che i ricchi e i potenti non patiscono mai. Non avranno mai. Beati loro. Poveri loro.

Francesco Veltri
Francesco Veltri

Guaribile romantico del giornalismo calabrese. Scrive per non dimenticare e si ostina a osservare l'inosservabile. Ha lavorato con alterne sfortune nelle redazioni della Provincia cosentina, di Cosenza Sport, di Cronaca della Calabria, di Calabria Ora e dell’Ora della Calabria. Per Diarkos ha scritto "Il Mediano di Mathausen"

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