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il reportage | MOTEL MIGRANTE

Francesco Cangemi
Francesco Cangemi
Agosto31/ 2016

Non è l’albergo a cinque stelle citato dai razzisti, ma non è nemmeno una bettola. Il Centro di accoglienza straordinaria di Conflenti, nel catanzarese, è migliorato molto dall’ultima visita della rete LasciateCIEntrare. Lo gestiva una cooperativa che oggi non ha più la possibilità di chiedere al prefetto l’attivazione di un Cas. Tre lettere che in questa estate calabrese sono diventate “magiche” per alcuni. I centri di Accoglienza Straordinaria (CAS) sono stati immaginati per sopperire alla mancanza di posti nelle strutture ordinarie di accoglienza. La permanenza dovrebbe essere limitata a poco tempo, ma ormai tutto questo è diventato la norma. Di colpo i migranti non sono più un problema ma sono diventati una risorsa (economica), grazie alla facile possibilità di aprire un Cas con un’associazione, una cooperativa o un’azienda. Basta andare in una Prefettura, dimostrare di avere una struttura e si ottiene il permesso. Facile. Fin troppo: è il Motel Migrante.

In Calabria, questa estate, sono sbarcati quasi tremila migranti. Molti di loro sono dei rifugiati politici e chiedono di accedere al programma Sprar che dovrebbe consentire allo Stato italiano di metterli al sicuro dalle guerre e dalle violenze da cui sono costretti a scappare. Nella gran parte dei casi, se non fosse per le associazioni a cui vengono affidati i progetti dello Sprar, queste persone sarebbero totalmente allo sbando. Yasmine Accardo è la responsabile territoriale di LasciateCIEntrare, vive fra la Basilicata (“la Lucania”, come dice spesso lei), e la Calabria. In Calabria questa estate è venuta molte volte. O lei o qualcuno dei suoi colleghi, perché i Cas nella regione sono diventati molto appetibili: sono finiti nei business di alcune delle famiglie della politica o di quelle che si occupano di sanità privata; sono entrati un po’ nel mirino di tutti, persino nel mirino di chi possiede un hotel. Accade a Rende, a un passo da Cosenza (città in cui passano molti migranti perché, fra loro, si è sparsa la voce di come il sistema accoglienza alternativo a quello della burocrazia funzioni molto bene), per esempio dove un residence è diventato prigione dorata per 20 persone, tutte richiedenti asilo provenienti dal Togo, dalla Nigeria, dalla Guinea, dall’Eritrea. Con Yasmine a far visita a questi centri ci sono Emilia Corea dell’associazione La Kasbah di Cosenza e l’attivista Francesco Formisani.

 

A Conflenti, qualche mese fa, la situazione era molto critica: uomini e donne vivevano tutti negli stessi spazi, problemi con il cibo e con i pocket money. Già i pocket money: lo Stato paga, per ogni migrante presente in un Cas, 35 euro, questi soldi dovrebbero servire per “gestire” le esigenze degli ospiti come telefono o all’acquisto di beni primari. Ad ogni migrante del Centro vanno 2.50 euro giornaliere che però vedranno solo a fine mese. Molte volte questi spiccioli vengono pagati in ritardo oppure non vengono spesi realmente per le esigenze dei migranti, ma in una parte dell’opinione pubblica ormai “loro” vengono qui a rubarci i nostri soldi, a rubare le tende ai terremotati. In questi giorni però il razzismo da bar ha subìto un duro colpo: i settantacinque migranti delle strutture Sprar di Gioisa Ionica hanno deciso di donare i 2.50 euro giornalieri del loro pocket money alle popolazioni terremotate di Lazio, Umbria e Marche. Hanno voluto aiutarci a casa nostra. Tanti i migranti che sono andati a spalare macerie nelle zone del terremoto. Ma queste sono cose che ai Bertolaso da bar non interessano. A Conflenti scopriamo che i Cas gestiti da Erima sono due: uno per donne e uno per uomini. A separarli, in questi giorni, c’è la festa patronale che impedisce alle auto l’ingresso in paese. Le donne sono 13 e c’è lì una bambina che ha meno di due anni. Non c’è nessun operatore quando arriva la delegazione. Le donne vengono quasi tutte dalla Nigeria e una dal Mali, sul volto qualcuna porta i segni dell’etnia d’appartenenza, altre della violenza. Due delle ragazze dicono di avere “eighteen years” ma abbassano lo sguardo quando lo dicono. Meglio stare con i maggiorenni che essere sbattute in centro per minori avranno pensato. Quattro donne sono incinta, una di loro ha la pancia così bassa che hai come l’impressione che ti partorisca davanti agli occhi. Il medico non lo vedono da tempo e quelle arrivate da pochissimo non hanno fatto ancora nessuna visita, non hanno iscrizione al Servizio sanitario nazionale e lamentano che l’acqua arrivi solo dal cassone. Aprono il rubinetto e si sente l’autoclave partire. La tv è accesa sul canale della Paramount perché ha il doppio audio e la si ascolta in inglese. Tredici donne africane guardano le storie dei protagonisti del cinema americano sognando di stare altrove e non in quella struttura. Arriva uno dei responsabili della cooperativa e gli attivisti raccontano delle istanze che hanno sentito. Lui garantisce che tutto è ok: c’è lo psicologo, il medico, l’avvocato e tutto quello che serve ma, quando Emilia, Yasmine e Francesco insistono dice che accontenterà le altre richieste delle ragazze anche se «c’è sempre qualcosa per cui lamentarsi».

Al Cas degli uomini, come dalle donne, i migranti possono cucinare da soli ciò che mangiano. E’ un fatto eccezionale perché quasi sempre viene imposto un servizio di catering che non tiene conto di gusti o esigenze religiose. Gli attivisti vedono che le cose sono migliorate rispetto alla precedente gestione. Ci sono diciannove uomini nella nuova struttura (una ex casa famiglia), e undici che stanno nel mattonificio lì vicino presto dormiranno sotto lo stesso tetto degli altri. Qui gli ospiti arrivano anche dall’Iraq, dal Camerun oltre che Nigeria e Mali. Ci sono anche una donna che sta aspettando di andare a Foggia dove il marito ha trovato lavoro e due minori affidati ad uno zio.

Tutti però raccontano di come il posto sia isolato e questo riporta al tema principale: mettere in piedi un Cas oggi è fin troppo facile e questo fa in modo che vengano aperti in località molto periferiche. Nella turistica Camigliatello, trenta chilometri da Cosenza, la prefettura ha fatto chiudere un Cas dopo che le associazioni hanno denunciato la situazione in cui i migranti vivevano. Una situazione di degrado. Una foto vista troppe volte in questa calda estate italiana.

Francesco Cangemi
Francesco Cangemi

Giornalista pubblicista che ama definirsi cantore della modernità e signor Wolf in salsa bruzia. Prima che nelle redazioni ha bazzicato per qualche anno nel teatro come attore e con qualche esperimento alla regia ma poi, per fortuna, ha smesso. Ha scritto diversi racconti ma molti sono ancora nella sua testa e ha collaborato a smisurate cose. Ah sì... ogni tanto parla in terza persona...

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