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Quanto è amaro l’ordine delle cose

Viola Brancatella
Viola Brancatella
Ottobre04/ 2017

È difficile credere che l’idea di girare “L’ordine delle cose” sia venuta ad Andrea Segre due anni fa e non l’altro ieri con l’approvazione del decreto Minniti-Orlando sull’immigrazione. E in effetti, il film, che ha registrato il tutto esaurito nelle città in cui è stato proiettato dal 7 settembre a oggi, è stato di recente dedicato dal regista al Ministro degli Interni italiano Marco Minniti – in senso provocatorio, si intende.

“L’ordine delle cose” è stato presentato a Venezia nella sezione Proiezioni Speciali ed è il terzo lungometraggio del regista veneto Andrea Segre, noto in Italia per il suo cinema impegnato – soprattutto documentario – e per la rinuncia a una certa visibilità “classica” che lo ha reso un regista d’élite e d’essai.

Classe ‘76, Segre, dottorato in Sociologia della Comunicazione, ha insegnato a Bologna analisi etnografica del video, specializzandosi in temi come la marginalità e le etnie, e ha realizzato il suo primo documentario sullo sterminio degli zingari, nel 1998. Nel 2008 ha scritto e diretto “Come un uomo sulla terra”, finito nella cinquina dei David: lo spaccato sulle responsabilità italiane dei respingimenti dei migranti in Africa, che può essere considerato il prequel ideale del suo film più recente. Alcuni anni dopo ha realizzato il celebre documentario “Il sangue verde”, patrocinato da Amnesty Italia, che racconta gli scontri dei braccianti a Rosarno, in Calabria. Poi il primo lungometraggio, “Io sono Li”, distribuito in tutta Europa, premiato al Parlamento Europeo con il Lux sulla delicata relazione tra una donna cinese e un uomo italiano a Venezia, poi “Mare chiuso” nel 2012, che ha vinto il premio Vittorio De Seta, e infine il secondo lungometraggio “La prima neve”, un’opera incentrata sul rapporto simbiotico tra un bambino fragile e un migrante del Togo ospite di una famiglia trentina. Negli ultimi anni, il documentario “Il lago salato” girato in Kazakistan, arrivato a Locarno e finalista ai Nastri d’Argento e la lavorazione di “L’ordine delle cose”, insieme allo sceneggiatore Marco Pettenello, tra Sicilia, Libia e Tunisia.

l'ordine delle cose Pierobon

Nel film, Corrado Rinaldi – interpretato da un impeccabile Paolo Pierobon – è un alto funzionario del Viminale responsabile degli accordi tra Italia e Libia sul tema immigrazione, messo in campo dal governo italiano con l’obiettivo di limitare i flussi in Europa e di istituzionalizzare i centri libici di detenzione per migranti. Rinaldi prende aerei diretti a Tripoli e a Roma, stringe le mani del potere, incontra colleghi di vecchia data (tra cui il bravissimo Giuseppe Battiston), cresce una figlia adolescente che dà i primi timidi cenni di ribellione, ha una vita di coppia romantica ed equilibrata con la moglie (Valentina Carnelutti) e crede nella sua missione e nel suo lavoro, senza metterlo (quasi mai) in discussione.

Rinaldi è un “borghese piccolo piccolo”, schivo, ordinato ed efficiente, che si muove tra la sua casa con giardino al nord Italia e le stanze del potere a Roma e in Libia: uno strumento della Storia, che probabilmente Hannah Arendt avrebbe inserito nell’affollato girone della banalità del male. Ma Rinaldi è anche un personaggio in divenire, in grado di cambiare punto di vista – anche solo per qualche ora – facendosi megafono di emozioni, in grado di incarnare il dubbio e lo scrupolo rispetto al senso di giustizia che ufficialmente rappresenta, e lacerando, inevitabilmente, la coltre di indifferenza che solitamente lo protegge nel suo lavoro.

l'ordine delle cose ciak

Girato in Tunisia per motivi di sicurezza e di permessi, “L’ordine delle cose” è il risultato di due anni di colloqui in Sicilia con i poliziotti e con gli operatori che si occupano dell’accoglienza e della gestione dei migranti, di viaggi in Libia – spesso inutili perché “si guardava tutto dalla finestra” – e incontri continui con i migranti dei centri di accoglienza, che hanno dato un grandissimo contributo narrativo alla storia, raccontando le loro vicende personali. I veri Corrado Rinaldi, le centinaia di “uomini del presidente” che lavorano nel silenzio della stampa, hanno visto il film – ha raccontato ai giornali Andrea Segre – e hanno confermato tutto: le violazioni dei diritti dell’uomo, la corruzione dei leader politici coinvolti, le condizioni di detenzione dei migranti negli hotspot libici, l’amarezza dell’“ordine delle cose”.

Il film è diventato in poche settimane il simbolo di un’Italia che non si arrende alle misure detentive dei migranti e che sostiene il lavoro delle associazioni e delle ONG di recente bersagliate dalla politica e ha ricevuto l’appoggio di molti, tra cui Emma Bonino, che ne ha tessuto le lodi fin da subito. Sostenuto da un cast eccezionale, composto da attori poco valorizzati dal cinema mainstream italiano, “L’ordine delle cose” è raccontato con una fotografia essenziale, che ritrae alternativamente i vuoti dei paesaggi libici desertici (girati in Tunisia) ai pieni dei centri di detenzione, l’ordine e la pulizia di casa Rinaldi al disordine delle file di migranti e di Tripoli, la misteriosa città beige che sembra evitare continuamente il nostro sguardo. Un film che ha alcuni vizi di forma, ma che scava con eleganza e senza ideologia una delle questioni più urgenti dei nostri tempi, dando un contributo fondamentale alla filmografia italiana sulla migrazione, ben rappresentata da alcuni dei più grandi maestri del cinema nostrano, che hanno messo in scena il dramma dell’immigrazione prima dall’Est Europa e poi dal continente africano: Gianni Amelio (“Lamerica”, ‘94), Carlo Mazzacurati (“Vesna va veloce” ‘96), Matteo Garrone (“Terra di mezzo” ‘96, “Ospiti” ‘98), Marco Tullio Giordana (“Quando sei nato non puoi più nasconderti”, 2005), Giorgio Diritti (“Il vento fa il suo giro”, 2005), Giuseppe Tornatore (“La sconosciuta”, 2006), Ermanno Olmi (“Il villaggio di cartone”, 2011), Claudio Giovannesi (“Alì ha gli occhi azzurri”, 2012), Gabriele Del Grande (“Io sto con la sposa”, 2014), Gianfranco Rosi (“Fuocoammare”, 2016).

Viola Brancatella
Viola Brancatella

Cresciuta a viaggi in macchina e Lucio Dalla, antropologa per convinzione, fotografa occasionale, osservo tutto bulimicamente e scrivo per esorcizzare. Può andare?

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