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BIRMANIA MANIA | Le donne giraffa e i figli del lago Inle

mariarosaria petrasso
mariarosaria petrasso
Novembre24/ 2015

di Mariarosaria Petrasso

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La parte degli arrivi internazionali a Yangon è una parte di aeroporto ferma ad almeno cinquanta anni fa. Quella dei voli domestici invece sembra un enorme mercato di epoca coloniale, con colonnati di teak, gente che fuma dalle balaustre e grandi bilance pesa-bagagli che ricordano più una fruttivendola che un aeroporto. Non ci sono nastri trasportatori ma decine di facchini che smistano le valigie da stiva, attaccando talloncini colorati compilati a mano. Anche le nostre carte d’imbarco sono compilate a mano, con alcuni adesivi prestampati ci assegnano i posti sull’aereo. Tutto ciò senza mai mostrare i passaporti. Il piccolo aereo con i motori ad elica ci fa fare un salto nel tempo, mentre dal finestrino seguiamo con lo sguardo fiumi e immense foreste. Il volo in poco più di un’ora ci porta a Heho. Scendiamo sull’unica pista e l’aereo riparte, come una sorta di buffo autobus del cielo. Arriviamo a Nyaungshwe in taxi, vicino al lago Inle. Siamo nello stato Shan e dopo il traffico caotico di Yangon e il caldo opprimente, l’aria fresca e la tranquillità di questo paesino di pescatori ci spinge a fare una lunga passeggiata fino al monastero di Shwe Yan Pyay. Nel cortile bambini che giocano a pallone, mentre i monaci chiacchierano nell’imbrunire. Torniamo ormai al buio al nostro bungalow, usando le torce dei cellulari per farci strada. Conserviamo il giro sul lago e il giorno dopo decidiamo di andare a Kakku e al mercato dei cinque giorni che ruota in diverse città intorno al lago Inle.  Lo raggiungiamo a Taunggyi. Per accedere all’area di Kakku abbiamo bisogno di una guida della tribù pah-o, la zona infatti conserva una certa autonomia e ci spiegano che, per una questione di superstizione, gli stranieri non possono entrare se non sono accompagnati. La nostra guida è una ragazza dolcissima, sorride radiosa e indossa il vestito tradizionale della sua tribù.

Ci conduce nel mercato di Taunggyi, una miriade di frutta, fiori, carne e pesce tenuti a terra su stuoie che si ribellano ad ogni forma più elementare di igiene. Arriviamo al banchetto del thanaka, una crema ricavata dalla corteccia di alcuni alberi, che le donne usano principalmente per proteggersi dal sole. Mi chiedono se voglio provarlo e ovviamente accetto. Regalo 50 kyat (l’equivalente di meno di 40 centesimi di euro) e la venditrice passa la banconota su tutta la sua merce, in segno di buon augurio.

La strada per Kakku ci dà un primo assaggio di quanto sia difficile muoversi in Myanmar. Alla velocità massima di cinquanta chilometri orari, attraversiamo campi coltivati, arati ancora con i buoi. Ci fermiamo a guardare alcune donne che mietono il riso: sembra di essere in un quadro di Van Gogh. Kakku è un sito archeologico composto da quasi 2500 stupa buddhiste. Una collinetta che sembra provenire da un altro mondo, porta i segni di una devozione antica che si intreccia con gli elementi della natura e antiche storie di esseri mitologici, mentre il vento muove le centinaia di campanelle attaccate agli stupa. La guida ci racconta le storie, ci mostra i posti più belli nel labirinto di monumenti, mentre si ripara dal sole con un ombrello. Ci dice che non le piace l’abbronzatura e io sorrido pensando a tutti i soldi che gli occidentali spendono per fare esattamente il contrario.

Prima di tornare a Nyaungshwe, la guida ci fa visitare un villaggio pah-o. Un’anziana sorride, ci accoglie in casa sua. Lasciamo le scarpe sull’uscio ed entriamo in un mondo fatto di stuoie, di pareti intrecciate di giunchi, focolari al centro della stanza. La nostra accompagnatrice ci chiede di non dimenticare tutto questo, di non dimenticare la sua tribù. Proveremo a mantenere la promessa.

SUL LAGO INLE

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Il giorno dopo passiamo l’intera giornata in barca, scandagliando l’intricato labirinto di canali che si diramano lungo le sponde del lago Inle. Le imbarcazioni degli inthas, la tribù del lago, sono lunghe e agili e i pescatori le manovrano con grazia mentre pescano con grandi nasse. Le figure di queste persone sottili, sotto i grandi cappelli, costruiscono immagini quasi fiabesche, in bilico sui remi corti si muovono come se danzassero sull’acqua. In Asia non è difficile finire in un mercato e anche qui, in uno dei tanti minuscoli villaggi, siamo circondati da venditori che ci offrono le più svariate mercanzie. Passiamo da un villaggio all’altro, mentre bambini giocano nell’acqua, donne lavano vestiti e le case-palafitte si specchiano nelle acque calme del lago. Visitiamo un opificio tessile dove filano la fibra dei fiori di loto ma la vera particolarità di questa zona sono gli orti galleggianti. Gli inthas hanno sviluppato un metodo di coltivazione che sfrutta le alghe presenti sott’acqua che fanno da “terreno” per tutti gli ortaggi più comuni.

La guida ci annuncia che vedremo le donne giraffa. Ho pensato ci fosse una piccola comunità di Padaung, la tribù di appartenenza di queste donne famose per gli anelli che portano intorno al collo (qui una gallery), e invece ci troviamo in un negozio di souvenir di fronte a tre di loro, di cui una giovanissima, intente a lavorare al telaio. Avremmo voluto evitarlo; in questo contesto, come in alcune zone della Thailandia, le donne giraffa sono utilizzate come fenomeni da circo per attirare i turisti e in realtà, oltre allo zoo etnico, è ancora abbastanza nebuloso il motivo per cui indossano questi cerchi di ottone e nessuno si preoccupa di spiegarlo. Scatto poche foto, sorrido con un’espressione di scuse. La più anziana forse capisce e ricambia il mio sorriso. Ci sono diverse leggende in merito agli anelli che indossano. Alcuni dicono sia un modo per abbellire il loro corpo, altri invece che furono utilizzati al contrario per dissuadere gli stranieri dal cogliere la virtù delle donne padaung. Tuttavia è sicuramente la più suggestiva quella che narra che gli spiriti maligni Nat si arrabbiarono molto con la tribù kayan, detta anche padaung di cui fanno parte le donne giraffa. Gli spiriti Nat aizzarono le tigri contro le donne della tribù che, per difendersi dai morsi letali dei felini, decisero di rivestire il collo, i polsi e le caviglie con anelli di metallo.

Prima di rientrare a Nyaungshwe, ci allunghiamo fino a Inthein. Uno tra i luoghi più importanti della zona del lago Inle, è un pezzo di spiritualità rubato alla giungla che avanza. Molte stupa sono in rovina, altre restaurate, altre completamente dorate. Intorno decine di ragazzi e ragazze che studiano, spio sui loro quaderni: stanno facendo compiti di geometria. L’ultima tappa sul lago è il monastero di Nga Phe Kyaung, più noto come monastero dei gatti che saltano. In realtà non abbiamo trovato monaci intenti a dare spettacolo con i mici che sonnecchiavano sui tappeti, ma una struttura costruita interamente in teak con un sistema di palafitte, che conserva al suo interno pregevoli statue del Buddha e piedistalli finemente intarsiati.

Bisognerebbe saper abbandonare più spesso quello che di superfluo ci raccontano sui luoghi per apprezzarne la vera bellezza.

(3. continua)

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mariarosaria petrasso
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Scrivana giramondo per passione, amo raccontare di luoghi e umanità. Credo che il miglior passo sia quello a sei zampe e infatti la mia compagna di avventure è una lupa di nome Nives. Con il giornalismo non ho mai guadagnato un granché, ma questa non è una buona ragione per smettere.

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