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BIRMANIA MANIA | Perché il fascino di Yangon vale nove aerei

mariarosaria petrasso
mariarosaria petrasso
Ottobre17/ 2015

di Mariarosaria Petrasso

Nove aerei, sette aeroporti, oltre cinquanta altri mezzi di trasporto (tra barche, taxi, autobus, metropolitane e tuk tuk) per un totale di circa venticinquemila chilometri. Tutto questo per un viaggio che Lonely Planet Italia giustamente definisce etico, in giro per il Myanmar. Meglio conosciuto come Birmania, da qualche anno ha finalmente aperto le sue frontiere agli stranieri e mostra tutto l’orrore di un Paese che ha vissuto la dittatura per più di cinquanta anni e tutta la bellezza di un popolo che ha conservato la sua autenticità, senza le ingerenze dell’ingombrante Occidente .

E’ fine settembre, l’aereo sorvola i deserti del Medio Oriente rischiarati dalle fiamme che si levano dai pozzi petroliferi. Il finestrino diventa un punto di vista privilegiato per l’eclissi della super-luna che, secondo la Nasa, sarà visibile di nuovo tra un bel po’ di anni. Dopo uno scalo in Oman e quasi quindici ore di viaggio, arriviamo a Bangkok. Dall’Italia non esistono voli diretti per il Myanmar e la Thailandia è una buona porta per il sud-est asiatico. E’ la mia seconda volta in questa città che non dorme mai. Per qualche giorno ci perdiamo tra mercati dei fiori e Chinatown, prima di ripartire per Yangon, l’ex capitale del Myanmar, sostituita da una decina di anni dalla città di Naypyidaw, una metropoli più grande di New York voluta dal regime militare ma che è praticamente deserta, anche a causa della sua posizione periferica. Dopo la frenesia moderna di Bangkok, la moquette macchiata e consunta dell’aeroporto di Yangon è già il presagio di un mondo completamente diverso. Nel caldo polveroso dell’area degli arrivi, troviamo il nostro tassista che mastica foglie di betel, come la maggior parte degli uomini che incontreremo in tutto il Myanmar. Sorride timidamente, con le labbra colorate di rosso carminio e qualche parola smozzicata in inglese.

La prima impressione avuta è una città di eterna periferia, nonostante i suoi quattro milioni di abitanti. Decadente e ferma a un tempo indefinito, arranca malamente verso la modernità, portandosi dietro i fasti un un’epoca coloniale ormai annerita dallo smog e dall’incuria. Il centro è un’enorme scacchiera che di notte è rischiarata solo dalle insegne dei negozi e dalla scarsissima, se non del tutto assente, illuminazione pubblica. Marciapiedi dissestati e tombini aperti fanno il resto, tanto da costringerci a camminare muniti di torcia. Alle nove di sera l’inevitabile coprifuoco, mentre i cani randagi trotterellano tra le ultime bancarelle di frutta, illuminate con lampadine attaccate a grosse batterie.

Raccontata così, Yangon sembra una città terrificante. In realtà è sede di uno dei luoghi più belli e importanti del buddhismo Theravada: la Shwedagon Pagoda. Uno stupa dorato – alto quasi cento metri e impreziosito da centinaia di pietre preziose – che, secondo la leggenda, custodisce le reliquie di quattro Buddha. Intorno, decine di altre pagode minori. A tutta l’area si accede rigorosamente scalzi, la giornata nuvolosa ci salva dai marmi roventi a cui sicuramente i nostri delicati piedi occidentali non sono abituati. La gente ci guarda incuriosita, anche se negli ultimi anni il governo ha aperto i confini al turismo straniero, sono ancora pochi gli occidentali che decidono di visitare il Myanmar. Un’anziana ci benedice, un ragazzo fa sfoggio del suo spagnolo e ci dice che lo sta studiando, i bambini sorridono con quell’aria un po’ imbarazzata che non cambia in nessun posto del mondo. Passiamo qualche ora a passeggiare tra stupa e pagode riccamente decorate, tutto è quieto e magnifico allo stesso tempo.

Trovare un posto dove cenare, se pensate ai ristoranti occidentali, è pressoché impossibile. Almeno se volete mescolarvi alla gente locale. Anche seguendo i consigli della guida, si finisce inevitabilmente in luoghi che hanno l’aria di mense ospedaliere, con decine di camerieri che spazzano la sala o strofinano con uno spazzolone insaponato la soglia della cucina. Dimenticate ogni banale norma igienica a cui siete abituati e potrete assaggiare i tipici curry birmani, piatti di carne o pesce a cui aggiungere riso bianco, accompagnati da una zuppa di erbe amare.

La Coca-Cola è arrivata nel 2013: una lattina costa quanto una birra da 66cl, c’è scritto: “Proudly produced in Myanmar”. Quanto ci sia da essere orgogliosi è difficile da capire. Dalla leggera euforia delle foglie di betel al colesterolo della celebre bibita, sicuramente il passo è lungo.

(1. continua)

mariarosaria petrasso
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Scrivana giramondo per passione, amo raccontare di luoghi e umanità. Credo che il miglior passo sia quello a sei zampe e infatti la mia compagna di avventure è una lupa di nome Nives. Con il giornalismo non ho mai guadagnato un granché, ma questa non è una buona ragione per smettere.

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