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FUOCOAMMARE | Un orso d’oro è sbarcato a Lampedusa

Viola Brancatella
Viola Brancatella
Marzo03/ 2016

Fuocoammare è una di quelle espressioni locali fortemente sintetiche, nate dall’esigenza pragmatica di un popolo di marinai e di pazienti scrutatori dell’orizzonte, sempre pronto a scomporsi quando qualcosa arriva dal mare. In dialetto lampedusano significa “mare agitato”. Il fuoco nel mare, un brillante ossimoro che ci guida nel “doppio sogno” di Gianfranco Rosi. Il fuoco immaginato delle armi che Samuele, il “piccolo principe” di Lampedusa, rivolge contro le onde che tanto teme e il fuoco simbolico, il pericolo di morte che inonda quotidianamente le coste dell’isola. “Fuocoammare” (“Fire at Sea” nella versione inglese) è il titolo dell’ormai noto docufilm che ha valso a Gianfranco Rosi l’Orso D’Oro nella sessantaseiesima edizione del Festival di Berlino, accolto con l’entusiastico e commosso favore della giuria, presieduta da Meryl Streep. “Fuocoammare” ha il fascino di un film neorealista in piena regola e come tale ha ricevuto un’accoglienza solenne e ideologica da parte della giuria e del pubblico internazionale, confermando l’importanza di un cinema politico che affronti, come fecero all’epoca Rossellini, De Sica, Visconti e gli altri, l’attualità con la giusta amarezza e schiettezza, rinunciando alla tranquillizzante patina del racconto epico.

Il regista Gianfranco Rosi ritira l'Orso d'oro a Berlino per il suo film Fuocoammare. (Fabrizio Bensch, Reuters/Contrasto)
Il regista Gianfranco Rosi ritira l’Orso d’oro a Berlino per il suo film Fuocoammare. (Fabrizio Bensch, Reuters/Contrasto)

Come le pellicole neorealiste, il film di Rosi racconta le vicende di persone comuni, la cui vita casualmente si intreccia con la Storia nazionale e internazionale, servendosi di attori non professionisti, impegnati in attività quotidiane, mentre i bambini ricoprono un ruolo di grande rilievo, perché, con il loro sguardo inconsapevole sulle cose, incarnano il senso di giustizia e denunciano gli errori degli adulti. L’isola di Lampedusa, il primo baluardo d’Europa nel Mediterraneo, diventa il palcoscenico di una pièce in cui l’Europa misura se stessa e mette in discussione, sul campo, il proprio senso di ospitalità, giustizia, moralità ed etica, tanto proclamati nei trattati politici e nelle Costituzioni.

Rosi racconta un mondo duale e ancestrale, diviso in due dagli scogli rocciosi: la terra, la rigogliosa vegetazione del paradiso semplice e umanizzato dei lampedusani e l’abisso marino dei migranti e dei loro angeli in bianco della marina militare. Due mondi che non comunicano tra loro, che si sopportano e si subiscono a vicenda con rassegnazione e pietas inconsapevole, mentre condividono l’esperienza fondante dell’essere isolano, il rapporto con il mare, inevitabile misura dell’esistenza. E’ proprio con il mare che Samuele, il piccolo adulto che accompagna lo spettatore alla scoperta del lato selvaggio dell’isola, si confronta e si scontra, perché ha il mal di mare e vuole farselo passare, proprio come suo zio che fa il pescatore.

Il trucco del mestiere è lasciarsi dondolare dal mare e resistere alla nausea, abituarsi a quel piccolo grande disagio che per un isolano è un aspetto ridondante delle sue giornate. Rosi sembra, così, suggerire l’ostinazione dei giusti nell’essere generosi e accoglienti, anche quando è difficile, anche quando la politica nazionale sembra dimenticarsi di loro, anche quando l’Europa intera alza i muri e si mostra miope e demagogica.

Una scena di Fuocoammare, di Giancarlo Rosi.
Una scena di Fuocoammare, regia di Gianfranco Rosi.

Samuele è un dodicenne anomalo e antico come anomalo e remoto è il luogo in cui sta crescendo, con la passione per la fionda e i versi degli uccelli, il suo mal di mare e l’occhio pigro, che non vuole guardare: è un bambino fuori dal mondo, affetto da “isolitudine”.  Rosi sembra, però, rammentarci che i i veri orbi siamo noi “del continente”, protetti da leggi e politiche neganti e contraddittorie, che giustificano il vuoto d’azione dei nostri governi, lontani dai corpi e dalle richieste di aiuto.

Il film scorre sui due binari separati, alternando pranzi, giochi, passeggiate, battute di pesca subacquea a salvataggi, SOS, rianimazioni, il centro d’accoglienza, i morti, e assegna al dottor Pietro Bartolo, che da vent’anni assicura la prima accoglienza medica ai migranti, il compito di tenerli insieme con il suo sapiente e addolorato racconto. Piero Bartolo è una vera istituzione sull’isola: c’era quando la prima barchetta di legno con a bordo tre tunisini attraccò al porto e la gente disse “Arrivano li turchi!” e c’è stato sempre in questi lunghi venti anni di sbarchi; con i suoi racconti ci ricorda come potremmo essere, ospitali, accoglienti e resistenti come tutti i popoli bagnati dal mare.

Rosi ha trascorso più di un anno sull’isola e ha cercato di restituire la scissione della realtà che ha visto, rimarcandola fino all’esasperazione. Così il regista racconta un mondo di buoni selvatici e inconsapevoli e un mare di vittime disilluse, calcando un po’ la mano, tralasciando quelle figure intermedie e veramente ordinarie, non celebri come il dottor Bartolo, che ogni giorno si interrogano e si confrontano con una delle tragedie umanitarie più rilevanti del nostro tempo. La sublimazione cinematografica, molto avvincente dal punto di vista estetico e narrativo,  rischia di esasperare la divisione tra i buoni e i cattivi e di assolutizzare le differenze, annullando le sfumature e le esperienze di vita vera, spontanea, umanamente contraddittoria.

Forse il festival di Berlino ha assegnato il suo riconoscimento all’ultima isola d’Europa, Lampedusa, e a quello che rappresenta – la possibilità di essere migliori di come siamo – nella speranza che non resti un caso isolato e uno specchio per le allodole.

Viola Brancatella
Viola Brancatella

Cresciuta a viaggi in macchina e Lucio Dalla, antropologa per convinzione, fotografa occasionale, osservo tutto bulimicamente e scrivo per esorcizzare. Può andare?

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