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Buen refugio Ecuador

mmasciata
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Febbraio04/ 2018

di Vincenzo Costabile

Quito è lontano da quello da cui sta fuggendo, ma non abbastanza. Luis David viene dalla Colombia, ha occhi grandi e con parlantina veloce mi chiede se una volta riuscito a mettere i soldi da parte posso aiutarlo a venire in Italia. Gli orrori della narcoguerriglia lo inseguono ancora. Parlandone a volte si tocca il dito medio della mano sinistra, che è rimasto paralizzato in seguito a un accoltellamento sotto casa sua. Come ogni mattina lo aspetta il semaforo di un paese straniero. Mostrandomi il lavavetri che tiene nella stanza, mi dice:

“Io posso vivere solo grazie a questo, senza non potrei mangiare. L’altro giorno si è rotto e non ho guadagnato niente”.

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Quando nel mio paese racconto dell’Ecuador come posto di rifugiati molti si stupiscono. Eppure le migrazioni non sono un fenomeno che interessano solo le società occidentali. Secondo gli ultimi dati sono anzi in aumento le migrazioni interregionali in America latina, e si vede. Nella mia esperienza di volontario del servizio civile nella capitale dell’Ecuador ho conosciuto giovani che scappavano dalla violenza generalizzata che si vive in Colombia o nel Salvador o dalla crisi economica e politica del Venezuela. Ed è proprio la Colombia di Luis David nel sudamerica il paese con i maggiori tassi di emigrazione, molti dei quali rivolti appunto al confinante Ecuador. Con il mio compagno italiano di servizio civile, Angelo, abbiamo visitato la Colombia e sentito i racconti di come lo scontro tra guerriglia, paramilitari, narcotrafficanti e organismi statali abbia provocato in alcuni decenni milioni di vittime e di sfollati. A Medellín, la città di Pablo Escobar, c’è un museo, chiamato Casa de la memoria, in cui vengono esposti i numeri e le notizie relative a tutte le vittime innocenti di questi scontri: giornalisti, attivisti politici, difensori dei diritti umani, sindacalisti… L’edificio è una costruzione moderna e nel corridoio centrale sul muro c’è una grande scritta

Ni guerra que nos asesine, ni paz que nos oprime

(Né guerra che ci uccida, né pace che ci opprima).

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Il finanziamento di questi conflitti deriva dalla gestione dei traffici di droga. Arrivati in Colombia si ha la chiara impressione di come sia diffusa la rete dello spaccio: ci hanno proposto di comprare cocaina tassisti, camerieri, venditori ambulanti e mendicanti. Mi ha sorpreso il fatto che siamo stati molte volte fermati e perquisiti dalla polizia, ma in seguito un colombiano ci ha detto che lo fanno principalmente perché se trovano piccoli quantitativi di droga ai turisti, gli possono chiedere soldi in cambio del silenzio. Una vastissima rete criminale che ha sempre bisogno di nuove leve, per questo è comune il reclutamento sotto minaccia di giovani e adolescenti. Ragazzi a cui non resta che vivere continuamente rischiando di morire. L’unica alternativa è andare via, come hanno fatto Luis David e molti altri ancora.

Ad esempio c’è Alvaro, un ragazzo di 17 anni. Scappava dal Venezuela dopo che lo stato gli aveva tolto la borsa di studio. Lui con altri studenti, per protesta, aveva partecipato a una manifestazione contro il governo, durante la quale la polizia ha aperto il fuoco sui manifestanti e sono stati uccisi 5 suoi amici. Lasciato il suo paese si è trasferito in un primo momento in Colombia, dove lavorava vendendo cioccolatini per la strada, ma lì un gruppo criminale voleva reclutarlo nei circuiti di spaccio. In quel periodo lo stato colombiano ha messo a disposizione a chi fuggiva dal Venezuela dei passaggi gratuiti per l’Ecuador e così ha potuto attraversare un’altra frontiera e infine entrare a far parte della “famiglia” di ASA (Asociación solidaridad y acción), l’associazione per cui lavoravo a Quito. Alvaro mi ha colpito per il suo senso di responsabilità, a Quito si è presto inserito in un percorso scolastico e ha anche iniziato a lavorare; è magro e di media statura, parla con equilibrio e ironia. Alvaro è nero, e infatti si definisce afrodiscendente. Il suo sogno è entrare in una unità investigativa speciale. Con il mio collega Angelo gli dicevamo che sembrava quasi che anche lui fosse un educatore, dal modo con cui si rapportava con i bambini della casa famiglia.

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ASA gestisce 3 case famiglia che ospitano ognuna intorno ai 7-8 bambini e adolescenti, provenienti da storie di abbandono e maltrattamenti. Questi giovani sono seguiti 24 ore su 24 da 3 educatrici su turni rotativi, il nostro compito era aiutarle. Una di queste strutture, quella del quartiere di Carcelen Bajo, è situata proprio sotto la casa dei volontari dove vivevamo io e Angelo e condivide il patio con la casa di autonomia, dove si trova Alvaro, una struttura dove vengono ospitati ragazzi rifugiati in procinto di compiere 18 anni, per essere accompagnati in processi di indipendenza. Il passaggio alla maggiore età, che dovrebbe essere una festa, in questi casi può essere molto faticoso, perché la tutela dei servizi sociali si riduce e i neo-maggiorenni non possono permanere nella stessa struttura.

A quelli che vivono una condizione di persecuzione o rischierebbero la vita nel loro paese di origine viene riconosciuto lo status di rifugiato politico in Ecuador e godono di protezione internazionale, quindi non possono essere rimpatriati, e allo stesso tempo l’associazione, tramite le risorse economiche dell’ACNUR (in inglese UNHCR, l’ufficio dell’ONU che si occupa di immigrazione) fornisce dei sussidi economici mensili provvisori (in vista di una propria indipendenza) per l’alloggio e le spese alimentari. Inoltre noi svolgevamo degli accompagnamenti al ministero delle relazioni estere e dagli avvocati per il conseguimento dei documenti, ai servizi sanitari, in percorsi di inserimento scolastico e lavorativo o in attività ludiche e ricreative. La psicologa dell’associazione iniziava una psicoterapia breve, di qualche mese, per trattare i temi traumatici che li avevano spinti ad abbandonare il proprio paese, spesso legati a uccisioni di parenti e amici o al tentativo di reclutamento forzato in organizzazioni criminali.

Le persone che ho visitato con più continuità insieme alla psicologa nel mio anno di permanenza in Ecuador è stata la famiglia di José, composta dalla coppia, il padre, José, che ha la mia età, 26 anni, la compagna che è di qualche anno più grande e da 7 bambini, 4 nati da relazioni precedenti della donna, 2 da relazioni precedenti dell’uomo e l’ultimo, di appena un anno, in comune ai due. Questi bambini (il più grande ha 13 anni) non potrò mai dimenticarli per la loro vivacità, la loro irrequietezza, i loro sorrisi e i loro pianti, l’affetto e le risate che mi hanno donato, uniti certamente alle preoccupazioni e alla tristezza per la precarietà delle loro condizioni di vita, le case fatiscenti e sporche da cui erano di continuo scacciati per il fastidio che dava il numero elevato di bambini ai vicini e ai padroni di casa, unito alla discriminazione di alcuni ecuadoriani verso i colombiani e i neri, come loro erano. Il padre  per mantenere la famiglia vendeva succhi di frutta per strada. È molto comune che i rifugiati facciano lavori di vendita ambulante, commerciando dolciumi e succhi di frutta. Infatti prendendo un autobus vedrete salire di continuo venditori per offrire cibarie e mercanzia varia, vendita introdotta generalmente da lunghi discorsi di presentazione per convincervi all’acquisto o più raramente mendicanti che potrebbero mostrarvi le cicatrici di qualche violenza o raccontarvi storie di malattie.

José mi ha descritto bene l’evolversi della storia della guerriglia in Colombia, da organizzazione di lotta armata mossa da ideali, che si batteva contro le iniquità, fino ad adottare metodi spietati e diventare tutt’uno con il narcotraffico, tanto da essere definita narcoguerriglia. La principale organizzazione rivoluzionaria di lotta armata in Colombia sono le Farc (Fuerzas armadas revolucionarias de Colombia). Con il governo di Juan Manuel Santos si è raggiunto un accordo tra lo stato e le Farc, secondo il quale le Farc depongono le armi e si inseriscono nella dialettica democratica del paese. Questo accordo è stato raggiunto dopo anni di repressione violenta e senza quartiere da parte dello stato nei confronti dei guerriglieri, prima sotto il governo di Uribe, con ministro della difesa Santos e poi sotto il governo dello stesso Santos, che grazie a questo risultato ha vinto il Nobel per la Pace. Adesso però, come mi ha raccontato José ed emerge dai fatti, altri gruppi armati si stanno contendendo il posto delle Farc nel controllo del territorio con la violenza. Il sogno di José è di trasferirsi negli Stati Uniti, dove spera di poter offrire un futuro migliore ai propri figli. È preoccupato dall’amministrazione di Donald Trump e si informa con insistenza dei programmi dell’ACNUR chiamati di resentamiento, che consistono nel trasferimento dei rifugiati che ne facessero richiesta, attraverso canali speciali, negli Stati Uniti, in Canada e in Nuova Zelanda. Ma questi sono processi molto lunghi e con rigidi requisiti.

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Andando in giro per Quito abbiamo conosciuto molti ecuadoriani che hanno vissuto in Italia e poi sono tornati nella loro nazione. L’Ecuador nel 1999 ha conosciuto una profonda crisi economica, conosciuta come feriado bancario che ha comportato una emigrazione di massa della popolazione ecuadoriana (oggi il paese conta una popolazione di circa 16 milioni di abitanti) verso paesi europei, tra cui l’Italia, e nordamericani e il passaggio dalla vecchia moneta, il Sucre, al dollaro americano. Con il governo di Rafael Correa, nel 2008, lo stato ha avviato un programma chiamato Plan de retorno che garantisce sgravi fiscali e agevolazioni economiche agli ecuadoriani emigrati che intendono tornare nella loro patria. Il governo di Correa, durato dieci anni, dal 2007 al 2017, è contraddistinto da luci e ombre. Con il suo partito, Alianza País ha varato un programma chiamato Revolución cuidadana, per il rinnovamento dell’apparato statale e dei servizi pubblici, investimenti in opere pubbliche, la statalizzazione delle risorse petrolifere e ha ottenuto una significativa riduzione dei tassi di povertà dal 36,7% del 2007 al 22,5% del 2014. Tuttavia è accusato di avere avuto metodi autoritari nella gestione del potere e di non aver preso misure contro la corruzione dilagante. Gli è succeduto al potere Lenin Moreno, suo ex vicepresidente.

Lavorando nei servizi sociali di un paese come l’Ecuador e rapportandomi anche a giovani di altri paesi sudamericani ho potuto osservare la precarietà delle condizioni di vita di molti di loro. Una precarietà economica ed esistenziale che ha effetti ambivalenti: da un lato rende questi giovani più forti e più furbi, anche più capaci di gioire dei piccoli piaceri della vita, dall’altro non gli garantisce un ambiente in cui sviluppare una stabilità emotiva tale da saper riconoscere i modelli positivi da quelli negativi, da avere un senso profondo di ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. L’Ecuador è una meta ambita per molti rifugiati oltre per il fatto di avere una economia più stabile di altri paesi in America latina, soprattutto per l’assenza quasi totale di organizzazioni criminali potenti e ramificate. Certo, è diffusa la microcriminalità, i furti anche violenti, l’abuso di genere. Ma la popolazione ecuadoriana sa anche essere accogliente e cordiale, con dei modi di fare caratterizzati da spontaneità e teatralità. Le ricchezze naturali che offre il paese destano meraviglia e stupore: la foresta amazzonica, le Ande su cui si ergono vulcani maestosi, la costa bagnata dall’Oceano Pacifico e le Galapagos, le isole incantate.

Affascinanti sono le culture indigene dei nativi. Vivono condizioni diverse di integrazione e scambio: ai due estremi troviamo comunità che sono visitabili e assoggettate a logiche turistiche, altre che si rifiutano di essere contattate, che vivono distanti dal resto della civiltà. Il nostro progetto di volontariato aveva il nome di “Buen vivir para todas y todos”. Il Buen vivir (Sumak Kawsay in lingua quechua) è una concezione filosofica andina, riferita a una cosmovisione ancestrale della vita. È l’equilibrio tra il sentire bene (Allin Munay) e il pensare bene (Allin Yachay), che dà come risultato il fare bene (Allin Ruay). Il vivere la vita con pienezza per uno sviluppo e una “fioritura” umana in tutte le sue dimensioni e in armonia con la natura. L’Ecuador un giorno potrà raggiungerlo, anche se la strada è ancora lunga e in salita.

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Il collettivo Mmasciata è un movimento di cultura giovanile nato nel 2002 in #Calabria. Si occupa di mediattivismo: LA NOSTRA VITA E' LA NOTIZIA PIU' IMPORTANTE.

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