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BANG! | Lungo fucile è morto.

Michele Giacomantonio
Michele Giacomantonio
Maggio05/ 2015

ken parker muore

di Michele Giacomantonio

Sono i versi dolenti di Emily Dickinson e l’alba di un nuovo giorno a chiudere l’ultima avventura di Lungo fucile, ancora una volta raccontata dalla matita di Ivo Milazzo e dai testi di Giancarlo Berardi. Era stato proprio Milazzo ad annunciare, durante l’ultimo Festival del fumetto svolto a Cosenza, che Ken Parker sarebbe tornato, non svelando però se quel ritorno sarebbe stato l’epilogo o l’inizio di una nuova serie. In verità di dubbi ce n’erano pochi, conoscendo la natura assolutamente umana del nostro eroe. Ken è ormai sessantenne e se pur non ha perso la sua voglia di immaginare un mondo migliore è stato segnato nel corpo oltre che nello spirito dai mutamenti che hanno travolto lui e il suo mondo.

Le prime tavole dell’ultimo numero dal titolo “Fin dove arriva il mattino” ce lo fanno trovare nel carcere dove sconta la pena per aver ucciso un poliziotto durante la repressione di una sommossa operaia e c’è in questo, nel suo essere detenuto, uno dei tratti del suo essere antieroe. Le ultime invece ce lo consegnano morente, stancamente pronto a un evento che è così maledettamente umano e così lontano dalla mitologia del fumetto. Del resto “Ken Parker ha sempre rappresentato nel mondo del fumetto un personaggio differente – spiega Ivo Milazzo – non un risolutore di problemi, piuttosto un testimone dei fatti”, aggiungendo che la scelta del titolo e delle belle parole prese in prestito da Emily Dickinson sono il frutto della scelta di Berardi. Dunque Ken muore, come accade davvero fuori dal meraviglioso mondo della fantasia, “perché lui rappresenta fino in fondo i suoi autori, con la consapevolezza che la vita è una sola, a cui occorre dare un senso”, continua Milazzo. Così è stato quindi, una vita, quella di Lungo fucile, ricca di incontri, storie, esperienze, come certe volte accade anche alle persone vere, mentre attorno a lui ogni cosa era cambiata. “L’epopea del West si chiude sul finire degli anni ottanta dell’Ottocento – spiega ancora Milazzo – gli indiani sono decimati o chiusi nelle riserve, le regioni diventano nazioni, comincia a definirsi quella identità che poi avrebbe rappresentato l’America di oggi”.

Ma Ken non muore perché muore il suo mondo, muore perché questo è il destino che segna la fragilità umana e tuttavia fino alla fine il protagonista non smarrisce il senso di una giustizia sia pure impossibile, solo che con maggiore forza rispetto alle primissime tavole d’esordio, oggi la creatura di Milazzo e Berardi percepisce l’impossibilità di salvarsi da soli, di combattere come un eroe solitario contro il male del mondo. Muore poggiato alla ruota di un carro, colpito da un colpo di pistola che, esattamente come accade nella dura realtà, non lascia quasi mai scampo. Non ci sono frasi banali come “è solo un graffio”, ma invece la tenerissima richiesta di poter tenere una mano mentre si guarda il sopraggiungere dell’ultima alba. In effetti Ken non poteva che chiudere la sua vicenda, “non avremmo potuto trasferirlo in una epoca diversa, lui resta come una opportunità per riflettere sull’umanità”. Una opportunità offerta su diversi piani di lettura, perché indubbiamente c’è chi nel personaggio ha visto solo un semplice intrattenimento, ma anche chi vi ha riconosciuto un impegno verso chi è vittima di soprusi, prima gli indiani, poi le masse operarie. E se la vita dei personaggi è, ovviamente, nelle mani dei suoi autori, Milazzo spiega che lui è in realtà da un pezzo oltre Ken Parker. “Ken ha rappresentato molto per me, anche dal punto di vista fisico, ma oggi non mi appartiene più, non è più il mio sogno. Ho bisogno di altre scoperte, di nuove conoscenze narrative”, spiega in conclusione Milazzo. Addio dunque Ken, che i pellerossa chiamavano Chemako – colui che non ricorda.

Noi invece ti ricorderemo a lungo.

Krn Parker morte

 

 

Michele Giacomantonio
Michele Giacomantonio

Abbastanza vecchio da portare l’odore dell’inchiostro, non tanto da non usare modi nuovi di scrivere. Il giornalista è un fabbro che fa schizzare le scintille. Perché un racconto si compie se cambia le cose e trasforma la vita reale almeno un po'.

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