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IL REPORTAGE | «40 anni schiavi, la Pirrera non si dimentica»

Matteo Dalena
Matteo Dalena
Febbraio04/ 2016

Mamma nun mi mannati a la Pirrera, ca notti e jurnu mi pigliu di tirrura. Torniamo alla “Zolfara Grande”, sul confine tra i territori di Sommatino e Riesi in provincia di Caltanissetta, con nelle orecchie le nènie e i lamenti di quei carusi che scrissero la storia mineraria della Sicilia orientale. Oggi ultranovantenni recano nella voce quell’affanno tipico di enfisemi altamente invalidanti, nei solchi scavati nella pelle e negli arti laceri o smozzati l’indelebile marchio di una giovinezza spesa nelle viscere della terra a cavare dalla pietra, mediante fusione, la cosiddetta “gialla superiore”. Era lo zolfo pregiato che dall’arcaica periferia nissena alimentava i mercati dell’opulento Ovest.

Libretto personale del minator
Libretto personale del minatore, anno 1899

LA PIRRERA GRANDE Le testimonianze degli ultimi zolfatari sopravvissuti insieme al ritrovamento di un libretto personale di lavoro dalle miniere di Sommatino nell’anno 1899, ci consentono di raccontare sfiorandole appena le peripezie affrontate dalla meglio gioventù nissena nella “pirrera” che fu prima dei principi Lanza di Trabia e Pignatelli, poi di Stato e, dunque, Cosa Nostra (Leggi la nostra precedente inchiesta: ‘U Pirtusu). Si scendeva giovanissimi, dai 7 ai 12 anni, anche se testimonianze parlano di carusi ancor più piccoli, la cui identità era celata da libretti di lavoro falsificati oppure di proprietà di ragazzi più grandi. «Andavamo a carriare, ccu lu sacchitiaddru, ‘nti li calaturi», racconta il novantaduenne Angelo Di Maria che nella zolfara perse il fratello. Nel 1899 le ore di lavoro erano ufficialmente nove. La “sciolta” mattutina durava dalle 6 alle 16, quella notturna dalle dalle 18 alle 3, anche se «tale orario potrà essere modificato dai capo-servizio a seconda delle esigenze del lavoro». Non se la passava molto meglio chi faticava all’esterno, ad esempio, come manutentore nelle officine della grande città mineraria: Dal levare al cadere del sole, con un riposo per la colazione. Si lavorava a giornata o a cottimo per una misera paga estremamente sensibile alle fluttuazioni del mercato dalla quale venivano immediatamente detratti i «diritti di scrivania, le spese di contabilità, quelle di riparazione e acciaiatura per gli utensili da lavoro». Erano ambienti malsani ed estremamente pericolosi. Si temevano le esplosioni di grisoù, si respirava antimonio, si era sottoposti a prevaricazioni e abusi soprattutto a sfondo sessuale per cui, molti anni dopo, le vittime diventeranno aguzzini. La mafia o «la banda», come la chiama Angelo Di Maria, in miniera era soprattutto “partito”, forza viva e attiva capace di far spostare questo o quel minatore da una mansione all’altra, da un cantiere all’altro soprattutto a seconda della sua pericolosità:

ZOLFATARI D’ORO Dopo la dismissione, soprattutto al fine di evitare disordini sociali, l’exit dal settore solfifero, da quel capitalismo zombie senza più significato, produsse nei tre paesi del triangolo zolfifero – Sommatino, Riesi e Ravanusa – pensioni di tutto rispetto, rimpinguate da assegni per infortuni e soprattutto da “buone uscite” fino ai 3-400 milioni delle vecchie lire anche per chi nel sottosuolo non era mai sceso. Chi aveva denaro lo investì nel mattone e nella terra, per due generazioni unico sbocco per paesi totalmente svuotati della propria identità. Le famiglie dei minatori continuarono a cullarsi sulle reversibilità, rifuggendo ogni rischio ma annullando di fatto ogni prospettiva di sviluppo e imprenditorialità. Paesi che, in assenza di sviluppo, persino Cosa Nostra sembra aver snobbato. Così, a contatto con quegli ecomostri di un non lontano passato, gli ex minatori sembrano quasi rimpiangere l’età d’oro dello zolfo siciliano: «Poveri in gioventù, ricchi in vecchiaia – scherza l’ultranovantenne Angelo Di Maria – sono più di 40 anni che non lavoro e prendo la pensione, grazie zolfo». 

Matteo Dalena
Matteo Dalena

Storico con la passione per la poesia, imbrattacarte per spirito civile. Di resistenza.

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