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FIDEL MURIO’ | Quell’ultimo goccio di rum chiamato ‘900

marco panettieri
marco panettieri
Novembre26/ 2016

Con Fidel Castro muore il 900. Era il 2012 quando nell’istituto di ricerca dove lavoravo entrarono i primi due dottorandi di Cuba. Facevano parte di un progetto di cooperazione che fino ad allora aveva permesso i viaggi solo per i professori più anziani. Entrambi sono più vecchi di me, entrambi avevano già famiglia e figli piccoli proprio per questo ebbero il lasciapassare per andare in Europa. Nonostante questo, alla domanda “Tornerai a Cuba dopo questi mesi o chiederai asilo?” la risposta era sempre la stessa: “Deciderò solo l’ultimo giorno”. Uno di loro è molto scuro di carnagione, tanto che il mio conoscente (un esule cubano) che gli affittava una stanza lo chiamava “Azulito”. L’altro è ben lontano dall’immaginario collettivo a proposito dell’aspetto dei cubani: basso, tarchiatello, biondo e con gli occhi azzurri. Era originario di Guantanamo, non rivelerò il suo vero nome, ma lo chiamerò Usnavy, il nome che sua zia diede a un suo cugino mentre guardava passare la flotta e gli aerei dei gringos.

Usnavy arrivò qualche mese dopo il suo collega, era già preparato a quello che lo attendeva e non fu sorpreso come il primo quando lo portai a visitare un supermercato. Usnavy aveva pochissimi vestiti in valigia, ma aveva ben 3 bottiglie di Rum e 3 scatole di sigari. Aveva intenzione di rivenderle, dato che i prezzi sono più o meno 20 volte più alti in Europa. Usnavy a Siviglia guadagnava circa 500 volte di più dei 30-35 pesos convertibles che guadagnava a Cuba (scambiati alla pari coi dollari). Mi raccontava che i giorni in cui finiva presto di lavorare nella capitale, andava in un hotel turistico dove un amico gli permetteva di mettersi in fila per offrire aiuto agli stranieri per portare le valigie. Un paio di dollari di mancia, moltiplicato una decina di valigie gli davano la possibilità di raddoppiare il suo stipendio in breve tempo.

Usnavy aveva ben chiara una cosa, Siviglia era un’opportunità economica e dalla prima settimana si dedicò a comprare tutto ciò che aveva difficoltà a trovare a Cuba. Coltelli, bagnoschiuma, biancheria intima, vestiti, un computer fisso e così via. Nessuno arrivò a capire come, nonostante il bloqueo, riuscì a mandare tutto ciò alla sua famiglia. Una volta mi disse che comprò finanche una lavatrice, facendola arrivare da chissà dove e chissà come sull’isola. Ripeteva che ormai a Cuba potevi trovare tutto o quasi, anche i biglietti aerei per viaggiare sicuro ed evitare le zattere (las balsas), ma che i prezzi erano a livello Europeo e gli stipendi invece ben lontani. Così il cellulare e le bollette glieli pagavano dei cugini che abitavano a Miami.

Usnavy nel complesso era contento di vivere a Cuba, per i problemi un giorno dava la colpa a Fidel e al regime, un altro all’embargo. Alla fine decise di tornare, acquistò il mio netbook da 10 pollici, fabbricò una specie di fascia elastica e se lo incollò dietro la schiena, in quanto la dogana non avrebbe acconsentito al passaggio di un pc fisso e di un netbook contemporaneamente.

Una delle ultime sere, decise di dividere con noi le bottiglie di rum che non aveva venduto. Dette delle istruzioni chiare: il primo sorso (el primer trago) va gettato vicino la porta, per omaggiare i Santi. Poi devi bere senza bicchieri, direttamente dalla bottiglia, la misura di quanto puoi bere te la fornisce l’anatomia “lo que te entre en el buche” (letteralmente: quello che ti entra nel ventre). Poi passi la bottiglia in circolo, sperando che ritorni o che il governo te ne lasci comprare un’altra.

Mi ripeteva sempre di andare a visitare Cuba prima che Fidel morisse, perché poi sarebbe cambiato tutto. Non ho fatto in tempo e me ne rammarico. Lui diceva che senza la Rivoluzione sarebbero stati più felici, o non sarebbero esistiti del tutto. Ripeteva che il nostro sistema capitalistico era corrotto e stava per finire, ma Fidel aveva avuto fretta, era arrivato troppo in anticipo. Non sento da un po’ Usnavy, Internet a Cuba va a singhiozzo. Chissà se oggi la linea è più stabile.

marco panettieri
marco panettieri

Il nome lo eredità da Tardelli, non il fiato. Cervello in fuga in attesa di nuova ricollocazione geografica. Scrive in italiano perché non vuole dimenticare la sua seconda lingua nativa. Al dialetto ci pensano i parenti.

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