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LIBERDADE* | Perché è azzurro il cielo d’Amazzonia

alfredo sprovieri
alfredo sprovieri
Giugno16/ 2014

di S. Alfredo Sprovieri

futebol
Futebol arte, fotografia dall’Amazzonia di Caio Vilela.

Uomo contro uomo, la grande Amazzonia farà la sua scelta. Al calcio d’inizio di Italia – Inghilterra tutto il mondo s’è chiesto perché Pirlo, Balotelli e compagnia siano così amati dai popoli indio della foresta più grande del Globo. Un reportage del Corriere della Sera di mesi fa firmato dal giornalista Eliano Rossi (leggi qui) ci ha ricordato che la città di Manaus è nata con il sogno di diventare una città europea nel centro del Brasile. A cavallo del 20mo secolo furono reclutati i migliori imbianchini e architetti europei perché ne facessero la Parigi dei Tropici ma, come capita ai gloriosi fiumi che si innamorano lungo i suoi viali, le culture a Manaus si rincorrono per molto tempo prima di sposarsi e poi lasciarsi di nuovo. Perciò bisogna andare a cercare qualcosa di più profondo. All’Arena Amazonia sorta nel centro cittadino, lontano dalle favelas,  i paisà di Cesare Prandelli, sospinti dalla torcida brasileira, sabato hanno battuto di nuovo i maestri inglesi, come ormai succede da molto tempo, ma non è andata sempre così. L’anno che cambia il corso del destino è il 1973, gli Azzurri battono gli inglesi prima a Torino e poi a Londra. Cinque giorni prima dell’amichevole in terra sabauda, disputata il 14 di giugno, gli italiani battono il Brasile campione del mondo, poi il 14 di novembre il famoso gol di Fabio Capello a Wembley a quattro minuti dalla fine.

LA BATTAGLIA DELL’ARAGUAIA Nello stesso periodo insieme a quel destino sportivo mutava, irrorato di sangue, il corso millenario dei fiumi della grande Amazzonia. Ad ormai dieci anni dal colpo di Stato, finiva con un esecuzione sommaria la Guerriglia dell’Araguaia, la resistenza brasiliana. Circa sessantanove fra operai e studenti catturati, torturati e sterminati in tre operazioni militari del regime dei Gorillas chiamate Pappagallo (aprile 1972), Anaconda (ottobre 1973)  e Marajoara (novembre 1973). Per sradicare il sogno rivoluzionario di un pugno dei ragazzi il governo brasiliano impiegò circa diecimila soldati in quegli anni; oggi, per garantire la sicurezza ai Mondiali di calcio e tenere le proteste popolari lontane dagli stadi e dalle telecamere, sono impiegati 172mila uomini armati. Tre per ogni turista, 40mila uomini in più che nella guerra del Paraguay del 1865, mentre nella campagna d’Italia del 1943, l’operazione militare più significativa della storia brasiliana, furono 25.445 soldati inviati nel Belpaese per estirpare il morbo di Mussolini. Pur in clamorosa minoranza i ragazzi della guerriglia d’Araguaia resistettero tutto quel tempo perché furono amati dai popoli indio. Arrivarono in Amazzonia per combattere insieme a loro le tremende condizioni di sfruttamento e miseria di quei popoli. Uno dei primi ad arrivare fu un ragazzo italiano, si chiamava Libero Giancarlo Castiglia, di San Lucido, in Calabria. Libero, diventato il leggendario comandante “Joca”, sbarcò sul fiume a Natale del 1967 insieme al capo del partito comunista brasiliano, il grande intellettuale Mauricio Grabois. La sua è una storia incredibile. Arrivò a Rio dalla Calabria nel 1955 insieme alla sua famiglia. Era un tornitore meccanico che militava nel giornale di sinistra A Classe Operaria quando scoppiò il colpo di Stato, poteva salvarsi e tornare in Italia, ma decise di provare a cambiare le cose. Negli anni precedenti alla guerriglia fu spedito dal partito in Cina a fare addestramento maoista, lì conobbe Daniel Ribeiro Callado, un campione di calcio che si faceva chiamare Doca e con lui condivise un destino eroico.

Gruppo di escursionisti a Rio; fra loro Libero Giancarlo Castiglia e Osvaldo da Costa, i futuri comandanti guerriglieri Joca e Osvaldao.
Gruppo di escursionisti a Rio; fra loro Libero Giancarlo Castiglia e Osvaldo da Costa, i futuri comandanti guerriglieri Joca e Osvaldao.

IL CAMPIONE DOCA Joca e Doca furono mandati in un’altra regione dell’immensa Amazzonia a vivere in incognito prima della lotta di liberazione, dovevano vivere come due semplici operai nella città di Rondonopolis. Missione impossibile, quelli non erano due ragazzi qualunque. L’italiano era illuminato da una luce speciale; amava la musica e la letteratura al punto da arrivare a riscrivere da solo la Divina Commedia in chiave contemporanea; Doca, invece, era un fuoriclasse del Sacro Futebòl. Chi l’ha conosciuto giura che avrebbe dovuto giocare il Mondiale in Messico, titolare nella Nazionale di Pelè, Garrincha e Rivelino. Prima di abbracciare un destino collettivo difatti aveva guidato la squadra del suo Stato, il São Gonçalo, alla vittoria del campionato, rimanendo impresso nella memoria di tutti come un genio assoluto. Rondonopolis ebbe soltanto un mistero più grande di quel campione arrivato dal nulla, la sua scomparsa. Appena messo piede al bar del quartiere scoprì la  “Batidinha”, la squadra locale e poche settimane dopo Doca era un nome battuto dalla lingua sul palato di tutti. Diventò uno dell’invincibile quartetto, la linea difensiva che garantì una lunga serie di vittorie irripetibili alla Batidinha. Doca in quella squadra faceva l’esterno destro, in realtà poteva giocare a centrocampo, o più avanti ancora. Era un regista nato, come pochi altri del tempo. Carisma, fisico statuario ma elastico, tecnica sopraffina, visione di gioco e fantasia, soprattutto la fantasia; gli ingredienti del giocatore moderno mixati da uno stile antico di condurre il gioco: passaggi brevi e corsa lunga, sempre con la testa alta e il pallone incollato al piede. Come il grande Carlos Alberto, l’uomo che con il suo gol all’Italia sancì il ritorno della Coppa Rimet in Brasile, nel 1970. Poteva essere al suo posto, ma scelse un destino diverso, collettivo: come il suo amico italiano si immolò nella battaglia e morì nel 1974 per mano dei militari, dopo le torture in un carcere chiamato casa azùl, azzurra come l’Italia. Il comandate Joca, Che Guevara del Brasile, morì invece gloriosamente in battaglia, dopo l’agguato di Natale del 1973 in cui vennero sterminati i capi del partito. Alle operazioni militari di quegli anni ne seguì un’altra chiamata Pulizia, del 1975, che servì ad occultare i cadaveri. Il mondo non doveva conoscere il coraggio di quei ragazzi e il loro caso è ancora oggi al centro di una serie di avvenimenti clamorosi, che ruotano attorno alla misteriosa visita datata 2007 del ministro brasiliano dei Diritti Umani a San Lucido, paesino della costa tirrenica cosentina dove il governo carioca con il beneplacito di quello italiano preleva i campioni del dna della famiglia Castiglia dall’anziana madre di Libero.

Andrea Pirlo, capitano della Nazionale italiana nella gara di Manaus, in Amazzonia.
Andrea Pirlo, capitano della Nazionale italiana nella gara di Manaus, in Amazzonia.

IL GIGANTE NERO E IL BARBUDO Ci sono anche altre due suggestioni che possono spiegare l’amore delle popolazioni amazzoniche per Balotelli e Pirlo. Per il capitano Andrea maestro del centrocampo bisognerebbe rispolverare le leggendarie vittorie di Giuseppe Garibaldi lungo il Rio Grande. Lì il nizzardo che fece l’Italia sconfisse ogni nemico, seppur ogni sua nave potesse contare su più bocche di fuoco di quelle dell’intera flotta guidata dall’eroe dei due mondi. Le sue gesta fecero il giro del mondo, così come il suo amore per una ragazza brasiliana. Dopo averla inquadrata con il cannocchiale mentre si trovava a bordo della nave Itaparica, Garibaldi fece di tutto per raggiungerla e per dirle, in italiano, “tu devi essere mia”. Così nasce la storia con Ana Maria de Jesus Ribeiro da Silva, che passerà alla storia come Anita. Invece il centravanti nero del Milan ricorda l’altro comandate dell’Araguaia, Osvaldo Orlando da Costa, il mitico Osvaldao, un campione di boxe e pallacanestro che da queste parti, ancora oggi segnate dal ottuso potere del ricco uomo bianco, è ricordato come una sorta di Martin Luther King. Gli indio lo credevano immortale, posseduto da spiriti della foresta come il curupira, il guardiano dei boschi. Secondo la leggenda il curupira era molto più scaltro degli uomini ed era imprendibile perché aveva i piedi al contrario, così che le tracce risultassero fuorvianti per i cacciatori. Anche il comandante Osvaldao usò questo trucco in una battaglia che lo vedeva spacciato, facendo indossare a tutti i suoi soldati gli stivali al contrario. Cadrà per ultimo, in un agguato alle spalle dopo anni e anni di vittorie, e il suo corpo martoriato in elicottero verrà mostrato ai villaggi perché tutti capissero che a nulla serve ribellarsi alla schiavitù.

ÍNDIOS DESOCUPAM TERRA
Manaus, nella città della vittoria dell’Italia gli indio subiscono sfratti e persecuzioni in nome del progresso.

Dopo il caucciù tocca al biodiesel; oggigiorno in Amazzonia i popoli che tanto amarono i giovani rivoluzionari giocano la stessa partita contro giganti internazionali disposti a tutto per avere i tesori di questa immensa riserva naturale. La giornalista Conchita De Gregorio in un reportage uscito in questi giorni su Repubblica (leggi qui) ha raccontato l’Italia – Inghilterra di Hiandra, una bambina che abita le strade sterrate di Manaus e che ha dovuto fare il giro del vicinato per farsi prestare un paio di infradito nella speranza di incontrare Mario Balotelli per un autografo. Quaranta anni prima Andrè Grabois, con il nome di battaglia Ze’ Carlos, così spiegava al caro amico Castiglia perché era importante iniziare da quei villaggi il sogno di liberazione del popolo brasilaino:  “Non possiamo più tollerare che qui i bambini crescano senza sapere cos’è un giocattolo”.

 

*Estratto numero 2 da “LIBERDADE”, libro-inchiesta in attesa di un editore.

alfredo sprovieri
alfredo sprovieri

Nel 2002 ha fondato "Mmasciata". Poi un po' di tv e molta carta stampata. Più montano che mondano, per Mimesis edizioni ha scritto il libro inchiesta: "Joca, il Che dimenticato".

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