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‘U PIRTUSU | La miniera di Trabia Tallarita, viaggio al centro della Mafia

Matteo Dalena
Matteo Dalena
Settembre07/ 2015

di Matteo Dalena

L'impianto di flottazione della miniera Trabia Tallarita al confine tra il territorio di Sommatino e Riesi, in provincia di Caltanissetta
L’impianto di flottazione della miniera Trabia Tallarita al confine tra il territorio di Sommatino e Riesi, in provincia di Caltanissetta

«Non capiremo nulla della mafia se non ricostruiremo, pezzo per pezzo, la vicenda mineraria, la vicenda delle preistoriche miniere baronali siciliane». Intrappolati dal racconto di Leonardo Sciascia ci siamo immersi nella Sicilia più profonda. Tre ore d’auto circa da Messina e tanta pazienza per raggiungere quel che rimane della miniera “Trabia-Tallarita”, posta sul confine tra Riesi e Sommatino, in provincia di Caltanissetta. Oggi reperto di archeologia industriale – o semplicemente ecomostro –  ieri una delle vacche più pingui da mungere per quel potere politico-mafioso che, ancora negli anni ’70, continuava a fare affari con la grande industria dello zolfo.

I caratteristici calcheroni, fornaci in pietra per la produzione dello zolfo liquido, il grande pozzo “Vittorio Vitello” e poi il mega impianto di flottazione, sono ancora lì a rendere avvincente e allo stesso tempo spettrale la passeggiata, parlandoci di un fosco passato e di un presente negato. Nel sottosuolo c’è una città ormai nascosta, inaccessibile, centinaia di tunnel che conducono verso il centro della terra, in quello che per due secoli e mezzo, dal 1730, è stato il cuore operaio della Sicilia orientale. Da questi pirtusi vengono a galla storie di carusi e picconieri, costretti a orari massacranti con l’incubo della morte ad ogni passo: esplosioni di gas grisoù o attacchi del temibile “verme ad uncino” (anchilostomiasi) che intrufolandosi dagli arti inferiori mieteva vittime al pari della malaria. Su di una collina di erge poi maestosa “villa Torlonia”, casino di campagna ormai abbandonato ad uso dei direttori della ex miniera.

 

Ci conducono lassù i ricordi di Enzo Giuliana, ex minatore comunista di Sommatino, paese-serbatoio di braccia da lavoro per la zolfara poco lontana, che un giorno quel vecchio luogo d’infamie e potere decide di visitarlo:

– «A metà circa della scalata mi ferma Pasquale, con un fucile sbucato dal nulla – racconta l’ex minatore – era un mio vecchio compagno di scuola col quale non avevo nulla da dividere perché sapevo che lui era un mafioso, un criminale. Mi intima di fermarmi perché villa Torlonia, è ormai vicina: “Fai un altro passo avanti e ti ammazzo qui stesso”».

Enzo Giuliana ha paura, desiste. In paese consulta i compagni di fatica e viene a sapere che proprio lì, a villa Torlonia, era in corso una riunione di picciotti al servizio della “tigre di Riesi”, Giuseppe di Cristina:

 – «A villa Torlonia era nascosto qualche “coniglio”. Si parlava di un industriale milanese che avevano sequestrato per la cui liberazione Lucianeddu (Luciano Liggio ndr) pretendeva due miliardi».

Della miniera Trabia-Tallarita, proprietà della Sochimisi, Peppe Di Cristina – capomafia di Riesi e membro di Cosa Nostra scomparso nel 1978 – fu cassiere per molti anni. Di Cristina finì in malo modo, per mano dei Corleonesi di Riina, con in tasca un assegno del banchiere dello Ior Michele Sindona, ma prima disegnò ai suoi piedi un impero che faceva della miniera il suo cuore. Un groviglio di affari e politica che possiamo capire guardando al suo testimone di nozze, il senatore democristiano Graziano Verzotto, presidente dell’Ente Minerario Siciliano. Secondo le deposizioni di Tommaso Buscetta, i due sono implicati nella morte del presidente dell’ENI Enrico Mattei. La società chimica siciliana era collegata all’Ems, definito dal giornalista catanese Luciano Minore: «Luogo strano e ospitale per chi ha giurato fedeltà alle cosche e alla massoneria». Fino alla liquidazione della Sochimisi e alla chiusura di tutte le miniere, ormai antieconomiche, avvenuta tra il 1975 e il 1988, si speculò su tutto. Come spiega il geologo Giuseppe Arengi «qui tutto divenne mercimonio, tangenti e bustarelle varie. Anche nell’acquisto di materiali di produzione e soprattutto di costosissime macchine vi furono degli spropositi esemplari. Soldi, concessioni, aiuti di Stato che sono stati dati all’ambito minerario per evitare disordini sociali sapendo che era un’industria che non aveva più futuro». 

Questo immenso scheletro industriale resta custode di uno dei misteri più profondi, cimitero di un’imprenditoria illuminata ed affascinante come quella impersonata dal principe Lanza di Trabia a favore di un capitalismo zombie senza volto. Della “Solfara grande” oggi rimane un museo che sopravvive a stento gestito dalla Soprintendenza: 4 euro d’ingresso per una guida svogliata e il divieto assoluto di qualsiasi ripresa, qualche pezzo di zolfo o arnese e poi chilometri di nulla. Ruggine e asfalto, papaveri e grano maturo a contrassegnare un luogo, la via della “Solfara Grande”, senza alcuna identità. Una strada che non esiste: la vecchia provinciale che a un certo punto si perde nel nulla della campagna attraversata dal fiume Salso, sarebbe in teoria interdetta al transito. Ma pescatori d’anguille, cercatori di funghi al pari di malviventi d’ogni risma la trovano diversamente utile ai propri scopi. Negli anni passati traffico d’armi e di droga, persino ritrovamenti di cadaveri, l’hanno resa tristemente nota alle cronache locali, ormai dimenticata da tutti i governi e amministratori.

Matteo Dalena
Matteo Dalena

Storico con la passione per la poesia, imbrattacarte per spirito civile. Di resistenza.

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