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COLD CASE (Ep.2) |Perché è stato ucciso Paolo Cappello?

Matteo Dalena
Matteo Dalena
Febbraio12/ 2017

NEL PRIMO EPISODIO | Nella provincia dell’Italia fascista il delitto di un muratore socialista scuote gli animi e infiamma la città, nessuno sa cosa sta per succedere.

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Viva Zupi!

Nella notte del 12 novembre del 1924, passati meno di due mesi dall’uccisione di Paolo Cappello e con un processo in istruttoria, la scritta compare sulla porta dell’abitazione della vedova Carmela d’Acri. E’ una donna forte Carmela, lo aveva già dimostrato a marzo del 1924, con il marito Paolo recluso nelle carceri di colle Triglio perché accusato dello sfregio del fascista Giuseppe Carbone. In quel frangente ogni mattina Carmela si reca a far visita agli avvocati Pietro Mancini e Muzio Graziani e chiede con garbo e fare antico notizie del marito. In galera Paolo è in buona compagnia: Nicola Adamo, amico e compagno di mille battaglie conosciuto sin dai tempi della prima Festa del Lavoro, è accusato anche lui di aver preso parte allo sfregio. La mancanza di prove sta dalla parte dei reclusi però, e con sentenza della Corte d’Assise di Cosenza i due vengono scarcerati alla metà di giugno per non aver commesso il fatto (1).

 

esclusiva Mm.it | Militi fascisti cosentini al tiro a segno con rivoltella

Secondo le carte in nostro possesso è in questo passaggio processuale inedito, finora sottovalutato da tutti gli storici che si sono occupati del caso, che potrebbe trovarsi una nuova chiave di lettura dell’omicidio Cappello. Lo lascia nero su bianco Pietro Mancini (2), primo parlamentare socialista in Calabria, avvocato di Cappello:

«Qualche tempo prima dell’imboscata sanguinosa – ricorda l’avvocato Mancini – un fascista, tal Carbone lo aveva accusato di sfregio. Lo sfregio era allora di competenza del tribunale. In una memorabile udienza con un’aula affollata di squadristi, dinanzi a un collegio giudicante di cui faceva parte Leopoldo Conforti, tessera ad honorem del fascismo (Conforti raggiunse i più alti gradi della magistratura) Paolo Cappello venne riconosciuto innocente ed assolto con formula piena. La calunnia si era spuntata contro la giustizia e di più contro le prove. I fascisti erano rimasti delusi ed amari. Si segnarono a dito quell’assoluzione. Paolo Cappello non si spaventò delle minacce della Disperata».

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LA DISPERATA  | nelle province si picchia

Corre l’anno 1924. Le elezioni di aprile, il ritrovamento del corpo di Giacomo Matteotti e l’esecuzione del fascista Armando Casalini, infiammano il meridione. Mentre “a Roma si chiacchiera nelle province si picchia”, titola l’Avanti il 20 settembre. A Cosenza il console fascista Gaetano Fino, ribattezzato dalla stampa socialista “il normalizzatore”, dirama una circolare molto dura nella quale si propone, con l’aiuto delle milizie locali di instaurare “una calma perfetta”. Il regime è giovane e schizofrenico, ovviamente scisso anche a Cosenza fra irriducibili e moderati. Il “federale” Cesare Molinari dalle colonne della Calabria Fascista, organo della federazione dei fasci della provincia di Cosenza, notando uno “scatenarsi violento delle passioni, eccitate ed alimentate dal linguaggio scomposto della stampa”, due giorni dopo il ferimento che porterà alla morte di Paolo Cappello, si rivolge “prima di tutto ai fascisti”(3):

«I fascisti dimentichino vendette se ne hanno, smettino di accarezzare aspirazioni personali, se se ne profilano nei propri fini, antepongano ad ogni personale interesse gl’interessi ben più gravi e più pressanti della collettività».

Molinari si appella alla “cieca obbedienza alle leggi”, “alle volontà espresse in atti legali” nella speranza che anche le opposizioni facciano lo stesso. A Cosenza, per tutto il 1924 si erano susseguite spedizioni punitive a suon di rivoltella e manganello, eseguite dalla squadraccia denominata “La disperata”, foraggiata dai pezzi grossi del regime per portare ordine e disciplina nei paesi più piccoli, nelle contrade, sconvolgere le feste religiose paesane dalla Presila al Savuto, da San Giovanni in Fiore a Paola, pretendendo parola, attenzione e malmenando i recalcitranti: “La squadra è la solita che scorazza con le automobili  per inseguire i candidati e vince l’ozio serale battendo l’asfalto della Massa”, denunciava Muzio GrazianiI più colpiti in città sono i socialisti gravitanti attorno alla figura dell’avvocato Pietro Mancini, coordinatore dell’attività di sovversione e propaganda insieme a Graziani e Vaccaro. Gambe e braccia spezzati, pile di giornali bruciati nella pubblica piazza sono la cronaca quotidiana, fino al vile incendio della Camera confederale socialista del Lavoro del 19 aprile.

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Cartolina d’epoca di Alfredo Salzano (da “Il senso del tempo, valore di un posto”)

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GLI SPARI – quel garofano spezzato 

C’è un “certo movimento” tra piazza Ferrovia e il rione popolare della Massa la sera del 14 settembre del 1924. Da un treno proveniente da S. Fili, scende il seniore Antonio Zupi di Nicola, di professione impiegato, ufficiale della milizia nazionale, tessera del partito fascista dal 1920 al 1940 (4), insieme al milite Francesco Bartoli. Impegnati fino a quel momento in un servizio d’ordine, attendono istruzioni dal console Fino e dai centurioni Santoro, Rebaudengo e Salerno su un altro servizio da svolgere il mattino seguente a Montalto. Ad un certo punto Bartoli si allontana dal gruppo allo scopo di procurarsi una divisa e, allontanatosi anche Antonio Zupi, il gruppo di ufficiali si dirige a passo lento in piazza Valdesi all’imboccatura del ponte di San Domenico. Qui incontrano il dottor Lancillotti il quale li avvisa che il Bartoli, imbattutosi in un gruppo di socialisti, è stato aggredito da Achille Mauro che con due bastonate produsse lesioni guarite prima dei dieci giorni (5).

«Si disse che il Mauro a ciò siasi indotto perché ad uno del suo gruppo e propriamente a Mauro Francesco fu strappato il garofano rosso avendosi di ciò prova in atti».

Rialzatosi, il Bartoli si dirige verso piazza Valdesi mentre il gruppo di socialisti di cui fanno parte oltre al Cappello e ai fratelli Mauro anche Cesare Morrone, Nicola Adamo, Giuseppe Esposito, Raffaele De Rose, Luigi Cozza e Giuseppe Grandinetti, prese per piazza Piccola, “e da questa deviando per via Galeazzo di Tarsia, si diresse presso il ponte di San Francesco”. Nonostante le raccomandazioni del console Gaetano Fino al Bartoli di “prudenza e tolleranza” questi viene visto dallo stesso console “tornare a capo di un gruppo di fascisti che gridavano doversi andare alla ricerca dei Mauro nel quartiere Massa, sede degli operai di sentimenti socialisti”. Preoccupatosi, “il normalizzatore” mette in guardia il Santoro sulla necessità di evitare inutili violenze.

«Ma quando il gruppo di fascisti muovendo per il lungo Crati che passa sotto il ponte San Francesco fu, prima di essere raggiunto dal Santoro, alla scaletta che addossata al muro dell’albergo Zumpo, conduce sul detto ponte, si ebbe una scarica di numerosi colpi di rivoltelle. I fascisti ammisero di avere sparato, gli altri negarono di avere anch’essi sparato» (5).

Cessati gli spari il solo Paolo Cappello è a terra, gravemente ferito da due colpi d’arma da fuoco. Il primo, di striscio “al terzo medio della coscia sinistra”,  l’altro alla regione precordiale, resta conficcato nel corpo di Cappello. Quest’ultimo – secondo l’autopsia – è la causa unica ed esclusiva della morte dell’operaio, avvenuta sette giorni dopo all’ospedale civile di Cosenza. Dopo un’ora dal ricovero Cappello viene interrogato dal procuratore del Re, avvocato Tocci, al quale dichiara di essere stato colpito da Antonio Zupi. La mattanza fascista continua nelle ore successive con Cesare Morrone schiaffeggiato da Zupi e Nicola Adamo inseguito e bastonato a sangue da un gruppo di militi, nel quale il fascista Francesco Gentile ammette di aver visto Antonio Zupi (5). A nulla vale il tentativo di cambiarsi d’abito e, in seconda battuta, di sostituire la propria rivoltella con una nuova e di calibro inferiore (6.35) rispetto al calibro del proiettile (7.65) rinvenuto nel polmone di Cappello. Contro Zupi viene spiccato mandato di cattura e lo stesso viene tratto in arresto con l’accusa di omicidio volontario.

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ALLA SBARRA | aprite le gabbie

Le indagini del procuratore del Re proseguono all’insegna dei tentativi denunciati dalla stampa socialista e comunista di condizionarne il corso.

Scrive il giornale l’Operaio: “Tre giorni dopo il delitto in pompa magna, il prefetto, il generale della milizia, il console e altri si recarono a confabulare col procuratore del Re e col giudice istruttore”.

Risponde Calabria fascista: “Colui che fu tratto in arresto è ufficiale della milizia e che perciò l’intervento dell’autorità gerarchica, per un’inchiesta militare era necessità non evitabile”.

Il primo grado del processo contro Antonio Zupi e un’altra decina di militi si celebra a Catanzaro, sede della Corte d’Assise delle Calabrie il 23 giugno del 1925.

L'avvocato Pietro Mancini
L’avvocato Pietro Mancini 

In un passaggio della sentenza si legge: “Non può assolutamente dubitarsi che lo Zupi è l’unico autore della lesione che cagionò la morte al Cappello”. Ma in difformità rispetto all’accusa di omicidio volontario formulata dal pubblico ministero, la sezione d’accusa ordina il rinvio del principale imputato dinanzi alla Corte d’Assise di Cosenza per rispondere al delitto di lesione seguita da morte. 

«Era intenzione dello Zupi e degli altri del gruppo fascista di vendicarsi contro i socialisti per le bastonate inferte al Bartoli. Tutto il gruppo di fascisti postosi di accordo corse dietro ai socialisti con tale determinato disegno. Sparò lo Zupi, spararono gli altri con idea di ledere, non di uccidere. Se non che dalla lesione prodotta al Cappello seguì la morte» (5).

C’è anche poi valutare la correità di altri fascisti e le responsabilità individuali nei pestaggi del fascista Bartoli e del socialista Adamo. “A Catanzaro si moltiplicarono le pressioni, le intimidazioni e le lusinghe”, ricorda l’avvocato Pietro Mancini, “difensore della memoria di Cappello” insieme a Fausto Gullo e Muzio Graziani. Il processo viene però allontanato da Cosenza, “sede sconveniente e avversa agli imputati” per essere rimesso, a partire dal 31 ottobre del 1925, in un tribunale di Castrovillari cinto d’assedio dentro e fuori da un dispiegamento straordinario di forze giunte appositamente Cassano allo Ionio e Spezzano Albanese.

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L’AMNISTIA | la nuova piazza

L’aula è un’unica macchia nera, il pubblico selezionato, un sentito omaggio al Duce uscito incolume dall’attentato del 4 novembre (6)Dopo diversi giorni di udienze, l’avvocato Corigliano si lancia un’arringa dai toni apologetici e vagamente minacciosi (6):

«La legittima difesa milita a favore dei fascisti, e che i giurati non negheranno a meno che, per legittima reazione, non vorranno proclamare la loro completa innocenza».

Nel corso delle udienze viene ripetutamente negato l’episodio del garofano strappato, alcuni testimoni cambiano le proprie versioni riguardo alla presenza di Antonio Zupi al momento degli spari, ne vengono introdotti degli altri, soprattutto civili, che mettono in dubbio le dichiarazioni rese in ospedale dal Cappello (6). Ma a preoccupare è il clima in cui si svolge tutto il processo, a cominciare dal grido “Aprite la gabbia, passa l’Italia”, annotato dai cronisti, che accoglie in aula gli imputati. Lo stesso verdetto finale di assoluzione per Zupi e tutti gli altri imputati è, a detta del giornale Calabria fascista, “un comizio improvvisato, una folla di popolo osannante all’Italia, al Re e a Mussolini”. Al termine del processo gli avvocati Mancini e Gullo sono addirittura costretti a barricarsi in casa del presidente del tribunale Campolongo per sfuggire al linciaggio tra caroselli fascisti e vermouth d’onore (2).

Nell’autunno del 1944, il Partito d’Azione unitamente al sindaco socialista Vaccaro decide per l’intitolazione a Cappello della vecchia e ormai “innominabile” piazza Littorio. Nel frattempo – come ricorda l’avvocato Pietro Mancini (2) – “il processo Zupi viene riesumato dagli archivi”.

«La Procura di Cosenza presenta alla Corte di Cassazione di Roma istanza d’annullamento della precedente sentenza di assoluzione, che viene accettata. Il Procuratore generale Battaglini rinvia a giudizio Zupi e gli altri imputati alla Corte d’Assise di Cosenza, ordinandone l’arresto.

Ma, come ricorda l’ex deputato socialista in una memoria in occasione del trentennale dell’omicidio Cappello: “Venne l’amnistia Togliatti e gli imputati ne chiesero l’applicazione, che fu loro concessa”. Oggi a distanza di 93 anni l’omicidio Cappello rimane impunito ma una lapide, nella parte antica del cimitero di colle Mussano, a pochi passi da quelle di Pietro e Giacomo Mancini ne consegna alla storia le responsabilità: “Paolo Cappello. Socialista caduto vittima del terrorismo fascista in difesa della libertà e della democrazia”.

(2. fine)

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Le fonti, per approfondire.

(1) ASCS, Tribunale di Cosenza, Processi Penali, b. 3039

(2) La parola socialista, speciale nel trentennale della morte di Paolo Cappello, settembre 1954.

(3) Calabria fascista, 23 settembre 1924.

(4) Archivio di Stato di Cosenza, Elenco definitivo degli squadristi in forza presso la federazione di Cosenza.

(5) Sentenza Corte d’Accusa, Corte d’Appello delle Calabrie, Catanzaro 23 giugno 1925.

(6) Trascrizione del processo Zupi su Calabria fascista, 18 novembre 1925.

(7) Calabria fascista, 30 settembre 1924.

Matteo Dalena
Matteo Dalena

Storico con la passione per la poesia, imbrattacarte per spirito civile. Di resistenza.

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