• lunedì 9 Settembre 2024

Natalia Ginzburg ci insegna che la città è la casa

Rita Sanzi
Rita Sanzi
Marzo24/ 2020

Le lettere, in tutto, sono quasi cento.

La prima è quella di Giuseppe per Ferruccio, spedita da Roma e in autunno. Giuseppe che parte per un’America di cui non sa niente se non che è ordinata, piena di biblioteche, lontana dalla noia e da suo figlio, da Lucrezia e dai giorni vecchi che hanno passato insieme, dalla stanza ventitre di un albergo di Viterbo.

L’ultima è di Lucrezia per Giuseppe. È marzo e sono passati degli anni. Lucrezia e i figli avuti da Piero, la loro casa a Monte Fermo, ogni tanto il pianto e gli slanci di disprezzo per ciò che la circonda, gli amori che la consumano piano mentre cerca protezione. E Piero, intanto, lavora e si rassegna.

Nel mezzo, le esistenze di Alberico, Albina, Ferruccio, Serena, Egisto, Ignazio Fegiz, Roberta: qualche nascita e qualche morte, i corpi che si appesantiscono e si sciupano, partenze e ritorni.

Ma qual è davvero il posto che si è lasciato?
Quale quello in cui si è arrivati un giorno e quale quello a cui si torna?

E ci sono, sui fogli di carta che Natalia Ginzburg immagina nelle caselle postali, le stesse parole e le stesse frasi che si ripetono e si richiamano a vicenda: è il romanzo dei giorni scritti che invece hanno il suono delle voci, e le voci diventano una sola. Si sovrappongono i dolori e le speranze, le miserie casalinghe e le gioie minuscole.

Tra la città, con le sue strade e i suoi angoli familiari o stranieri, e la casa, con le sue stanze piccole e grandi e gli oggetti che abbiamo scelto per riempirle e riconoscerle nostre,  non c’è che la vita e tutto quello che di lei sappiamo e non sappiamo.

Dentro e fuori: “La vita dei nostri giorni” che si riflette “come nelle schegge d’uno specchio rotto”; schegge che dobbiamo maneggiare con cura per non ferirci, per non avere paura di un’immagine frammentata e incompleta.

Al Muragianni, compagno di quarantene

Ettore De Franco
Ettore De Franco
Marzo24/ 2020

Stamane un amico mi ha consigliato di guardare la replica della tappa Jaca-Val Louron del Tour de France del 19 luglio 1991 e, in contemporanea, un altro mi ha chiesto se avessi voglia di scrivere qualcosa su Gianni Mura. Tale sincronismo si è tradotto in un momento di piacere nel leggere l’attacco dell’articolo che Repubblica mandò alle stampe il 20 di luglio:

“Bull mette le ali e vola alto nel cielo di questo Tour. Non è Pegaso, è uno strano animale che morde la strada come fosse un osso. La strada è sempre più piccola, un corridoio in mezzo a gente bollita scuoiata sbronza e forse anche felice” .

(articolo Mura Val Louron)

Avevo quasi 10 anni all’epoca e il nonno non aveva ancora preso a leggermi gli articoli del Muragianni cronista d’oltralpe; ma, come il giornalista, amava le parole crociate. Dopo pranzo, in estate, siedeva in poltrona, estraeva dal taschino della camicia la sua Parker a scatto e sintonizzava il televisore su Rai Tre. Di lì a pochi anni Gianni Mura si sarebbe diventato compagno silente ma prolifico di parole delle mie quarantene volontarie.

Mentre le mie coetanee e coetanei adolescenti pensavano alle bionde trecce, gli occhi azzurri e poi le tue calzette rosse, vivevo le estati in funzione del Tour de France. Mi svegliavo con l’obiettivo di leggere l’articolo in cui Mura avrebbe tratto un bilancio della tappa del giorno prima, parlando, con la scusa della competizione, di tutto ciò che stimolava il suo intelletto. Con la sua sintassi dimostrava che per arrivare da un punto A a un punto B il percorso era tutt’altro che lineare. Nel tragitto che portava dalla bandiera a scacchi della partenza allo striscione dell’arrivo lo scrittore ci obbligava a delle soste forzate per osservare i paesaggi, per provare vini e formaggi locali e per scrutare le espressioni di quelle persone che Eugene Weber aveva definito ‘contadini diventati francesi’.

Grazie a Mura ho sviluppato la dipendenza verso l’amore platonico più struggente della mia vita, Marco Pantani, e quella verso il genere letterario che preferisco sopra ogni altro, il giallo. Giallo come la maglia che indossa il campione de La Grande Boucle sui Campi Elisi, Giallo su Giallo, come il titolo del suo thriller ambientato nella carovana che vaga per le strade transalpine. Le citazioni di Mura sono state il combustibile dell’amicizia con persone che vivono lontano e le sue recensioni di ristoranti l’inesauribile fonte di acquolina in bocca.

“Natale Nappa, reggino di nascita, ha lavorato molti anni nelle isole siciliane, Salina in particolare, come cuoco, poi è tornato a casa. A Pellaro ha aperto nel 2007. Curiosità: Pellaro è attraversata dal 38’ parallelo, come Seul, Smirne, San Francisco e nella sua baia sostarono le navi dirette alla battaglia di Lepanto”.

Mura era il fattucchiere capace in cinque righe di evocare l’imperialismo statunitense e la città più alternativa a stelle e strisce, di rimandare al punk italiano e citare una delle battaglie navali più importanti della storia, quella in cui Venezia e Istanbul si affrontarono senza sconti. Gianni Mura, con la sua Olivetti, non prescriveva, non imponeva la propria visione, ma aiutava a mettere in moto i neuroni di lettori e lettrici, era maieutico come Socrate e onesto come l’Apollo che attraverso dell’Oracolo di Delfi imponeva di conoscere se stessi.

Mura è seminale, lascia sulla terra che da qualche giorno grava con leggerezza sulle sue spoglie, schiere di appassionati che ci allieteranno le letture future strizzando l’occhio al mio compagno di quarantena.

Francesco Veltri
Francesco Veltri
Marzo23/ 2020

Raccontare una strada vuota, da un balcone affacciato sul Po, è quasi una follia. Anche quando quella strada stretta è parte integrante del posto che sta pagando più di chiunque altro la peste del nuovo millennio. La Lombardia è il freddo ritrovato di questi primi giorni di primavera, ma questo sole gelido e insistente non riesce a riscaldare il silenzio quanto quel +361 di ieri sul numero delle vittime. 

La centrale termoelettrica di Ostiglia di giorno e di notte (foto: Stefania Lecce)


C’è il sole, c’è il silenzio e ci sono gli esperti a tenere a bada la noia e le domande, a cui rispondono sicuri senza essere sicuri di niente. Lo nascondono con disinvoltura, perché ormai hanno imparato a conoscere il meccanismo rapido della comunicazione televisiva. Davanti non hanno singoli pazienti intimoriti da una diagnosi negativa, ma migliaia di giudici in pigiama, spettinati e sull’orlo di una crisi di nervi per un posto di lavoro congelato o scaduto prima del tempo.

 
I virologi, gli infettivologi e i cardiologi sono diventati gli ospiti più attesi della giornata: forse è un male, ripercorrendo la quantità di informazioni utili e contraddizioni che esprimono, forse è un bene se si pensa che, senza questo virus, al posto loro, ci sarebbe solo la politica italiana.

E qui, davanti a questo show imprevedibile, c’è il mio divano a doppia vista – finestra e tv – , a ottanta passi precisi dal Po. Sì, ottanta, li ho contati quattro mesi fa, quando, invece del picco, si attendeva la piena come una liberazione. 

La piena, il picco e la liberazione.

Nelle case decadenti che ho di fronte tutto tace, ed è una banalità che mi colpisce. Ogni tanto si accende una luce, passa un’automobile sospetta, un gatto in calore, un cane che lo fa fuggire. Poi quel gatto ritorna circospetto, quasi sempre intorno alle 18, quando il bollettino della Protezione civile conferma puntuale l’apocalisse giornaliera. Che uccide, illude o supera se stessa. 


Oggi, in questo paesino della padania non libera, i contagiati sono 19, chi vorrà potrà seguire la messa di Don Renato su Facebook e per la spesa bisognerà accontentarsi dell’unico discount presente sulla via principale. Ha nutella, frutta fresca e non il vino, ma è troppo piccolo e indifeso. Come le fabbriche non essenziali, chiuse e già in crisi. Resta aperta la centrale termoelettrica che spunta dal tetto che ho davanti agli occhi, dall’altra parte del fiume. Sono altissimi i suoi camini, stretti, biancorossi e lasciano nell’atmosfera i fumi della combustione. Una combustione totale, della mente e di un corpo ingrassato che in questa terra straniera e ammalata, si muove a fatica. 

alfredo sprovieri
alfredo sprovieri
Marzo22/ 2020

So che pare abbiano tutto per assomigliargli, ma questi non sono tempi di guerra. Sono tempi di malattia, tempi di sgomento, tempi di fragilità. Tempi da vivere: perché la vita che non è fragile non è vita. Abbiamo tutti bisogno di una cura a questi nostri giorni, ma cos’è la cura?

La cura (TRECCANI | cura s. f. [lat. cūra]. – 1. a. Interessamento solerte e premuroso che impegna sia il nostro animo sia la nostra attività) è tutto ciò che è utile a convivere in dignità con la malattia, fino alla guarigione oppure fino alla morte.

Curare quindi non significa vincere o perdere una guerra, non significa combattere contro qualcosa, curare significa amare qualcuno.

Il 5 marzo, il Dr. Liu Kai, dell’ospedale del popolo dell’Università di Wuhan guarda il tramonto insieme a un paziente di 87 anni ricoverato da un mese per complicazioni da Corona Virus.

È tutta qui la sfida per l’umanità: finché saremo senza medicine efficaci per questo virus, saremo impegnati a non rimanere senza altre cure per contenere i suoi effetti sulla salute dei più deboli. Chi non è impegnato fuori di casa in questa emergenza, deve rimanere a casa sua il più possibile proprio per questo motivo, per prendersi cura di sé stesso e degli altri, e per permettere a chi ha bisogno di cure ospedaliere di ottenerle. Per questo vanno evitati il più possibile gli assembramenti e le occasioni di contagio, per questo dobbiamo decelerare, cercare di appiattire la gobba di quella pericolosa curva, per non perdere il controllo e andare a sbattere a tutta velocità.

Le cronache manzoniane dalla Lombardia raccontano al mondo di centinaia di persone che ogni giorno muoiono da sole, cercando sprazzo di tutto l’amore di una vita negli occhi di uno sconosciuto palombaro che a un metro di distanza prova a galleggiare negli abissi di questo male.

È tremendo, inaccettabile per la nostra civiltà. Per reagire tutti e ognuno dobbiamo farci carico della cura dei deboli e degli ammalati, il sistema sanitario non può farcela da solo. Come farlo? Come essere utili dalle proprie case nel tempo in cui intere comunità per la prima volta dopo secoli sono costrette anche a rinunciare al rito dei funerali, del conforto con la vicinanza e con la presenza? Effettuando donazioni e esaltando il potere della parola.

Ormai siamo tutti protagonisti della comunicazione, quindi siamo chiamati a fare al meglio la nostra parte, che significa anche depotenziare il contagio delle parole tossiche. I malati sono i più deboli della società, hanno già tanti problemi, non meritano di doversi sentire anche in colpa per la propria debolezza. Ancor di più oggi che, senza distinzioni, malati lo siamo potenzialmente tutti (WIKIPEDIA | dal greco pan-demos, “tutto il popolo”) non cadiamo nella caccia verbale agli untori, non chiediamo nel modo sbagliato ai cittadini di combattere contro un nemico invisibile, altrimenti otterremo solo l’effetto contrario, e li vedremo combattersi uno contro l’altro.

Non tutti hanno gli stessi mezzi per affrontare questi tempi, non è vero che il virus è democratico. Proviamo a essere veicolo per tutti delle spiegazioni nel modo corretto, senza eccessi e distorsioni (TRECCANI infodemia s. f. Circolazione di una quantità eccessiva di informazioni, talvolta non vagliate con accuratezza, che rendono difficile orientarsi su un determinato argomento per la difficoltà di individuare fonti affidabili).

Abbiamo bisogno di parole adeguate, che facciano comprendere a tutti che non stiamo combattendo una guerra, ma che stiamo vivendo un’emergenza sanitaria, cioè un complesso sistema di problemi. Sono importanti le parole. Non ci sono “trincee” nei supermercati, nelle farmacie o negli ospedali, coloro che non possono stare a casa perché chiamati ad affrontare la parte più acuta del problema non sono kamikaze “in prima linea”, sono professionisti che devono poter fare il proprio lavoro con più serenità possibile, sentendosi sicuri di quello che sono, di quello che sanno fare.

I medici, per esempio, devono poter fare i medici e basta, non possono avere anche il carico emotivo degli eroi in battaglia, non può gravare solo su di loro il destino di questa emergenza.

Nel personale sanitario ci sono tanti troppi contagi e anche troppi decessi, e non meritano i medici e gli infermieri morti in questa epidemia di essere rubricati come dei caduti di guerra, come dei sacrifici necessari. Perché i medici che hanno perso la vita durante questa emergenza sono morti sul lavoro. Non sono vittime di un virus, ma di una società che non li ha protetti nello svolgimento del loro compito, che non li ha equipaggiati adeguatamente, che non ha investito su di loro. Una società di evasori fiscali che ha parlato per decenni di emergenza alle frontiere facendo finta di non sapere che la sicurezza di un paese è data dai fondi investiti nel sistema sanitario pubblico, nell’istruzione pubblica, nella ricerca.

Questa è la grande sfida dei giorni che viviamo e vivremo convivendo con la malattia, mettere in condizione i medici di curare e gli scienziati di imparare da lei. Sono in corsia per curare e capire, mentre tutti noi siamo qui per sperare, come scriveva il grande Gianni Mura, e aveva ragione.

“Io sono Christine, e questo è quello che mi hanno fatto in Libia”

mmasciata
mmasciata
Agosto30/ 2018

di Carmine Ritacca*

 

Christine ha gli occhi grigi come nuvole di temporale. Sembrano specchiare l’eco di un tumulto di voci, voci che parlano di un viaggio attraverso l’inferno. Sono le cosiddette migrazioni irregolari attraverso il Mediterraneo – spesso accolte con discriminazione e pregiudizio dall’Europa – il traffico di esseri umani sfruttati dalla criminalità organizzata, anni di giovinezza persi che raccontano delle manifestazioni più viscide della violenza razzista nelle sfere della nostra quotidianità.
Quella di Christine è solo una delle tante storie di vittime di sfruttamento, storie che arrivano in Italia, ma il cui destino appare spesso segnato fin dal paese d’origine. Da qualche mese è beneficiaria del progetto S.p.ra.r. (sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati) per adulti, gestito dal Centro di solidarietà “Il Delfino”. Io qui lavoro come operatore legale, siamo nel piccolo comune di Domanico, alle porte di Cosenza, in Calabria.
Dal primo incontro mi colpisce la sua bellezza discreta e il suo sguardo luminoso, carico di dignità, solo un po’ indurito. Fin da subito comprendo quanto sia difficile per lei parlare, narrare l’indicibile: sembra voglia rivendicare il suo diritto all’opacità su ciò che ha vissuto veramente. È la manifestazione del suo diritto al non voler essere compresa e che resiste alla volontà di meglio “conoscere” la verità.
Mi sono sempre chiesto quale debba essere lo sguardo di chi opera nel campo dell’accoglienza e quale sia il suo ruolo rispetto alla violenza subìta nel corso del viaggio verso l’Europa da questi esseri umani. Domande che tirano in ballo la mia posizione di apparente potere e privilegio: dal fatto di essere un occidentale, un cittadino italiano, alla mia condizione esistenziale e alla mia classe sociale. Cerco di offrirle degli spazi di ascolto in cui esprimersi e parlare con la propria voce, raccontando la propria esperienza. Darle visibilità rispettando i suoi silenzi, il suo senso del pudore, la sua dignità. Questo è il mio tentativo.
Capisco bene che mentre la intervisto, Christine ricostruisce la memoria di ciò che ha vissuto, di quello che per lei è stato. Mettere insieme i ricordi e ricostruirli vuol dire rivivere momenti tragici. La sua storia è la cronaca di qualcosa che non ho mai conosciuto e ascoltato, ma soltanto letto nei rapporti ufficiali stilati dall’Unhcr e dall’Oim che analizzano il fenomeno della tratta di esseri umani sulla rotta del Mediterraneo. Sentirli dalla sua voce e rivederli nei suoi occhi è tutta un’altra cosa.
Christine ha appena compiuto trent’anni e viene da Yamoussoukro, in Costa D’Avorio. Come migliaia di ragazze, è caduta ingenuamente nella rete dei trafficanti che, promettendole di trovare un lavoro dignitoso in Europa, si sono appropriati della sua stessa vita.

“In verità la mia vita è stata segnata fin da bambina- racconta con occhi lucidi -. Mio padre morì prima che io nascessi e trascorsi l’adolescenza a prendermi cura di mia madre gravemente malata”.

Nonostante le mille difficoltà, però, non abbandonò mai gli studi: “Volevo iscrivermi all’università e diventare medico – continua -, ma un giorno un uomo ricco e anziano mi ha costretto a sposarlo. Altrimenti era il massacro. Non avevo scelta e nessun familiare ad aiutarmi”. Da quel momento Christine ha perso ogni diritto e la sua vita è diventata una costellazione di abusi e violenze.
Mi picchiava continuamente, – dice – e non c’è stato un giorno in cui non subissi punizioni di ogni tipo. Convivevo con le altre due mogli e condividevo con loro soltanto macabri sentimenti di terrore. Un giorno provai a scappare ma riuscì a trovarmi. Fu così che mi rassegnai pensando che Dio avesse scelto questa vita per me”.
Il suo racconto è intervallato spesso da silenzi e mi rendo conto che dai suoi occhi traspare una realtà di dignità umiliata, di desideri inespressi e speranze disattese. Interpreto i suoi silenzi come una forma possente di resistenza nei confronti di un’immagine vittimizzante di sé. Non è soltanto la sua storia personale: l’atto di ricordare e di raccontare assume un profondo significato sociale. La vita di Christine, però, cambia radicalmente quando nel 2011 la Costa D’Avorio piomba nella guerra civile che, successivamente, ha devastato il Paese:

“Mio marito scappò – racconta – e non seppi più nulla di lui. Un giorno, le sue due mogli mi presentarono una signora. Mi disse che l’organizzazione per cui lavorava mi avrebbe portato in Europa e che mi avrebbe dato un’occasione. Ma non mi disse mai cosa voleva in cambio”.

Iniziò a viaggiare per giorni interi a bordo di un pick-up insieme con altre persone. Alcune di loro morirono durante il tragitto nel deserto, altre furono lasciate morire di fame. “Non preoccuparti – mi dicevano -, tu andrai in Europa. Ma non potevo immaginare. Ho capito tutto quando siamo arrivati in Burkina Faso e ho visto tante compagne di viaggio piangere”.
La cronaca della violenza, nuda e oscena, inizia in Libia. Ed è una violenza senza sconti: “La signora mi chiese cosa volessi fare per pagarle il viaggio, se la badante o la prostituta. Ma, in realtà, non c’era distinzione”. L’illusione della nuova vita in Europa dura lo spazio dei pochi minuti necessari per sistemare i bagagli nella sua nuova casa: “Ho vissuto in una stanza per cinque anni interi – mi confessa – senza avere nemmeno il tempo di piangere. Passavano sopra di me anche venti uomini al giorno”. Seguo la sua storia con attenzione, ma non riesco a farle più domande. In mio soccorso, giunge il suo racconto puntuale e ordinato: “Dividevo l’appartamento con un signore che mi picchiava se non obbedivo e se non portavo i vestiti adatti. Ogni mese la mia maman si presentava per riscuotere il dovuto, soldi che non ho mai visto e non potrei quantificare, e poi spariva. Per cinque anni interi questa è stata la mia vita. Non sono mai uscita di casa. Poi, un giorno, si presentò dicendomi che ero libera, che il “contratto” era finito, ero vecchia e adesso potevo raggiungere le coste libiche dove sarei approdata in Europa. Il mare fu la mia salvezza”.

Decido di non approfondire sulla permanenza in Libia perché la sua voce tremolante mi restituisce il suo senso di profonda vergogna e umiliazione provati per cinque lunghi anni. La nuova vita di Christine inizia in Sila nel 2016. Uno psicologo si prende cura di lei e pian piano inizia a ritrovare nuova linfa vitale. La sua domanda di protezione internazionale è stata accolta dalla Commissione territoriale di Reggio Calabria e ora è inserita in uno dei progetti Sprar gestiti della Cooperativa “Il Delfino” nella provincia di Cosenza. Non ha abbandonato il suo desiderio originario di diventare medico. A settembre continuerà a frequentare il Cpia di Cosenza e seguirà i percorsi di istruzione superiore per adulti. Non ha nessuna intenzione di ritornare in Costa D’Avorio: “Lì, ormai, non ho più nessuno, nemmeno mia madre. Sono grande lo so – mi sorride – ma ora mi aspetta questa nuova avventura e mi sento pronta”. Spengo il registratore, l’incontro è finito. Lei mi sorride con gli occhi vivaci: “Voi siete tutto quello che ho”.

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*Operatore legale Sprar ordinario “La Terra di Mezzo” Domanico.

Dante Prato
Dante Prato
Agosto25/ 2018

A Casa Nostra, dati e numeri locali di un fenomeno globale e senza tempo come le migrazioni, è un progetto che prende vita a Crotone e si pone l’obiettivo di aprire un punto di vista più umano sui dati locali e globali delle migrazioni dall’Africa all’Europa.

Quello a cui stiamo assistendo negli ultimi anni è un chiaro imbarbarimento della società all’interno della quale viviamo. Muri, fili spinato, respingimenti, daspo urbani: stiamo creando città sempre più chiuse trincerandoci dietro il pericoloso scudo della paura. La politica (dalla destra alla sinistra, dal giallo al verde) ha enormi responsabilità nella creazione di una narrazione tossica che acquisisce consensi giocando solo sui temi del degrado e della sicurezza. Stiamo diventando insensibili nei confronti del dolore e della morte e non ci accorgiamo della nostra complicità nelle tragedie che stanno insanguinando il Mediterraneo.
Scardinare questa narrazione non è certo semplice ma, a volte, risulta necessario provarci, ripartendo proprio da Casa Nostra. Parlare di migrazioni significa anche parlare di Crotone, perché la città pitagorica costituisce un caso esemplare di tutti gli aspetti del fenomeno migratorio: il confine e gli sbarchi, la cattiva accoglienza, le mafie e l’emarginazione sociale, ma anche la buona accoglienza e i virtuosi percorsi di integrazione e infine la popolazione straniera che contribuisce alla costruzione del tessuto sociale mentre i giovani calabresi continuano ad abbandonare il territorio. Affrontare questi temi con dati precisi sul territorio può darci una mano a rileggere l’intero fenomeno, magari con un punto di vista diverso.

Il progetto culminerà con una installazione sulla Lega Navale di Crotone, all’interno della quale con una rappresentazione visiva e con una mostra verrano rappresentati tutti i dati che ricostruiscono una narrazione del fenomeno migratorio contestualizzati al territorio di Crotone.
L’installazione sarà collegata poi a un breve video che attraverso infografica e brevi interviste riproporrà i dati cercando di approfondirli online e offline, portando le persone a confrontarsi nella sfera pubblica contemporanea a un tema che viene spesso usato come specchio per le allodole e che invece rappresenta un terreno fondamentale per decidere in quale tipo di società stiamo andando a condurre le nostre esistenze.

Lazzaro è un film felice

Viola Brancatella
Viola Brancatella
Giugno02/ 2018

 

(NB. Questo articolo contiene spoiler, anticipazioni che potrebbero svelare alcuni tratti salienti della trama del film Lazzaro Felice, di Alice Rorhwacher, nelle sale italiane dal 31maggio)

Lazzaro felice non è un film per tutti i gusti. All’estero è  stato trattato da capolavoro mentre l’intellighenzia protosovranista che va forte dalle nostre parti l’ha recepito come una cartolina sbagliata dell’Italia, un pamphlet di luoghi comuni che piacciono alla sinistra italiana e agli stranieri in cerca di stereotipi esotici, che riportano l’ordine del discorso alla lotta di classe e al vocabolario caro al pensiero gramsciano.
In effetti il film di Alice Rohrwacher che ha vinto il premio per la miglior sceneggiatura a Cannes è un film antico – nella scelta del full frame e dei personaggi – che ricorda i primi capolavori di Ermanno Olmi, recentemente scomparso, a cui la regista ha dedicato un pensiero nel ritirare il premio. Di quell’autore “santo” che raccontava gli ultimi per vocazione, si ritrova molto nel Lazzaro contemporaneo, che, come nei Vangeli, resuscita, e senza volerlo vive un presente che lo respinge e infine lo uccide di nuovo, del tutto. Una storia amara e triste, che racconta, ai giorni nostri, la vita da mezzadri (pratica abolita nell’82) di 54 contadini, stipati da decenni in tre casupole in una piantagione di tabacco, tenuti in schiavitù da una marchesa cinica e opportunista, che sfrutta la loro ignoranza e il loro isolamento dal mondo. Un gruppo di primitivi in via di estinzione, sopravvivenze di un tempo che – almeno al primo sguardo – sembra finito da un pezzo: non ricevono soldi in cambio della loro fatica, accumulano debiti con la padrona, sono analfabeti, educati solo alla religione cattolica, di cui la marchesa si fa sacerdotessa, non hanno accesso ad alcun tipo di tecnologia e vivono in una comune promiscua, anti-igienica e immorale. Intorno a loro, soltanto l’orizzonte dei campi, immersi nel silenzio severo della terra e delle sue creature che conoscono la storia e ricordano sempre.
Il “grande inganno” della mezzadria “legale” improvvisamente crolla, sotto i colpi di un capriccio mascherato da battaglia ideologica del figlio viziato della marchesa, e i contadini si ritrovano improvvisamente in città, dove, traditi dalla Giustizia che aveva promesso loro case sicure (in una dinamica che ricorda la gestione dei terremotati), si rifugiano nelle baracche improvvisate vicino ai binari del treno. Abbandonato il loro mestiere secolare e con esso la loro identità, i braccianti si ritrovano a vivere di espedienti, rubando di qua e di là, in una condizione di disagio maggiore rispetto a quello vissuto in campagna, dove almeno mangiavano (poco), dormivano al sicuro e avevano un nemico certo: la “serpe velenosa” che li teneva a stecchetto e li comandava.

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Adriano Tardiolo interpreta il protagonista Lazzaro

Il giovane Lazzaro, per un incidente fatale, non partecipa all’esodo e raggiunge la sua comunità, ormai cittadina, al risveglio da un letargo durato 20 anni. Oggi come allora si fida ciecamente del prossimo, è sempre disponibile e accogliente, non si stanca, non mangia, non ha bisogno di riposare: è ancora lo schiavo perfetto; non come gli altri, che si sono adeguati alle leggi della città, in un processo di imbarbarimento al contrario, che li ha resi liberi, ma li fa sentire a loro agio con la ferocia urbana.
L’arrivo in città del giovane santo, scambiato dai suoi per un fantasma, è funzionale al recupero delle radici per la sua comunità, in preda a quella che Ernesto De Martino chiamava la perdita della presenza. E racconta, anche in modo didascalico, uno dei mali del nostro tempo, le banche, contro le quali Lazzaro si oppone con l’arma della parola, ben più pericolosa della presunta pistola che nasconde in tasca.

Lazzaro, che è anche il principe Myskin di Dostoevskij e il San Francesco del Cantico dei Cantici, travalica lo spazio e il tempo, portando con sé la musica dei giusti – quella della zampogna – degli ingenui, degli ultimi della fila, di quelli che sono rimasti nell’anticamera della storia, che si sono ribellati al male per sbaglio e non per ideologia.

La sua fine e la corsa in salita del lupo per le vie trafficate di una città industriale è la morte rituale di alcune parti di noi, sotto i colpi di un’età postmoderna che ci uccide ogni giorno e ci impone il ritorno brusco alla guerra di sopravvivenza di tutti contro tutti.
Il film, che non scade in un atteggiamento passatista e primitivista verso il passato mitico, anzi gioca con gli stereotipi, mescolando gli archetipi (religiosi, mitologici e letterari), riprende con delicatezza la tradizione demologica e meridionalista italiana, portando sullo schermo i temi cari al già citato Olmi, Pasolini, Bertolucci e soprattutto alle penne di Antonio Gramsci, Carlo Levi, Corrado Alvaro, Ernesto De Martino, Alberto Mario Cirese, Diego Carpitella, Luigi Lombardi Satriani, Vito Teti e tanti altri che hanno raccontato, spesso da meridionali, il mondo contadino in lungo e in largo.
Oltre all’amarcord storico-antropologico di come eravamo nel passato prossimo, il film fotografa il presente degli sradicati, in cui l’identità si fa mobile ed è pronta a tutto pur di adattarsi al nuovo ordine delle cose. L’ingresso brusco di Lazzaro nella modernità, così, ci conduce alla ri-scoperta della città e dell’alienazione urbana, che è complementare a quella provocata dall’isolamento in campagna, così come la servitù dei mezzadri corrisponde alle prestazioni lavorative odierne gratuite o semi gratuite di nuove vittime del lavoro che, diversamente da Lazzaro, sono consapevoli della loro schiavitù moderna.

Gianluca Palma
Gianluca Palma
Maggio15/ 2018

Da quel che resta del pertugio in pietra di una finestra in alto, senza neanche più le ante, sporgono due ruote azzurre di un triciclo, incastrato tra i rami e le foglie di un albero. Pare un’istallazione artistica creata per emulare il grattacielo “orto verticale” del centro di Milano. Invece ci troviamo più di mille chilometri a sud, nel centro storico di Cosenza, nel quartiere di Santa Lucia, uno dei più degradati strutturalmente e socialmente più complicati della città che fu di Bernardino Telesio e dei bruzi.

Nell’ultimo anno si sono verificati tre crolli gravi. Molti sono gli edifici a rischio, transennati eppure a quanto pare facilmente accessibili. Non si contano le buste dell’immondizia deposte agli angoli tra i vicoli – sulle mura dei palazzi qualcuno ha stampato un cartello che recita, a caratteri cubitali, “questa non è una discarica” – e poi i motorini e le biciclette abbandonate e accatastate ai muri. Gli stendi panni che campeggiano tra un palazzo e un altro, con il bucato regolarmente steso.

Santa Lucia, che ti accoglie con il suo inconfondibile odore di muffa sprigionato da pareti antiche e fognature colabrodo, appare come un non-luogo spacciato, irrecuperabile, condannato alla povertà, all’isolamento, alla disperazione. Sembra dover crollare tutto da un momento all’altro. Eppure anche qui c’è una speranza. Ne è convinta Suor Floriana Raga, che da un anno ha fondato l’Associazione dei volontari di Santa Lucia e per due giorni a settimana organizza il doposcuola gratuito ai bambini del quartiere.

“Operiamo in un posto dove si incontrano bellezza e bruttezza”, ammette, accettando di chiacchierare con noi seduta nella stanzetta che funge da sede dell’associazione.

Fino a poco più di un anno fa – come ci spiegano altre due volontarie, Laura Calderaro e Suor Chiara Labasin – era un magazzino usato come deposito delle candele accese il 13 dicembre, la festa della Santa Lucia. Solo grazie a un finanziamento della Caritas questa saletta è diventata un posto abitabile e confortevole.

Nonostante tutte le criticità di questo angolo di mondo, abbandonato anche dal sole del buon Dio, però Suor Floriana non ha dubbi: “Qui siamo molto ricchi perché tanta è la voglia di vivere che hanno le persone che abitano a Santa Lucia“. Sia Rom sia italiani. “I primi, dopo lo sgombero del campo di Vaglio Lise, vicino alla stazione ferroviaria, si sono stabiliti anni fa negli edifici abbandonati – ricorda la Sorella, appartenente alla comunità delle Suore Ausiliatrici –  Erano una sessantina di famiglie, di cui alcune hanno trovato casa a Santa Lucia, altre nella zona del Duomo. Hanno un grande spirito di adattamento e si sono arrangiati alla meno peggio in case vecchie”.

Suor Floriana che è arrivata in Calabria da Roma nel 2010, ha iniziato a occuparsi di questo territorio da quando si era trasferita a Porta Piana, in cima al colle Pancrazio, dove sorge il borgo antico, “che rispetto al resto del centro storico è  la parte tenuta meglio”, commenta. Presto con le sue consorelle ha percepito l’urlo disperato di Santa Lucia, che invocava aiuto con tutto il fiato nei polmoni.

Con il supporto del parroco del Duomo di Cosenza, Don Luca Perri, ha deciso di intervenire usando la stanzetta di fronte alla Chiesa di Santa Lucia come quartier generale e da novembre 2017 ha dato vita all’associazione dei volontari, i quali, però, non sono abbastanza. “Abbiamo costantemente bisogno di aiuto – ribadisce senza giri di parole Suor Floriana – per adesso operiamo solo due pomeriggi a settimana e siamo sempre alla ricerca di nuove disponibilità. Ci sono persone chi si avvicinano ma ci servono presenze fisse e qualificate. Le famiglie che seguiamo sono complesse e con i bambini occorre molto lavoro e perseveranza”. I piccoli che si rivolgono al loro centro non sono un numero esorbitante, “in tutto 12 bambini – precisa Laura Calderaro – e l’età varia dai 4 ai 12 anni. Noi siamo aperti i pomeriggi di martedì e giovedì”. Ma su 15 soci, quelli realmente operativi nel doposcuola si contano sui polpastrelli di una mano, “purtroppo solo 5 o 6 – lamentano le volontarie – per questo chiediamo più aiuto e partecipazione, in fondo si tratta solo di due ore a settimana”.

Dai diamanti non nasce mai niente, ma anche nella sterpaglia a volte possono spuntare dei fiori.  Questo quartiere così dimenticato e degradato, infatti, nei giorni scorsi si è trasformato in un set fotografico semi-professionale, grazie alla magia dei bambini. Armati di fotocamere e spontaneità hanno immortalato la loro quotidianità, senza filtri e artifici (né tanto meno eliminando le storture con photoshop). Guidati da un osservatore esperto della realtà come il fotografo Ciro Battiloro, hanno tradotto in immagini e scatti di vita la loro casa, offrendo un altro sguardo, la loro prospettiva. “Quella più vera e senza filtri”, ha sottolineato lo stesso Battiloro, che da Napoli è stato invitato apposta a Cosenza per insegnare la fotografia ai piccoli reporter.

Sono stato con loro per venti giorni spesso andavamo in giro insieme a scattare foto, altre volte  lasciavo loro alcune fotocamere e si sbizzarrivano da soli”, ci ha raccontato il 33enne fotoreporter napoletano, che proprio questa settimana ha pubblicato sull’Espresso un reportage sul Rione Sanità e ha realizzato altri racconti sui Rom in Iran e Romania. “Santa Lucia e il Rione Sanità hanno in comune il fatto di essere città-ghetto, emarginate dal resto del territorio. Nonostante ciò ho conosciuto una straordinaria umanità ed è stato bello vedere i bambini prendere l’iniziativa”.

È vero, vista dalla loro prospettiva Santa Lucia è decisamente più bella. Le foto sono state esposte in una due giorni di festa, appese ovunque tra quei vicoli che per l’occasione si sono ripopolati, con il resto della città che si è ricordata di questo angolo dimenticato del borgo antico. Anche se solo per 48 ore. Gli scatti hanno fatto parte dell’arredo urbano, appesi alle impalcature dei palazzi in rifacimento, fissati con le mollette insieme ai panni stesi per strada e sui piedi stalli di legno, nel grande slargo di Piazzetta Santa Lucia, che per l’occasione è diventato un salottino. Con tanto di divani di vimini.

 

Pulitzer 2018 al giornalismo anti-potere

mmasciata
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Aprile16/ 2018

I vincitori del premio Pulitzer 2018 sono stati annunciati lunedì 16 aprile a New York, le categorie più prestigiose sono state ad appannaggio delle inchieste che hanno disarticolato il potere negli Stati Uniti. Il New York Times e il New Yorker hanno vinto il Premio Pulitzer per il servizio pubblico grazie agli scoop sul caso Harvey Weinstein. I vincitori del più prestigioso premio giornalistico americano sono stati annunciati oggi alla Columbia University e “mostrano la forza giornalismo Usa durante un periodo di crescenti attacchi”, ha detto Dana Harvey, la nuova amministratrice dell’equivalente degli Oscar per il mondo dei media.

I vincitori del premio per quanto riguarda il giornalismo (premiata anche la narrativa, il drama e la musica) sono:

 

Giornalismo

Servizio pubblico

The New York Times, per i rapporti guidati da Jodi Kantor e Megan Twohey e The New Yorker, per la segnalazione di Ronan Farrow

Per un giornalismo esplosivo e di forte impatto che ha esposto predatori sessuali potenti e ricchi, incluse accuse contro uno dei produttori più influenti di Hollywood, portandoli a rendere conto di accuse a lungo soppresse di coercizione, brutalità e silenzio vittimistico, stimolando così una presa di coscienza mondiale sull’abuso sessuale delle donne.

Segnalazione di ultime notizie

Staff di The Press-Democrat, Santa Rosa, California.

Per una copertura lucida e tenace degli incendi storici che hanno devastato la città di Santa Rosa e Sonoma County, utilizzando abilmente una serie di strumenti, tra cui la fotografia, i video e le piattaforme di social media, per portare chiarezza ai suoi lettori – in tempo reale e in successive reportage approfondito.

Segnalazione investigativa

Staff del Washington Post

Per resoconti mirati e implacabili che hanno cambiato la corsa al Senato in Alabama rivelando la presunta molestia sessuale di adolescenti di un candidato e successivi tentativi di indebolire il giornalismo che lo ha esposto.

Segnalazione esplicativa

Staff della Repubblica dell’Arizona e USA Today Network

Per reportistica chiara e tempestiva che combina magistralmente testo, video, podcast e realtà virtuale per esaminare, da più punti di vista, le difficoltà e le conseguenze involontarie di adempiere all’impegno del Presidente Trump di costruire un muro lungo il confine statunitense con il Messico.

Segnalazione locale

Lo staff di Cincinnati Enquirer

Per una narrativa avvincente e perspicace e video che documentano sette giorni di epidemia di eroina di Cincinnati, rivelando come la mortale dipendenza abbia devastato famiglie e comunità.

Segnalazione nazionale

Staff del New York Times e The Washington Post

Per una copertura di interesse pubblico, riferita in modo inesorabile, che ha drammaticamente favorito la comprensione della nazione dell’interferenza russa nelle elezioni presidenziali del 2016 e dei suoi legami con la campagna di Trump, la squadra di transizione del Presidente eletto e la sua eventuale amministrazione. (La voce del New York Times, presentata in questa categoria, è stata contestata dal Consiglio e poi congiuntamente premiata con il Premio.)

Segnalazione internazionale

Clare Baldwin, Andrew RC Marshall e Manuel Mogato di Reuters

Per un’inarrestabile denuncia che ha esposto la brutale campagna di uccisioni dietro la guerra alle droghe del presidente delle Filippine Rodrigo Duterte.

Caratteristica di scrittura

Rachel Kaadzi Ghansah, giornalista freelance, GQ

Per un ritratto indimenticabile dell’assassino Dylann Roof, utilizzando un mix unico e potente di reportage, riflessione in prima persona e analisi delle forze storiche e culturali dietro l’uccisione di nove persone all’interno della Chiesa di Emanuel AME a Charleston, SC

Commento

John Archibald di Alabama Media Group, Birmingham, Ala.

Per un commento lirico e coraggioso che ha le sue radici in Alabama, ma ha una risonanza nazionale nell’esaminare i politici corrotti, sostenere i diritti delle donne e proclamare l’ipocrisia.

Critica

Jerry Saltz della rivista di New York

Per un solido corpus di opere che trasmetteva una prospettiva astuta e spesso audace sull’arte visiva in America, comprendendo il personale, il politico, il puro e il profano.

Redazione editoriale

Andie Dominick del registro di The Des Moines

Per aver esaminato con voce chiara, indignata, libera da cliché o sentimentalismo, le conseguenze dannose per i poveri residenti in Iowa delle privatizzazioni dell’amministrazione statale di Medicaid.

Editoriale

Jake Halpern, scrittore freelance e Michael Sloan, fumettista freelance, The New York Times

Per una serie emotivamente potente, raccontata in forma narrativa grafica, che raccontava le lotte quotidiane di una famiglia di rifugiati di vita reale e il suo timore di deportazione.

Fotografia di Breaking News

Ryan Kelly di The Daily Progress, Charlottesville, Va.

Per un’immagine agghiacciante che riflette i riflessi e la concentrazione del fotografo nel catturare il momento dell’impatto di un attacco automobilistico durante una protesta a carico di una rissa a Charlottesville, in Virginia.

Caratteristica fotografica

Staff di fotografia di Reuters

Per fotografie scioccanti che hanno esposto il mondo alla violenza, i rifugiati Rohingya hanno affrontato la fuga dal Myanmar. (Spostato dal consiglio di amministrazione della categoria Fotografia di Breaking News, dove è stato inserito).

Chi ha ucciso Marielle Franco?

alfredo sprovieri
alfredo sprovieri
Marzo26/ 2018

La macchina bianca che la sta riportando alla favela che chiama casa arranca nel traffico: pieno centro di Rio de Janeiro, 21 e 30 circa del 14 marzo 2018.

Quattro chilometri prima, la riunione alla Casas das Pretas a Lapa si era protratta di una mezzoretta più del previsto. Al centro di un candomblè di odori colori e profumi unico al mondo, un capannello di donne nere è ancora davanti la saletta a discuterne quando viene raggiunta dalla notizia più disperata: hanno ammazzato Marielle Franco.

L’auto crivellata di colpi su cui viaggiava Marielle Franco con il suo staff (foto Fohla de São Paulo)

L'auto crivellata di colpi su cui viaggiava Marielle Franco con il suo staff

Tredici proiettili calibro nove millimetri sparati da un’auto scura con targa di fuori città (si rivelerà clonata) investono l’utilitaria dal suo lato destro a circa 1300 chilometri all’ora, l’impatto è un incubo istantaneo: quattro colpi sono per la testa di Marielle, uccisa a sangue freddo. Tre pallottole la trapassano e raggiungono ai fianchi, ferendolo a morte, Anderson Gomes, 39 anni, un autista Uber che saltuariamente accompagna la paladina dei diritti umani nei suoi spostamenti. Non viene rubato niente, è un’esecuzione in piena regola, orchestrata da mani professioniste che, lo sveleranno immagini riprese da telecamere di sicurezza, seguivano la vittima da almeno due ore.

Sul sedile posteriore dell’auto, accanto alla giovane consigliera del Partito socialista (Psol) uccisa, c’è anche la sua amica e addetta stampa, unica sopravvissuta all’agguato. Mentre prova a guarire da una ferita che non si può rimarginare, ora collabora a indagini che le piazze di mezzo mondo pretendono siano celeri e certe.

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Sono passati dodici giorni dall’omicidio della 38enne Marielle Francisco Da Silva, e sempre più persone scendono in strada a migliaia di chilometri dal suo Brasile per invocarne il nome e gridare: “Presente!“. Perché? In una Rio de Janeiro in preda a una spirale d’ingiustizia sociale quasi inaudita si muore ogni giorno in questo modo, eppure la notizia che di solito fatica a trovare un trafiletto sui quotidiani internazionali stavolta apre l’edizione del Washington Post, e lo fa perché ai migliori giornalisti del mondo è chiaro fin da subito che non hanno giustiziato una donna qualunque. A caldo infatti il Guardian la definisce un campione della sua generazione, il Time un’icona che ben presto diventerà mondiale; basta pensare alla telefonata di condoglianze  fatta alla madre da Papa Francesco per capire quanto entrambi abbiano ragione. Marielle è nata e cresciuta in una delle baraccopoli più povere di Rio (Complexo da Marè) e dopo mille sacrifici si è riscattata prima con una borsa di studio e una laurea in sociologia, poi restituendo alla sua comunità un impegno politico che in breve tempo l’ha portata ad essere uno dei politici più amati del Brasile. Nera, gay e donna: viene eletta al primo turno con molte preferenze come baluardo delle minoranze più oppresse, ed è un simbolo che si rivela fin da subito efficace. Nei discorsi pubblici e negli interventi in aula infatti brilla non solo per la bellezza del suo sorriso ma per coraggio e preparazione rivolti alla difesa degli ultimi.

Io sono perché noi siamo” era lo slogan che amava ripetere Marielle Franco in ogni incontro pubblico.

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Di poche ore prima dell’agguato è una dura presa di posizione contro le violenze delle forze di polizia militari che da gennaio hanno il commissariamento dell’ordine pubblico in città; sarebbe fin troppo facile credere che sia stata questa la sua condanna a morte, ma in Brasile da tanti anni non si vede una cosa facile.

Ripartiamo dall’arma del delitto: una fonte investigativa ha rivelato ai media brasiliani che le munizioni usate per l’agguato provengono da un lotto acquistato dalla polizia federale di Brasilia nel 2006. La stessa partita di proiettili è stata già utilizzata nell’agosto del 2015, per la strage che nello stato di San Paolo è costata la vita a 23 persone e ha portato all’arresto di 4 agenti di diversi corpi militari, accusati di aver ordito la mattanza per vendicare l’assassinio di due colleghi in due tentativi di rapina.

È questa pista che porterà a individuare i killer di Marielle? Difficile dirlo ora, per il riserbo delle indagini e per l’intricato puzzle di tessere impazzite  nella guerra al narcotraffico. Si tratta di un conflitto che ogni giorno fa più morti che in Siria e che, come ogni guerra, fatica a distinguere fra i suoi protagonisti il grano dal loglio. È difatti frequente che dotazioni militari finiscano in mano della criminalità brasiliana, il mercato nero delle armi è sempre più florido e lascia cadaveri per strada da entrambe le parti, spesso coinvolgendo gente inerme e innocente, come capitò a uno dei migliori amici di Marielle Franco, un evento che ha segnato il suo impegno futuro in maniera manifesta.

La folla oceanica che ha invaso le strade di Rio de Janeiro all’indomani del delitto di Marielle Franco

Passiamo al movente. Chi parla di delitto politico ha più di un motivo valido per farlo, ma anche questa traccia si presenta ingarbugliata, tanto più per una campagna di bufale ad arte su Marielle che in questi giorni è riuscita, prima di essere completamente smontata, a fare capolino sui media e sui social network. Per esempio, un profilo social molto seguito che tifa per l’intervento diretto dei militari nella vita politica del paese ha diffuso diverse notizie false su Marielle Franco, del tipo che ha avuto una figlia a 15 anni, che è stata sposata con un re delle bande armate e che la sua elezione è stata trainata dai voti del cartello delle narcomafie che infestano la zona da cui proviene.

Tutte fake news, decostruite (leggi qui)  solo dopo che hanno fatto il fantomatico giro del Web anche grazie ai tweet (poi rimossi) da alcuni politici di destra molto in vista in Brasile. Di certo cosa resta?  Che a novembre si vota per le presidenziali ma che non si sa ancora se Lula, al centro di una serie di indagini per corruzione, sarà candidabile. Intanto l’area di sinistra che con il suo Partito dei lavoratori (Pt) ha guidato fino all’impeachment di Dilma il paese, sembra essere favorito nei sondaggi. “Provando a uccidere lei hanno provato a uccidere 46mila elettori“, ha scritto la figlia 20enne di Marielle, una donna che prima di venire uccisa in modo barbaro in quello schieramento stava crescendo di popolarità in modo vigoroso e rapido. Forse troppo.

mmasciata
mmasciata
Febbraio04/ 2018

di Vincenzo Costabile

Quito è lontano da quello da cui sta fuggendo, ma non abbastanza. Luis David viene dalla Colombia, ha occhi grandi e con parlantina veloce mi chiede se una volta riuscito a mettere i soldi da parte posso aiutarlo a venire in Italia. Gli orrori della narcoguerriglia lo inseguono ancora. Parlandone a volte si tocca il dito medio della mano sinistra, che è rimasto paralizzato in seguito a un accoltellamento sotto casa sua. Come ogni mattina lo aspetta il semaforo di un paese straniero. Mostrandomi il lavavetri che tiene nella stanza, mi dice:

“Io posso vivere solo grazie a questo, senza non potrei mangiare. L’altro giorno si è rotto e non ho guadagnato niente”.

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Quando nel mio paese racconto dell’Ecuador come posto di rifugiati molti si stupiscono. Eppure le migrazioni non sono un fenomeno che interessano solo le società occidentali. Secondo gli ultimi dati sono anzi in aumento le migrazioni interregionali in America latina, e si vede. Nella mia esperienza di volontario del servizio civile nella capitale dell’Ecuador ho conosciuto giovani che scappavano dalla violenza generalizzata che si vive in Colombia o nel Salvador o dalla crisi economica e politica del Venezuela. Ed è proprio la Colombia di Luis David nel sudamerica il paese con i maggiori tassi di emigrazione, molti dei quali rivolti appunto al confinante Ecuador. Con il mio compagno italiano di servizio civile, Angelo, abbiamo visitato la Colombia e sentito i racconti di come lo scontro tra guerriglia, paramilitari, narcotrafficanti e organismi statali abbia provocato in alcuni decenni milioni di vittime e di sfollati. A Medellín, la città di Pablo Escobar, c’è un museo, chiamato Casa de la memoria, in cui vengono esposti i numeri e le notizie relative a tutte le vittime innocenti di questi scontri: giornalisti, attivisti politici, difensori dei diritti umani, sindacalisti… L’edificio è una costruzione moderna e nel corridoio centrale sul muro c’è una grande scritta

Ni guerra que nos asesine, ni paz que nos oprime

(Né guerra che ci uccida, né pace che ci opprima).

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Il finanziamento di questi conflitti deriva dalla gestione dei traffici di droga. Arrivati in Colombia si ha la chiara impressione di come sia diffusa la rete dello spaccio: ci hanno proposto di comprare cocaina tassisti, camerieri, venditori ambulanti e mendicanti. Mi ha sorpreso il fatto che siamo stati molte volte fermati e perquisiti dalla polizia, ma in seguito un colombiano ci ha detto che lo fanno principalmente perché se trovano piccoli quantitativi di droga ai turisti, gli possono chiedere soldi in cambio del silenzio. Una vastissima rete criminale che ha sempre bisogno di nuove leve, per questo è comune il reclutamento sotto minaccia di giovani e adolescenti. Ragazzi a cui non resta che vivere continuamente rischiando di morire. L’unica alternativa è andare via, come hanno fatto Luis David e molti altri ancora.

Ad esempio c’è Alvaro, un ragazzo di 17 anni. Scappava dal Venezuela dopo che lo stato gli aveva tolto la borsa di studio. Lui con altri studenti, per protesta, aveva partecipato a una manifestazione contro il governo, durante la quale la polizia ha aperto il fuoco sui manifestanti e sono stati uccisi 5 suoi amici. Lasciato il suo paese si è trasferito in un primo momento in Colombia, dove lavorava vendendo cioccolatini per la strada, ma lì un gruppo criminale voleva reclutarlo nei circuiti di spaccio. In quel periodo lo stato colombiano ha messo a disposizione a chi fuggiva dal Venezuela dei passaggi gratuiti per l’Ecuador e così ha potuto attraversare un’altra frontiera e infine entrare a far parte della “famiglia” di ASA (Asociación solidaridad y acción), l’associazione per cui lavoravo a Quito. Alvaro mi ha colpito per il suo senso di responsabilità, a Quito si è presto inserito in un percorso scolastico e ha anche iniziato a lavorare; è magro e di media statura, parla con equilibrio e ironia. Alvaro è nero, e infatti si definisce afrodiscendente. Il suo sogno è entrare in una unità investigativa speciale. Con il mio collega Angelo gli dicevamo che sembrava quasi che anche lui fosse un educatore, dal modo con cui si rapportava con i bambini della casa famiglia.

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ASA gestisce 3 case famiglia che ospitano ognuna intorno ai 7-8 bambini e adolescenti, provenienti da storie di abbandono e maltrattamenti. Questi giovani sono seguiti 24 ore su 24 da 3 educatrici su turni rotativi, il nostro compito era aiutarle. Una di queste strutture, quella del quartiere di Carcelen Bajo, è situata proprio sotto la casa dei volontari dove vivevamo io e Angelo e condivide il patio con la casa di autonomia, dove si trova Alvaro, una struttura dove vengono ospitati ragazzi rifugiati in procinto di compiere 18 anni, per essere accompagnati in processi di indipendenza. Il passaggio alla maggiore età, che dovrebbe essere una festa, in questi casi può essere molto faticoso, perché la tutela dei servizi sociali si riduce e i neo-maggiorenni non possono permanere nella stessa struttura.

A quelli che vivono una condizione di persecuzione o rischierebbero la vita nel loro paese di origine viene riconosciuto lo status di rifugiato politico in Ecuador e godono di protezione internazionale, quindi non possono essere rimpatriati, e allo stesso tempo l’associazione, tramite le risorse economiche dell’ACNUR (in inglese UNHCR, l’ufficio dell’ONU che si occupa di immigrazione) fornisce dei sussidi economici mensili provvisori (in vista di una propria indipendenza) per l’alloggio e le spese alimentari. Inoltre noi svolgevamo degli accompagnamenti al ministero delle relazioni estere e dagli avvocati per il conseguimento dei documenti, ai servizi sanitari, in percorsi di inserimento scolastico e lavorativo o in attività ludiche e ricreative. La psicologa dell’associazione iniziava una psicoterapia breve, di qualche mese, per trattare i temi traumatici che li avevano spinti ad abbandonare il proprio paese, spesso legati a uccisioni di parenti e amici o al tentativo di reclutamento forzato in organizzazioni criminali.

Le persone che ho visitato con più continuità insieme alla psicologa nel mio anno di permanenza in Ecuador è stata la famiglia di José, composta dalla coppia, il padre, José, che ha la mia età, 26 anni, la compagna che è di qualche anno più grande e da 7 bambini, 4 nati da relazioni precedenti della donna, 2 da relazioni precedenti dell’uomo e l’ultimo, di appena un anno, in comune ai due. Questi bambini (il più grande ha 13 anni) non potrò mai dimenticarli per la loro vivacità, la loro irrequietezza, i loro sorrisi e i loro pianti, l’affetto e le risate che mi hanno donato, uniti certamente alle preoccupazioni e alla tristezza per la precarietà delle loro condizioni di vita, le case fatiscenti e sporche da cui erano di continuo scacciati per il fastidio che dava il numero elevato di bambini ai vicini e ai padroni di casa, unito alla discriminazione di alcuni ecuadoriani verso i colombiani e i neri, come loro erano. Il padre  per mantenere la famiglia vendeva succhi di frutta per strada. È molto comune che i rifugiati facciano lavori di vendita ambulante, commerciando dolciumi e succhi di frutta. Infatti prendendo un autobus vedrete salire di continuo venditori per offrire cibarie e mercanzia varia, vendita introdotta generalmente da lunghi discorsi di presentazione per convincervi all’acquisto o più raramente mendicanti che potrebbero mostrarvi le cicatrici di qualche violenza o raccontarvi storie di malattie.

José mi ha descritto bene l’evolversi della storia della guerriglia in Colombia, da organizzazione di lotta armata mossa da ideali, che si batteva contro le iniquità, fino ad adottare metodi spietati e diventare tutt’uno con il narcotraffico, tanto da essere definita narcoguerriglia. La principale organizzazione rivoluzionaria di lotta armata in Colombia sono le Farc (Fuerzas armadas revolucionarias de Colombia). Con il governo di Juan Manuel Santos si è raggiunto un accordo tra lo stato e le Farc, secondo il quale le Farc depongono le armi e si inseriscono nella dialettica democratica del paese. Questo accordo è stato raggiunto dopo anni di repressione violenta e senza quartiere da parte dello stato nei confronti dei guerriglieri, prima sotto il governo di Uribe, con ministro della difesa Santos e poi sotto il governo dello stesso Santos, che grazie a questo risultato ha vinto il Nobel per la Pace. Adesso però, come mi ha raccontato José ed emerge dai fatti, altri gruppi armati si stanno contendendo il posto delle Farc nel controllo del territorio con la violenza. Il sogno di José è di trasferirsi negli Stati Uniti, dove spera di poter offrire un futuro migliore ai propri figli. È preoccupato dall’amministrazione di Donald Trump e si informa con insistenza dei programmi dell’ACNUR chiamati di resentamiento, che consistono nel trasferimento dei rifugiati che ne facessero richiesta, attraverso canali speciali, negli Stati Uniti, in Canada e in Nuova Zelanda. Ma questi sono processi molto lunghi e con rigidi requisiti.

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Andando in giro per Quito abbiamo conosciuto molti ecuadoriani che hanno vissuto in Italia e poi sono tornati nella loro nazione. L’Ecuador nel 1999 ha conosciuto una profonda crisi economica, conosciuta come feriado bancario che ha comportato una emigrazione di massa della popolazione ecuadoriana (oggi il paese conta una popolazione di circa 16 milioni di abitanti) verso paesi europei, tra cui l’Italia, e nordamericani e il passaggio dalla vecchia moneta, il Sucre, al dollaro americano. Con il governo di Rafael Correa, nel 2008, lo stato ha avviato un programma chiamato Plan de retorno che garantisce sgravi fiscali e agevolazioni economiche agli ecuadoriani emigrati che intendono tornare nella loro patria. Il governo di Correa, durato dieci anni, dal 2007 al 2017, è contraddistinto da luci e ombre. Con il suo partito, Alianza País ha varato un programma chiamato Revolución cuidadana, per il rinnovamento dell’apparato statale e dei servizi pubblici, investimenti in opere pubbliche, la statalizzazione delle risorse petrolifere e ha ottenuto una significativa riduzione dei tassi di povertà dal 36,7% del 2007 al 22,5% del 2014. Tuttavia è accusato di avere avuto metodi autoritari nella gestione del potere e di non aver preso misure contro la corruzione dilagante. Gli è succeduto al potere Lenin Moreno, suo ex vicepresidente.

Lavorando nei servizi sociali di un paese come l’Ecuador e rapportandomi anche a giovani di altri paesi sudamericani ho potuto osservare la precarietà delle condizioni di vita di molti di loro. Una precarietà economica ed esistenziale che ha effetti ambivalenti: da un lato rende questi giovani più forti e più furbi, anche più capaci di gioire dei piccoli piaceri della vita, dall’altro non gli garantisce un ambiente in cui sviluppare una stabilità emotiva tale da saper riconoscere i modelli positivi da quelli negativi, da avere un senso profondo di ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. L’Ecuador è una meta ambita per molti rifugiati oltre per il fatto di avere una economia più stabile di altri paesi in America latina, soprattutto per l’assenza quasi totale di organizzazioni criminali potenti e ramificate. Certo, è diffusa la microcriminalità, i furti anche violenti, l’abuso di genere. Ma la popolazione ecuadoriana sa anche essere accogliente e cordiale, con dei modi di fare caratterizzati da spontaneità e teatralità. Le ricchezze naturali che offre il paese destano meraviglia e stupore: la foresta amazzonica, le Ande su cui si ergono vulcani maestosi, la costa bagnata dall’Oceano Pacifico e le Galapagos, le isole incantate.

Affascinanti sono le culture indigene dei nativi. Vivono condizioni diverse di integrazione e scambio: ai due estremi troviamo comunità che sono visitabili e assoggettate a logiche turistiche, altre che si rifiutano di essere contattate, che vivono distanti dal resto della civiltà. Il nostro progetto di volontariato aveva il nome di “Buen vivir para todas y todos”. Il Buen vivir (Sumak Kawsay in lingua quechua) è una concezione filosofica andina, riferita a una cosmovisione ancestrale della vita. È l’equilibrio tra il sentire bene (Allin Munay) e il pensare bene (Allin Yachay), che dà come risultato il fare bene (Allin Ruay). Il vivere la vita con pienezza per uno sviluppo e una “fioritura” umana in tutte le sue dimensioni e in armonia con la natura. L’Ecuador un giorno potrà raggiungerlo, anche se la strada è ancora lunga e in salita.

Chi è Santiago Maldonado

alfredo sprovieri
alfredo sprovieri
Settembre04/ 2017

21 ottobre 2017Si è risolto il mistero che ha scosso per 78 giorni l’intera Argentina. Sergio Maldonado, fratello maggiore di Santiago, ha confermato che il corpo ritrovato nel fiume Chubut è quello del fratello. «Abbiamo riconosciuto i suoi tatuaggi, siamo convinti che si tratti di Santiago», ha detto, parlando con la stampa davanti all’obitorio giudiziario di Buenos Aires, dove un gruppo di una ventina di esperti ha esaminato il cadavere scoperto il 18 ottobre a circa 300 metri dal posto dove suo fratello era stato visto per ultima volta.

 

Doveva essere nunca mas, e invece no. Santiago Maldonado è scomparso nel nulla e Plaza de Mayo ancora  trema d’indignazione per chiedere che fine abbia fatto l’ennesimo desaparecido argentino. L’ex presidente Cristina Férnandez de Kirchner, ora alla guida dell’opposizione, ha offerto 28mila dollari di ricompensa a chi ha notizie sulla scomparsa di Santiago e il presidente Mauricio Macri costretto dalle proteste rimbalzate dall’Argentina in tutto il mondo ha chiesto agli inquirenti impegno e velocità su questa oscura vicenda.

Santiago Maldonado ha 28 anni, capelloni ricci barba lunga e occhi scuri scuri. Viene da una città che si chiama Veinticinco de Mayo, nella provincia di Buenos Aires ed è nato il 25 luglio del 1989. Da alcuni mesi si era trasferito a El Bòlson, nella Patagonia andina, per vivere fa l’artigiano e dicono sia bravissimo con i tatuaggi. I suoi familiari raccontano che non si è mai interessato di politica e che non fa parte di nessuna organizzazione, ma che quando si è trovato a vivere con le comunità aborigene ha sentito il dovere di appoggiare le loro rivendicazioni. Il 31 luglio era in strada per una manifestazione. All’alba dell’indomani la gendarmeria, senza un mandato firmato da alcun giudice, ha distrutto il cancello di una riserva mapuche con un camion antisdrucciolo con cannoni ad acqua e un gran numero di agenti sono entrati sparando proiettili di gomma e di piombo alle persone che vivevano nel campo. Molti sono scappati attraverso il fiume Chubut per mettersi in salvo nella foresta, ma Santiago non sa nuotare. Secondo alcuni testimoni, che si sono rifiutati di deporre davanti alle autorità se non protetti da un cappuccio, Maldonado è finito su una camionetta dei militari, ma la polizia ha sempre negato di averlo messo in stato di fermo, circostanza negata anche dal Ministro della Sicurezza Patricia Bullrich. Il ministro del governo di destra di Macri è una rampolla di un’importante casato di latifondisti argentini, ma anche sorella della moglie di Rodolfo Galimberti, storico leader montonero (la sinistra estrema del peronismo) e ha iniziato a fare politica proprio con la gioventù peronista. L’avvocato Juan Gabriel Labaké, storico volto del peronismo, nel 2015 l’ha accusata di lavorare per il governo degli Stati Uniti come parte di una rete destinata a destabilizzare i governi latinoamericani che non rispondono agli interessi statunitensi.

Le proteste per Santiago Maldonado sono statnet anche teatro di scontri e repressione
Le proteste per Santiago Maldonado sono state anche teatro di scontri e repressione

Interessi internazionali che collidono con quelli dei mapuche, il glorioso e antico “popolo della terra”, ancora oggi organizzato in comunità indigene “ancestrali” che vivono secondo le modalità di organizzazione e la religiosità dei loro antenati. Queste comunità nei decenni sono state depauperate e derubate non solo della loro libertà, ma anche dalle terre che erano state loro concesse dallo Stato argentino alla fine del ‘800. Le terre sono state prima incamerate dalle famiglie argentine che finanziarono la campagna militare contro gli indigeni, come appunto i Bullrich, per essere poi cedute soprattutto a capitali internazionali, fra cui anche italiani. Il primo proprietario terriero in Patagonia è oggi il gruppo Benetton, che ha avuto diverse cause da comunità indigene proprio sui titoli di possesso della terra. A differenza del Cile, dove le rivendicazioni mapuche (un milione e mezzo gli indigeni di questa comunità che vivono nel paese di Neruda) sono più radicali, in Argentina si procede con le occupazioni di terre considerate sacre o appartenenti a una comunità e a qualche piccolo attentato senza vittime. Il leader indigeno Facundo Jones Huala, attualmente in carcere, con il caso Maldonado ha avuto l’opportunità di parlare al mondo della causa mapuche con l’intervista concessa a Jorge Lanata, grande giornalista di inchiesta, già tra i fondatori del quotidiano Pagina 12. L’intervista ha avuto un’audience record, ed è la prima volta nella storia che milioni di telespettatori hanno potuto sapere di cosa succede ai popoli indio.

Per conoscere l’impatto di queste verità nella popolazione argentina bisognerà aspettare le legislative di ottobre, quello che è certo è che nel paese dei desaparecidos non ci sarà un comizio libero dal grido: Donde està Santiago Maldonado?

‘A Ciambra, nell’India di quaggiù

Viola Brancatella
Viola Brancatella
Agosto31/ 2017

Dialetto stretto, tabagisti bambini, musica a tutto volume, case abusive, piccoli espedienti per sopravvivere e la Piana di Gioia Tauro sullo sfondo. La Calabria torna, così, sul grande schermo in “A Ciambra”, seconda opera del regista italo-americano Jonas Carpignano, cresciuto tra Roma e New York e residente a Gioia Tauro dal 2010, dove si è trasferito durante le proteste dei braccianti di Rosarno. “A Ciambra” è il nome del luogo in cui la famiglia Amato vive dagli anni ‘80 insieme ad altre famiglie rom gioiesi, e dove Pio, il giovane protagonista quattordicenne (all’epoca dell’incontro col regista undicenne) si fa spazio tra gli adulti della sua famiglia per diventare grande, rubando qua e là e fumando vari pacchetti di sigarette al giorno. La storia di Pio Amato e della sua numerosissima famiglia si è intrecciata con quella di Jonas molti anni fa a Gioia Tauro, dove il regista si era trasferito per documentare le proteste dei braccianti di Rosarno – lavoro da cui anni dopo è scaturito il suo primo film, “Mediterranea”, accolto a Cannes come uno dei documenti più taglienti e realistici sulla crisi dei migranti nel Mediterraneo. In quei giorni Jonas stava girando il suo primo cortometraggio calabrese, “A Chjana” (“La Piana”, 2012), che ha come protagonista Koudous Seihon, attuale coinquilino, attore e amico del regista, quando l’automobile che conteneva tutte le attrezzature del set è sparita. Nel tentativo di recuperare la macchina, Jonas è entrato in contatto con la comunità rom di Gioia Tauro per la prima volta, in un incontro che ha segnato l’inizio di un rapporto simbiotico tra Jonas e Pio.

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“A Ciambra” è girato a spalla, in 16 millimetri, perché il regista non ama il formato digitale. Ha richiesto 91 giorni di set, spesso improvvisato e spontaneo. Anni di prove “non ufficiali”, come le chiama il regista: sedute di racconti a pranzo e a cena di fatti accaduti, visioni del mondo, ricordi, memorie, prospettive, valori e sogni dei componenti della famiglia di Pio. Tre mesi di riprese e molti di più per convincere gli Amato a recitare se stessi, mettendo in scena, senza filtri, i furti di rame e di automobili, le discussioni in famiglia, i fragili rapporti con la ‘ndrangheta locale (che si vede poco, ma si sente), l’amore che arriva presto e a pagamento, la prigione, le sigarette a tre anni, la musica a palla, il senso delle radici e dell’unità della famiglia al di sopra di tutto.

Volevo rappresentare il senso di appartenenza alle radici che i rom hanno, nonostante siano nomadi per definizione” – ha detto Jonas Carpignano alla prima romana di “A Ciambra” nell’arena estiva di Nanni Moretti – “E volevo mostrare quello che fanno senza censure, perché si può voler bene a qualcuno anche se ruba o se è diverso da noi, lo si accetta e lo si ama lo stesso”.

E così è andata per Jonas e per il giovane Pio, oggi quindicenne con fidanzata e macchina al seguito, che per anni ha letteralmente seguito il regista per le vie di Gioia Tauro, incuriosito dal suo lavoro e dalla sua diversità. Quella stessa diversità che, nel film di Jonas, avvicina e rende amici Pio e Ayiva (Koudous Seihon), un migrante del Burkina Faso che lavora a Rosarno, e che smentisce (forse) la diffidenza che i rom provano verso tutti gli altri, in particolare verso gli africani. Pio, i suoi fratelli, Ayiya, le prostitute straniere e tutta l’enorme comunità di “diversi” che popola la Piana di Gioia Tauro si muovono in uno spazio liminale, a cavallo tra l’ufficiale e il non ufficiale. Chi in cerca di un riconoscimento, chi di un salario, chi di placare la nostalgia di casa, occupando un posto invisibile ma tangibile nella società, come la ‘ndrangheta, che secondo il nonno di Pio ha reso i rom meno liberi di quello che erano in passato, rinforzando il principio del “noi contro tutti”.

Da molti definito il Bronx di Gioia Tauro, “A Ciambra” è un racconto, una fotografia che passa attraverso gli occhi di Pio – e spesso sembra scappargli via dagli occhi – tracciata con gli strumenti della finzione e del documentario e condita con momenti di lirismo registico da copione e momenti di spontanea analisi antropologica, come i risvegli di Pio, i racconti della mamma Iolanda, le nostalgie del nonno anziano. Materiale su cui anche De Seta avrebbe messo gli occhi e su cui alcuni dei più celebri antropologi calabresi come Luigi Lombardi Satriani e Vito Teti si interrogano e scrivono da decenni: l’alterità, la trasmissione della cultura, il sacro, il rito, il sangue, l’onore, la terra, il dialetto come pratica resistenziale, le macerie della Calabria, la modernità incompiuta, la decrescita, l’assenza, la desertificazione, la resilienza. Un ritratto di comunità, che spalanca le porte a tanti altri ritratti che si sommano e si accumulano in quelle terre e ogni tanto finiscono tristemente sulle pagine dei giornali: lo scioglimento del Comune per infiltrazione mafiosa, i maxi arresti delle ‘ndrine gioiesi, le ottocento tonnellate di armi chimiche di Assad smaltite nel porto di Gioia Tauro nel 2014, i tumori, le proteste dei braccianti, le alluvioni stagionali, il ritratto di un’ennesima “terra dei fuochi” meridionale.

Jonas Carpignano sul set
Jonas Carpignano sul set

Accolto da dieci minuti di applausi a Cannes, durante la prima nella sezione Quinzaine des Réalisateurs, “A Ciambra” vanta una troupe e un cast tecnico internazionale e di grande pregio, tra cui Alfonso Gonçalves, lo storico montatore di Jim Jarmusch, e Martin Scorsese come produttore esecutivo, il quale, non solo ha contribuito economicamente con il suo fondo per i giovani registi, ma ha incontrato Jonas durante il montaggio per consigliarlo su come procedere nella fase finale del film. Ispirato ai grandi film di formazione americani di Martin Scorsese e di mafia italiani come “Gomorra” di Matteo Garrone, “A Ciambra” è molto lontano dai classici set dei gangster movies: tanto per cominciare, è un film che parla il dialetto calabrese – che il regista ha imparato durante gli anni di permanenza in città- , è il risultato di un’acuta e paziente scrittura del regista sulla base dei racconti degli Amato e soprattutto è figlio di un lavoro di set impegnativo, fatto di prove e di ripetizioni continue, visto che la famiglia Amato per lo più non sa leggere. Una vera e propria dedica alla città, ai suoi abitanti, il frutto di una missione civile e di una militanza artistica che agiscono attraverso il cinema del reale.

Jonas Carpignano, che da New York – dov’è nato da un padre italiano e da una madre afro-americana – si è trasferito in Italia a fare il suo mestiere, si dice debitore nei confronti del cinema di Matteo Garrone (“Il Racconto dei Racconti”, “Gomorra”, “Reality”), della regista inglese Andrea Arnold (“Red Road”, “American Honey”) e di Alice Rohrwacher, la regista di “Le meraviglie” (2014) e di “Corpo Celeste” (2011), un altro film ambientato nell’area di Reggio Calabria. Così, dopo Wim Wenders che nel 2009 ha portato le telecamere a Badolato (CZ) e a Riace (RC) per realizzare il suo piccolo capolavoro sull’integrazione “Il volo”, il cinema è tornato in Calabria negli ultimi anni, prima con “Corpo Celeste” e la sua parrocchia di provincia ossessiva e senza crocefisso, poi con la commedia “Qualunquemente” di Giulio Manfredonia in cui Antonio Albanese veste i panni di un indimenticabile e deprecabile imprenditore corrotto e, infine, con il pluripremiato “Anime Nere” di Francesco Munzi, girato tra Africo, Bianco e Locri e “Il Padre d’Italia” di Fabio Mollo, con gli straordinari Isabella Ragonese e Luca Marinelli e il porto di Gioia a fargli da sfondo.

“A Ciambra” (dal 31 agosto nei cinema italiani) è, per ora, l’ultimo tassello di una narrazione collettiva, che sta portando la Calabria e i suoi abitanti al centro delle attenzioni di artisti e studiosi della cultura, con un rinnovato interesse per l’“India di quaggiù”, che si spera col tempo diventi un’officina stabile di idee e di nuove significazioni.

mmasciata
mmasciata
Agosto24/ 2017

di Giulia Sbaffi

John Reed era uno che i reportage li sapeva scrivere. Testimone oculare e appassionato narratore dell’evento simbolo del secolo scorso (La Rivoluzione d’Ottobre, ovviamente), il giornalista statunitense tracciò forse il ritratto più acuto della statura politica di Vladimir Lenin:

“Erano esattamente le otto e quaranta quando una tempesta di applausi annunciò l’entrata della presidenza, con Lenin, il grande Lenin. Piccolo di statura, raccolto, la grande testa rotonda e calva infossata nelle spalle, gli occhi piccoli, il naso camuso, la bocca larga e generosa, il mento pesante. Era completamente sbarbato, ma la barba, così conosciuta prima e che d’ora innanzi sarebbe sempre rimasta, cominciava già a rispuntargli sul viso. Il vestito era consunto, i pantaloni troppo lunghi. Poco fatto, fisicamente per essere l’idolo della folla, egli fu amato e venerato come pochi capi nella storia. Uno strano capo popolare, capo per la sola forza della intelligenza. Egli non era brillante, non aveva spirito, era intransigente e appartato, senza alcuna particolarità pittoresca, ma aveva il potere di spiegare le idee profonde in termini semplici, di analizzare concretamente le situazioni e possedeva la più grande audacia intellettuale.”

Era l’8 novembre del 1917 e John Reed in Russia ci sarebbe rimasto fino alla morte, sopraggiunta per tifo nell’ottobre di tre anni dopo.

Forse unanimemente riconosciuto come testimone lucido della rivoluzione russa, il giornalista americano aveva iniziato il suo apprendistato nel 1913 nella piccola cittadina di Paterson, ventitré miglia dal Greenwich di Manhattan dove era nata la rivista “The Masses”- faro del radicalismo sociale e culturale statunitense e palestra per decine di scrittori. Fu “The Masses” ad inviare il giovane Reed, appassionato osservatore del fiorente radicalismo politico di quegli anni e tra i fondatori del partito comunista, a seguire gli scioperi dell’industria della seta della città che fu poi cornice alla poesia di William Carlos Williams

“C’è Guerra a Paterson. Ma è uno strano tipo di guerra: la violenza viene tutta da una parte sola, dalla parte dei proprietari dei setifici”.

L’attacco concitato del reportage denuncia il coinvolgimento diretto del giornalista nella lotta degli operai. Reed, infatti, si mescola a loro con penna e pugno; racconta lo scontro concitato tra il picchetto e la polizia, tratteggia il ritratto della folla composita che anima lo sciopero e quello dell’agente McComarck che bracca il giornalista mentre assiste allo sciopero e senza un’accusa fondata lo trascina in prigione. Poco prima del rilascio Reed in carcere parla con i picchettanti detenuti insieme a lui; c’è chi esce su cauzione, chi raccoglie il vitto portato in visita dai familiari. Tutti parlano lingue diverse.

“«Quali sono le nazionalità che legano di più al picchetto?» Un giovane ebreo, dall’aspetto pallido e malaticcio per la mancanza di cibo, si fece avanti orgogliosamente. «Tre grandi nazioni legate tra loro così» E fece un pugno. «Tre grandi nazioni: italiani, ebrei e tedeschi» «E che ne dite degli americani?» Tutti scrollarono le spalle e sogghignarono con disprezzo. «Gente inglese non va al picchetto» disse uno sotto voce «Americani non piace la lotta!»”

 

  • Prima di Nicola e Bart

Ovviamente non fu così, nello schieramento composito raccoltosi a Paterson c’erano militanti americani dell’IWW (Industrial Workers of the World) come Big Bill Haywood, organizzatore del sindacalismo rivoluzionario e altre tra le sigle dell’operaismo statunitense di quegli anni. Le voci raccolte da Reed, tuttavia, dicevano qualcosa di storicamente incontrovertibile: a Paterson, come in decine di altre città della costa orientale degli Stati Uniti, a guidare le lotte dei lavoratori, ad organizzarle e animarle erano soprattutto gli immigranti e in particolar modo, gli italiani. Wops, neri, ma soprattutto socialisti ed anarchici; questi erano gli sprezzanti connotati politici e culturali che legavano le fila dei destini di coloro che da Ellis Island si erano dispersi nelle fabbriche e nei sobborghi delle aree industriali dell’America operaia. Il radicale attivismo politico della fabbrica, il proliferare di gruppi e organi di stampa (soltanto a Paterson, il periodico la Questione Sociale fondato proprio in New Jersey dal regicida Gaetano Bresci e il Gruppo L’Era Nuova) e l’intensificarsi degli scioperi provocarono la feroce stretta repressiva dell’autorità locali. A cavallo tra gli ultimi anni del primo conflitto mondiale e il 1920, poco prima che a Boston Sacco e Vanzetti diventassero simbolo della repressione crudele e scellerata del radicalismo politico e della sinistra immigrata, un’intera comunità politica ed etnica divenne bersaglio della violenta repressione pianificata dal dipartimento di Giustizia americano. A Paterson la comunità anarchica italiana fu completamente spazzata via.

Paterson, NJ (ieri)

Il 2 giugno 1919, una serie di attentati dinamitardi colpirono le città di Philadelphia, New York, Paterson, Washington e Cleveland. Il ritrovamento di una serie di volantini (mai storicamente e legittimamente) attribuiti agli anarchici giustificarono l’azione della polizia. Decine di immigrati italiani furono arrestati e portati ad Ellis Island; tra questi, molti furono deportati in Europa.

L’epurazione politica corrispose ad una vera e propria pulizia etnica generando una generale amnesia.

  • Paterson, Agosto 2017

Oggi gli italiani a Paterson non ci sono (quasi) più. Anche l’unico ristorante con il Colosseo nell’insegna serve in realtà cibo mediorientale. A cambiare sono sicuramente stati i flussi migratori, la definizione di subalternità nel grande magma etnico americano e la storia culturale delle sue comunità. L’assenza italiana, tuttavia, non è soltanto costitutiva del corpo sociale della città, ma anche della sua memoria storica.

Arrivando a Paterson con l’autobus 190 da Port Authority si attraversano sobborghi residenziali curati, trionfo di in un benessere stucchevole, e gli oggi desolati e desolanti relitti post industriali del florido capitalismo statunitense del secolo passato. La stazione di Paterson, che ha le dimensioni di una pompa di benzina e si nasconde tra le montagne del Great Falls National Park, è circondata dai fossili della storia industriale della città; i dinosauri della seta e dell’industria elettrica portata dall’avveniristico progetto di Alexander Hamilton che con la sua statua presenzia le cascate, ode poetica di Williams e teatro del racconto cinematografico di Jim Jarmush.

Giunta a Paterson per amore e nostalgia (non solo del radicalismo di chi mi ha preceduta nella migrazione) arrivo al Visitor Centre delle cascate e alla giovane ranger che presidia la flora letteraria della piccola libreria chiedo se conosce opera che sia stata scritta sulla comunità italiana di Paterson e gli scioperi del 1913. Sono giorni qui in America in cui si discute furiosamente di cosa fare della memoria delle lotte politiche e dell’identità di questo paese, la domanda mi sembra quindi ingenuamente poco peregrina, eppure da lei raccolgo soltanto smarrimento. Mi dice che sulla storia degli scioperi c’è qualcosa, ma che l’unica comunità sulla quale sia stato fatto un lavoro storiografico accurato, è quella ebraica. Riconoscendo in me una sorpresa delusione, mi consiglia di provare al museo della città, poche centinaia di metri da lì, lungo l’Historic Drive.

Più che un museo quello di Paterson è un reliquiario. In uno stanzone ricavato dai resti mattonati di una vecchia fabbrica è apparecchiata lungo un percorso cronologico tutta la storia della città: l’insediamento indiano, l’arrivo dell’industria elettrica e quella della seta a sfruttarne il bacino idrico, le glorie militari, sportive e ovviamente cinematografiche dei suoi cittadini e persino un’ala dedicata all’auto e alla medicina. Della storia politica dell’industria della seta (ricostruita nelle sale del museo e abbandonata lungo il corso del fiume) non rimane nulla. Tanto meno della comunità anarchica italiana. Non resta indirizzo del luogo in cui la Questione Sociale di Gaetano Bresci era stata pensata e stampata, non c’è targa o cartello a ricordare i fatti degli anni ’20. La città del radicalismo operaio sembra aver sdradicato parte della sua storia dalla memoria. Curiosamente qualcosa di italiano resta, l’attore comico Lou Costello, cuore calabro e attitudine pasticciona, ha un parco a lui dedicato.

All’uscita del museo scopro curiosando e chiacchierando con il custode che a Haledon, pochi chilometri da Paterson in una vecchia casa appartenuta ad una coppia di italiani — Piero e Maria Botto entrambi operai dei setifici — e da loro donata alla comunità, è stato organizzato il Museum of Labor americano dov’è raccolta la storia degli scioperi di Paterson e della comunità che vi aderì. Haledon è però un puntino nei vasti interni dello stato del New Jersey — un po’ come quel cassetto nascosto in fondo all’armadio dove sono custoditi i fantasmi dei ricordi che non si vogliono né cancellare completamente, né rivivere — e sicuramente distante dal centro industriale della città.

Tornata a New York per riordinare i pensieri e gli appunti, scambio qualche mail con il Botto Museum nella speranza che qualcosa di quella comunità sia rimasto custodito chissà dove. Come ha ricostruito Salvatore Salerno in Paterson’s Italian Anarchist Silk Workers and the Politics of Race, che problematizza l’amnesia anarchica di Paterson, ad oggi non esiste documentazione ufficiale di quanto avvenuto negli anni 20. Qualcosa rimane nelle memorie familiari, nelle storie orali della città, ma sono sempre meno e i loro ricordi sempre più opachi.

Oggi 23 Agosto 2017, sono 90 anni dalla crudele esecuzione di Sacco e Vanzetti. Lontano dal NJ e più vicino all’Oceano che guarda all’Europa, Boston si prepara orgogliosa a ricordare, come ogni anno, gli anarchici italiani. La memoria è un ingranaggio difettoso, saturo di frammenti vulnerabili al potere, selezionati più o meno maldestramente e spesso più utili a dimenticare che ricordare.

Paterson, NJ (oggi)

[no anarchist memory, no ohio blue tip matches here]

Dream of Calatravication

alfredo sprovieri
alfredo sprovieri
Luglio20/ 2017

Una pinseria romana è sorta ai piedi della gigantesca arpa che renderà il quartiere bello e moderno come quello di una grande città europea. Siamo nella periferia di Cosenza, l’imponente forma dello strumento musicale non è che un moderno ponte strallato, identico o quasi a quello di diverse metropoli mondiali: dopo 15 anni di attese è entrato nelle fasi finali di cantierizzazione e per la provincia dell’impero si prepara una grande festa, ovviamente a carico dei contribuenti. Ancora è tutto un cantiere, ma per capire come sarà il ponte una volta finito basta guardare l’insegna del ristorantino, che addirittura si chiama Santiago, come il famoso architetto spagnolo che ha progettato l’opera. Dall’altro lato ci sono case diroccate, con i numeri civici scritti in vernice non lavabile o con i gessetti colorati. In mezzo invece corrono strade strette, piante in vendita, lo scheletro preistorico di un enorme planetario e uno zampillo che perde acqua.

Un tempo qui, in mezzo al nulla, c’erano i zingari (da queste parti pronunciato con la zeta aspra): una delle comunità rom stanziali più longeve del Paese, interessate nei decenni da diverse operazioni di sgombero, più o meno coatto. Domani, all’ombra di un’antenna record da 100 o pochi metri in meno di altezza, ci vivranno notabili, fra parchi acquatici e altri ornamenti già renderizzati e disponibili a (costosissime) varianti. La zona si chiama Gergeri, chi fa politica da tutte e due i lati del fiume ha deciso di comprarci terreni e nei piani approvati da un Comune che galoppa verso il dissesto c’è scritto che è sotto riqualificazione.

Chi entra nella città che fu dei bruzi dall’area industrial-commerciale di Zumpano (sempre aspra la zeta), deve costeggiare il fiume e passare da qui, poi alla confluenza trova un altro ponte, stavolta antico, e scegliere: a sinistra la città vecchia, a destra quella nuova. Siamo qui a piedi perché questo capoluogo di provincia calabrese, in ritardo e in anticipo al tempo stesso, offre una sineddoche particolarmente interessante, esempio vivo di processi che nelle grandi metropoli sono ormai consumati e studiati da tempo. Stiamo parlando della gentrificazione, in wikipediese quell’insieme di meccanismi che trasformano un quartiere popolare in zona abitativa di pregio. Il termine dipende dall’inglese gentry, la parola che i sudditi d’oltre manica usano per indicare la piccola borghesia, e questo perché in soldoni si tratta del processo che in un determinato posto sostituisce gli abitanti poveri con quelli ricchi. Nessuna scena di deportazioni, badate bene: tutto di solito si verifica in modo lento, sfruttando l’innalzamento dei valori degli immobili e quindi il prezzo degli affitti. Un fenomeno planetario, che riguarda le periferie e soprattutto i centri storici (non a caso definiti borghi nelle leggi di salvaguardia e nei convegni con la erre moscia) e che sta riuscendo a imporre un sistema che rischia di svendere la storia in cambio di una stereotipata movidanità da cartolina. Una storiella che ovunque finisce male, con anonimi fondi di investimento che incassano a palate, mentre poveri e precari diventano pendolari e i benestanti si ritrovano in prigioni dorate a cercare di prender sonno sopra chiassosi localini, dove si consumano prodotti che potresti trovare ovunque: merci studiate e inventate dal marketing e distribuite in franchising, proprio come la pinsa.

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Di questo tema all’apparenza potiomchiesco, invero, da queste parti si parla ancora poco e niente, mentre ormai da anni se ne occupano i più grandi giornali del mondo, come l’inglese The Guardian, che in “cities – una sezione di giornalismo partecipato finanziato dalla Rockefeller foundation – raccoglie le storie provenienti dai reporter, dagli studiosi e dai lettori in tutte le città del mondo su questo tema. Gli articoli sono tutti molto interessanti; in uno per esempio Rowan Moore si occupa (qui) senza sconti della riqualificazione della penisola di Greenwich a Londra affidata all’archistar Santiago Calatrava, proprio l’idolo dei pinsaioli di Calabria. Per spiegare gli inghippi che più avanti argomenterà, in attacco del pezzo il giornalista usa il colpo letterario, ricordando come nel romanzo orwelliano del best seller mondiale Dave Eggers intitolato “Il cerchio”, la sede del (fantasioso ma non troppo) grande fratello del terrore nato dalla fusione fra Apple e Google è dominata proprio da una bianca fontana dell’architetto valenciano, come simbolo di un potere che comunica algida e benigna grandezza mentre in nome del decoro urbano riduce lo spazio dei diritti civili.

Ma tutto questo potete leggerlo da soli, qui continuiamo a camminare e decidiamo di andare a sinistra, inerpicandoci con la strada verso la città vecchia: una meraviglia incastonata di gioielli architettonici dichiarati patrimonio dell’umanità. Un tesoro che per l’incuria privata e pubblica di decenni sta cadendo a pezzi sulla testa degli abitanti. Prima di addentrarci nei suoi meandri, va detto a chi non c’è mai stato che, diversamente da altre città, il centro storico qui non è più da tempo il vero centro della città; ci troviamo infatti nella porta Est e ancora una volta non è l’opera del caso: sempre il benedetto Guardian ci spiega con un interessante report chiamato “Blowing in the wind” (qui) perché in Occidente il proletariato ha finito per ghettizzarsi nelle zone orientali delle città post industriali. Questioni di venti, che valgono anche per quelli cosentini, mici e poco industriali. Qui nel buio dei vicoli che abbracciano il corso frequentato un tempo dal giurista Stefano Rodotà e dedicato ancora al filosofo Bernardino Telesio, sopravvive una città di cui si parla poco: i bambini rom sgomberati lungo il fiume sono finiti qui; nascosti al resto della città non vanno più a scuola e fra Santa Lucia e la Garrubba bombardate dall’incuria bivaccano sperando di cavarsela. Pochi avamposti di un tempo andato riescono a resistere, negozi dove si può comprare di tutto e poi pagare a fine mese, dove si trova tradizione, prodotti irripetibili altrove. Non c’è un’area attrezzata per giocare, non c’è alito per l’aggregazione, come se la sfera pubblica sia stata bandita o ceduta dallo stato ad altri imprecisati attori sociali.

Su Mmasciata.it ci siamo occupati in diverse occasioni delle polveri di questi antichi palazzi, per ultimo con un mini doc firmato da Camillo Giuliani e Gianluca Palma; sintetizzandolo, possiamo dire che mentre il Comune procede d’imperio con ordinanze di sgomberi e demolizioni controllate degli edifici in pericolo, il Comitato di Piazza Piccola percorre soluzioni diverse, con una mappatura degli stabili a rischio e la richiesta al Comune di immediati interventi di messa in sicurezza intimati ai privati negligenti, pena la possibile espropriazione e recupero degli immobili di loro proprietà, da salvare a vantaggio di tutti perché contenenti testimonianze storiche di grande prestigio. Per ottenere l’attenzione del resto della città su queste battaglie, i membri del comitato cittadino hanno pensato insieme ai ragazzi del collettivo del Filo di Sophia a una formula che si chiama Restart Cosenza Vecchia, che consiste nel mettere in rete una serie di aggregatori e attrattori culturali che si sta dimostrando in grado di portare centinaia di persone a riscoprire pratiche di cittadinanza attiva nei luoghi dei crolli.

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Si tratta di una dinamica di riappropriazione molto interessante e da incoraggiare: ancora il quotidiano britannico per cui abbiamo finito gli aggettivi, in un articolo partecipato curato da Francesca Perry dal titolo “Stiamo costruendo la nostra strada per l’inferno: storie di gentrification in tutto il mondo” (leggilo qui), spiega in che modo da Città del Messico a Berlino iniziative nate dal basso tentano di resistere chiedendo politiche che permettano agli spazzini, agli studenti, ai camerieri, ai cuochi e alle infermiere di rimanere ad abitare le città che tengono vive con il loro lavoro. Dalla Spagna arriva anche questo reportage sull’attacco turistico al centro storico di Pamplona, segnalato dal sempre attento Ettore De Franco. Tutte testimonianze che parlano di soluzioni sociali, tipo promuovere spazi culturali innovativi e iniziative a basso costo per lo sviluppo di diritti sociali e civili degli abitanti (facciamo tre esempi: casa, scuola, cinema, piccoli ambulatori), cercando tutti di combattere il cosiddetto effetto Airbnb, l’innalzamento vertiginoso degli affitti con il turismo cavalletta secondo il modello mordi fuggi e distruggi.

E qui le regole giornalistiche ci impongono di chiudere il già lungo ragionamento con una domanda: è forse proprio rivedendo l’idea di turismo di massa che si salvano le nostre città? Siamo terrorizzati dai numeri delle migrazioni (quest’anno si è raggiunta la cifra di 64 milioni di persone in viaggio per necessità), mentre sottotraccia passa il fatto che per l’invenzione molto più moderna del turismo, nato appunto con la borghesia, il mondo nel 2030 raggiungerà la quota di due miliardi di persone l’anno che si spostano per diletto. Intendiamoci, viaggiare e conoscere liberamente è e deve restare il sale della civiltà: ma a quali condizioni, secondo quale modello questi numeri di turismo saranno sostenibili dai nostri ecosistemi? In questi giorni abbiamo visto diverse Regioni italiane che vivono storicamente di turismo chiedere lo stato di emergenza e calamità naturale per l’aggravarsi della crisi idrica, causata – si legge in modo inedito nelle carte presentate al governo – “dalla siccità e dal vertiginoso aumento degli afflussi turistici negli ultimi anni”. Insomma: di che tipo di progresso stiamo parlando se quando fa caldo non c’è acqua per tutti e quando piove ci casca tutto addosso? Parlando di alluvioni e frane sempre più frequenti, infatti, il noto geologo Mario Tozzi su La Stampa (qui) ci spiega che anche in questo caso pesa il fatto che “in nome del turismo abbiamo tradito la natura”, sostituendo per esempio nelle Cinque Terre i millenari usi agricoli di controllo e difesa dell’idrogeologia con quelli moderni di speculazione edilizia a fini vacanzieri.

Insomma: di turismo l’Italia può vivere ma anche morire, e se è vero come dicono gli scienziati che questa sarà l’ultima generazione in grado di cambiare l’abitabilità del globo prima che i cambiamenti climatici diventino irrimediabili, dei quartieri storici italiani dovrebbero cominciare ad occuparcene tutti, e non solo chi vuole solo metterli in vendita.

_______fine_______

aggiornamento Dic 2017| Dopo la faraonica inaugurazione del ponte, i media locali e nazionali hanno rivelato che: a) l’opera è stata finanziata in parte con i fondi Gescal originariamente destinati dell’edilizia popolare; b) i cittadini espropriati di casa e terreni per costruirla non sono mai stati pagati; c) in un cantiere collegato ai lavori è morto un operaio.

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aggiornamento Dic 2018 | La prestigiosa rivista Forbes annuncia che Airbnb ha stilato la classifica delle 19 mete che esploderanno nel prossimo anno: c’è pure la Calabria con la città di Cosenza

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immagine di copertina del fotografo Diego Mazzei

alfredo sprovieri
alfredo sprovieri
Luglio03/ 2017

In principio fu Monsù Travet. Quattro aprile 1863, teatro Alfieri di Torino. Vittorio Bersezio porta in scena una commedia in dialetto piemontese sulle amare sfortune quotidiane di un servitore del re e realizza un successo incredibile, che scava nell’immaginario collettivo portando a galla la crisi della società burocratica postunitaria. Un’eredità lungamente dimenticata, che viene raccolta solo nel 1971 dal libro “Fantozzi” di tal Paolo Villaggio, pubblicato nel 1971 per i tipi di Rizzoli e diventato in pochi mesi un best seller internazionale da un milione di copie. Quattro anni dopo venne l’omonimo film, primo di una serie di dieci pellicole fatta di tremendi sorteggioni imposti da direttori megalattici e megaconti a dipendenti merdacce destinati a crocefissioni in sala mensa e improbabili imprese sportive borghesi. Un ritratto eccezionale della società italiana perché dinamico, che vive nell’incontro scontro di due mondi che finiscono per riconoscersi nelle loro meschinità e riappacificarsi nell’incapacità di coniugare i verbi al congiuntivo.

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Cosa si può dire che già non si sa sulla grande opera dell’artista genovese scomparso oggi all’età di 85 anni? Forse due cose: il personaggio del ragioner Ugo Fantozzi si ispira a una persona reale, tale impiegato Bianchi della Cosider di Genova, industria metallurgica dove Villaggio ha lavorato prima di viaggiare per mari a bordo della Costa Crociere con l’amico di una vita Fabrizio de Andrè e di abitare a Londra, dove divenne uno speaker della Bbc. Una seconda cosa importante che spesso si dimentica è che il successo di Fantozzi, prima che ancora letterario e cinematografico, è un successo giornalistico. Il primo libro infatti rielaborò e raccolse i racconti “La domenica di Fantozzi” usciti su L’Europeo a firma del raffinato comico che il piccolo schermo stava imparando ad amare nei panni del prestigiatore dottor Kranz e del tragicomico Giandomenico Fracchia. Non sono le uniche esperienze esperienze giornalistiche di Villaggio, che al cinema ha portato anche la misera vita di un cronista da strapazzo che vince la lotteria di Capodanno ma perde il biglietto; oltre alla già citata e decisiva collaborazione con L’Europeo, da ricordare è l’esperienza come editorialista con Paese Sera di Giorgio Cingoli negli anni Sessanta, dove tiene per anni la spassosa rubrica di  “Lettere al direttore” che iniziavano sempre: Caro dirett. Gran lup mannarTest. de. caz. e Gran figl. mignot. e così via. Poi un periodo meno prolifico e significativo del precedente, con l’esperienza da editorialista con L’Unità diretta da Walter Veltroni, per L’Indipendente firmato da Giordano Bruno Guerri e infine di nuovo con L’Unità, dove nel 2009 svolge il ruolo di editorialista nelle vesti di un Fantozzi di propensione leghista.

In Italia il clown quando muore diventa grande”, disse Villaggio in tv alla tribuna politica che lo vedeva protagonista nel 1987. Accanto a mille allori artistici non disdegnò infatti l’impegno politico: candidato da capolista con Democrazia Proletaria spiegava agli elettori perché ritenesse importante lottare al fianco delle minoranze e contro le discriminazioni di cui il paese governato dalla Dc era intriso da una postazione diversa da quella ormai di potere rappresentata dal Pci, partito comunista per il quale aveva sempre votato. Nel 1994 è stato candidato con la Lista Marco Pannella nel collegio uninominale di Genova – San Fruttuoso e nell’ultima fase della sua vita ha annunciato il suo voto a favore del Movimento 5 Stelle del suo amico Beppe Grillo.

Per tornare all’ambito artistico, più delle innumerevoli e comunque significative e intense opere drammatiche di Villaggio, ci fu un progetto strano e visionario che rischiò di far impallidire la fama del suo Fantozzi. Si chiamava Mastorna detto Fernet, un personaggio cardine del film che Federico Fellini sognò di fare per gran parte della sua vita senza purtroppo riuscirvi. Il protagonista sarebbe dovuto essere proprio Paolo Villaggio, ma il film non riuscì mai a concretizzarsi anche per motivi scaramantici e arrivò al pubblico come fumetto disegnato da Milo Manara; inizialmente previsto in tre puntate, quando un errore di stampa fece comparire la scritta “Fine” al posto di “Continua” il regista si decise di non proseguire con un progetto che un amico mago gli predisse come maledetto.

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Resta così Fantozzi l’opera iconica di Paolo Villaggio, un successo duraturo lanciato da una grande stagione di giornalismo, cinema e letteratura italiani, un’opera ammirata dai critici alla Corazzata Potemkin quanto adorata dalle masse sfruttate, oggi forse ancora più in grado di identificare e allo stesso tempo esorcizzare nelle frittatone di cipolle del ragioniere la resistenza precaria e disperata degli inferiori italiani, sempre nello stesso sottoscala della società dai tempi del Travet a quelli di Fantozzi e oltre.

 

Fantozzi, il rutto libero dell’ultimo italiano

Francesco Veltri
Francesco Veltri
Luglio03/ 2017

Nella famiglia dell’Inespresso, un posto di primo piano lo occupa proprio lui, Ugo Fantozzi. Uno sportivo nato, nonostante un fisico non proprio atletico e una propensione per le sventure fuori dal comune. Ma è stato proprio questo ascendente a rendere il ragioniere più famoso d’Italia un simbolo e un punto di riferimento per tantissimi italiani medi di ieri e di oggi che grazie alla pratica amatoriale di attività come il calcio, il tennis, il ciclismo, lo sci e l’atletica leggera, si sono sentiti, per almeno un giorno nella vita, dei campioni, o qualcosa che gli somigliasse.

Fantozzi ha giocato a calcio, insieme ai suoi colleghi d’ufficio, in una drammatica domenica pomeriggio. Una partita diretta da un arbitro impassibile, severo e mezzo cieco come Renzo Filini. Una partita giocata in un pantano diventato ben presto una vera e propria piscina per via di quel nuvolone da impiegato che sta sempre in agguato anche per quattordici mesi di fila.

“E quando vede che il suo uomo è in ferie o in vacanza, gli piomba sulla testa scaricandogli addosso tonnellate di pioggia fitta e gelata”.

Fantozzi ha giocato a tennis, sempre con Filini, in una epocale sfida all’ultimo sangue. La più rigida domenica dell’anno, “dalle sei alle sette antelucane. Tutte le altre ore, man mano che si avvicinava il mezzogiorno, erano occupate da giocatori di casta sempre più elevata: direttori clamorosi, ereditieri, cardinali e figli di tutti questi potenti“. Oltre alle temperature polari e all’abbigliamento paradossale dei due contendenti, di quella sfida disputata tra una nebbia fitta e avvolgente, rimane indimenticabile il dialogo a distanza prima della battuta di inizio match.

fantozzi e filini

Filini: “Allora, ragioniere, che fa? Batti?”

Fantozzi: “Ma… mi dà del tu?”

Filini: “No, no! Dicevo: batti lei?”

Fantozzi: “Ah, congiuntivo!

Filini: Sì!”.

Fantozzi è stato un ciclista d’altri tempi, nella drammatica Prima Coppa Cobram. Una corsa che vedrà proprio lui vincitore inatteso grazie all’utilizzo di una sostanza dopante acquistata da uno spettatore. Una volata indimenticabile conclusasi con Fantozzi che taglia il traguardo tra gli applausi del pubblico, di sua moglie Pina e di sua figlia Mariangela prima di finire dentro un carro funebre. Fantozzi è stato un atleta e uno staffettista poderoso nel corso dei giochi olimpici aziendali. Un evento privo di premi per i primi classificati, ma con la minaccia di trasferimento nella miniera di Sassu Strittu, in provincia di Carbonia, dove gli impiegati vengono usati come muli da soma, in caso di sconfitta. L’Ufficio sinistri non vincerà una gara, fino all’ultima staffetta quando grazie a un espediente, Fantozzi taglierà il traguardo con in mano un candelotto di dinamite usato come testimone. Il ragioniere giungerà primo, ma poi salterà in aria.

Ma Fantozzi è stato soprattutto uno sportivo non praticante. Quel suo “Scusi, chi ha fatto palo” durante un’Inghilterra-Italia valevole per le qualificazioni alla Coppa del Mondo, rappresenta in pieno un Paese che vive di calcio e che oltre il calcio non riesce proprio ad andare. Per quella serata, Fantozzi, prepara un programma formidabile: calze, mutande, vestaglione di flanella, tavolinetto di fronte al televisore, frittatona di cipolle per la quale andava pazzo, familiare di Peroni gelata, tifo indiavolato, rutto libero. Il tutto, però, viene vanificato da una telefonata improvvisa del capo che lo obbliga a lasciare la partita per il cineforum aziendale. Il resto, si conosce a memoria, con quei 92 minuti di applausi dei colleghi sfiniti dall’ennesima proiezione della “Corazzata Potëmkin” che elevano inaspettatamente, come mai fino a quel momento, l’ultimo uomo fra gli ultimi. Il più grande ultimo italiano. Paolo Villaggio è stato tante cose, comico, attore impegnato, maschera, scrittore eccellente. Forse, però, la sua più grande capacità è stata proprio quella di interpretare, meglio di chiunque altro, attraverso quella invadente e al tempo stesso rassicurante nuvola da impiegato, la vita di chi non ha mai avuto l’opportunità di esprimere i propri sogni. Sogni mostruosamente proibiti.

alfredo sprovieri
alfredo sprovieri
Giugno12/ 2017

Suburra

Questa è una storia fatta di tutte quelle cose che la fama le precede. Annotano infatti i Ros in uno dei rapporti allegati agli atti del processo Mafia Capitale: “…il salto di qualità dell’organizzazione è reso possibile solo in ragione della notorietà criminale del Carminati e del gruppo che lo stesso comanda”. Alludono a tutte quelle questioni che stanno emergendo sui media e nelle aule di tribunale, ma non solo. Bisogna capire che il 416 bis (associazione di tipo mafiosa) questa storia rischia di non riuscire a contenerla e che applicare a questa roba lo sguardo del passato non serve. Il passaparola tutto romano dov’è impossibile distinguere verità e finzione è arrivato al punto tale che al Cecato basta un gesto della mano in mezzo alla strada, come quello con cui indica minaccioso Michelino Senese. Chi è Senese? Anche se la giustizia l’ha assolto dall’accusa mafiosa, è ritenuto il delfino del capo camorra Carmine Alfieri e il leader carismatico della batteria di Ponte Milvio, quella che prima dei colpi era solita dirsi la battuta che ha fatto la fortuna delle serie televisive: “Pijamose tutta Roma“. Sono due capi assoluti, insomma, che hanno condiviso quattro anni di carcere per i fatti della Banda della Magliana e, secondo Antonio Mancini, anche lui uno dei capi storici del sodalizio romano, le gambe larghe di Carminati, il dito puntato e l’altra mano posta sul fianco “come se c’avesse a fondina” sono una prova di forza indiscutibile dell’uno in confronto all’altro.

review – Episodio 1 | Eravamo quattro amici al Nar

roma sagoma

Mancini nel documentario “L’uomo Nero” trasmesso in prima serata da La7 ha dichiarato: “Sto cinematografando la scena, ma perché è la scena che è cinematrografica, non perché la sto cinematogrando io“. Del resto di cinema se ne intende, non ha simpatie fasciste come gli altri sodali, anzi è piuttosto di sinistra e adora i film di Pier Paolo Pasolini: per questo lo hanno sempre chiamato “Accattone“, come il titolo di uno dei più bei film dell’indimenticato artista. Per i feticisti della fiction, l’alias da cercare per individuarlo in “Romanzo Criminale” è “Ricotta“. Nel libro intervista con la giornalista Federica Sciarelli intitolato “Con il Sangue agli occhi” ha raccontato che nelle rapine era solito gridare “Bumaye” per spaventare gli ostaggi. Si tratta della parola che il pubblico gridava a Muhammad Alì nell’incontro con Foreman, e significa “Uccidilo”.

Sul viale alberato di Corso Francia è tutto un cinema, insomma.

Capitolo 3

ER VENTICELLO.

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– “Lo sai chi so’ quelli, vè? Quelli comannano Roma, prega Dio de non avecce mai a che fa ‘co quelli”.

Tutta Roma Nord sa, e quando esplode il bubbone mediatico su Mafia Capitale e sembra cadere quel decennale velo di impunità, davanti ai carabinieri in stazioni come quella di Ponte Milvio iniziano a sfilare raccontando il sistema di vessazioni e minacce di personaggi che per decenni l’hanno fatta da padrone nei locali più in vista accanto ai personaggi più famosi. Un passaparola così efficace che per gran parte delle situazioni da dirimere neanche serve passare alla vie di fatto. Una reputazione di strada che però non si affida più esclusivamente ar venticello, ma che cresce anche grazie al boom dei media sociali. Sono infatti diversi i gruppi che forgiano con Facebook le nuove manovalanze giovanili alla cultura del rispetto verso una storia criminale, diffondendo anche “messaggi, proclami e iniziative volte ad incitare alla discriminazione e alla violenza per motivi razziali“. A scriverlo sono di nuovo gli inquirenti in una inchiesta che riguarda i cosiddetti “banglatour”, spedizioni punitive contro i negozi gestiti da cittadini che vengono dal Bangladesh, una delle nazioni più povere del pianeta.

– “Stasera se lo famo un bengalino”?

Il messaggio gira sulla chat di gruppo, poi si discute e ci si organizza. La risposta finale è affidata ad un commento su Facebook, una vera e propria adunata:

– “Camerata della destra romana: azione“.

Secondo la Procura capitolina sono almeno 50 i bengalesi aggrediti solo nel biennio che va dal novembre 2012 allo novembre 2013. Beccati alle fermate del bus o sulle panchine di un parco e poi massacrati di botte. Vittime perfette perché ritenuti particolarmente mansueti, come se fossero bestie; la stragrande maggioranza di loro infatti non ha mai sporto denuncia alle forze di polizia per timore di dover poi tornare nel proprio paese. Azioni portate avanti da giovanissimi, adescati spesso con la propaganda sui social media, grazie a pagine e profili che propagano la sottocultura di una destra di strada ampiamente tollerata, laddove non protetta. Per indagarla bisogna uscire dall’aula bunker di Rebibbia e mescolarsi nella vita di ogni giorno.

 

Capitolo 4

FACEBOOK.

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Roma Nord: leggins e pischelle. Recita una scritta sul muro firmata con la svastica. Giorgio è l’unica parola di fantasia che segue. Un ragazzo in forze ma non in forse, pieno di certezze sotto il cranio rasato. Nato e cresciuto a Roma, in periferia ma nemmeno troppo, ha origini calabresi come chi gli scrive in chat e la cosa aiuta a rompere il ghiaccio: se gli chiedi perché non gli rode che più di qualcuno a Roma sia ancora razzista verso i meridionali, se non gli diano fastidio le scritte nel quartiere che chiedono “più case e meno calabresi”, ti risponde:

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– “Se c’è qualcuno che non se comporta bene deve annassene. L’integrazione se suda, lavorando e rispettando le regole”.

Uno a zero per lui. Il padre lavora nelle forze dell’ordine, è da quando era giovane che è a Roma e ormai con il figlio, l’altro fratello e la moglie non tornano più nel paese d’origine, l’unica nonna rimasta se la sono portata nel quarticciolo. Giorgio invece ancora un lavoro vero e proprio non ce l’ha. Ha consegnato pizze nel quartiere e lavorato in un negozio, poi ha subito un furto e anche se non ha prove si è convinto che ad azzerare i suoi risparmi siano stati quelli del campo rom. Da allora sta sempre su “Radio Bandiera Nera” e condivide e commenta i post delle pagine di Casapound. Nelle cuffiette spesso si spara musica degli “Zeta Zero Alfa”, spiega a pappagallo come si fa ad avere una maglietta come la sua e che indossarla non significa avere “un prodotto commerciale, ma incarnare un messaggio e finanziare un’area politica non conforme”. Incitare alla violenza razziale è una pratica quotidiana, ma non ci si fa molto caso, l’idea ricorrente – il tema mantra – nelle conversazioni è piuttosto la fedeltà ad un gruppo. Il racconto che si ripete più volentieri infatti è quello relativo ad alcuni raid punitivi che per sommi capi sono stati descritti anche nelle informative e sono finiti su qualche sito internet. La prima avviene ai danni di un ragazzo che durante una festa organizzata in una casa violentò una militante di Forza Nuova, la seconda ai danni di un militante di Casapound per rimettere in pari una rissa avvenuta in un locale vicino Ponte Milvio. Il primo venne bendato e fatto inginocchiare in mezzo agli altri, un colpo di pistola gli lesionò il volto e l’udito. Il secondo finì in un gioco al massacro, sei contro uno, perché questa è una storia in cui “gli amici non si toccano”. L’illudersi di appartenere a qualcosa, di far parte di un sistema che difende un insieme di valori viene prima di tutto il resto. Solo in mezzo a questi ragazzi Giorgio ha l’impressione di non essere un fantasma. Sul cortile retro del bar dove stanno ogni giorno ogni tanto qualcuno fa capolino a chiedere se s’è visto Ferruccio Amendola. L’indimenticato doppiatore papà dell’attore Claudio, che nel film “Suburra” interpreta proprio un personaggio ispirato a Carminati, è però passato ad altra vita nel 2009: lo rievocano perché in codice chiedono un Ferro, una pistola con matricola abrasa da comprare al mercato nero. Seduto sul muretto, con i piedi sul tavolino passa le giornate a fumare e bere con gli amici anche Giorgio, e quando un gabbiano si avventa sulle molliche fa valere lo stivale e il vocione gutturale prendendosela con il sindaco Marino. Anche se ormai l’esponente rinnegato dal Partito Democratico si è dimesso da quasi due anni e ha governato per una parentesi fra le giunte Alemanno e Raggi.

 

Capitolo 5

FAKE NEWS.

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La diffusione del messaggio non passa solo dai Social, è veicolato anche da un complesso reticolo di siti di notizie locali forzate se non inventate di sana pianta. Per collaborare con uno di questi portali di informazione devi scrivere alla mail intestata a un politico locale che, secondo le carte processuali di diverse inchieste, vanta parentele pesanti nella destra eversiva capitolina. Alle mail a suo indirizzo risponde firmandosi una donna però, ti spiega cosa fare con i comunicati stampa e come funzionerà il tuo periodo di prova. Per i primi tempi i link in evidenza sul sito sono tutti riferiti alle posizioni del consigliere e dei suoi sodali sulle questioni municipali: raccontano di degrado e disservizi, di immigrati e campi rom, poi scrivono un po’ di tutto. Le password che ti vengono consegnate per caricare i pezzi sono tutte ispirate a intellettuali di destra, e se chiedi come verrà ricompensato il tuo lavoro il discorso viene preso alla larga, dicendo che dopo il primo mese e il caricamento di circa 20 articoli al giorno il direttore ti metterà in condizione di prendere il tesserino da giornalista pubblicista. I collaboratori sono infatti tutti i giovani alle prime se non primissime esperienze, a fare quello che una volta si chiamava lavoro di desk: lavorano da casa e seguono le conferenze stampa senza alcun rimborso spese. Un vortice di collaborazioni che iniziano e finiscono nel giro di poche settimane, un continuo rigenerarsi di cavie destinate al rafforzamento dell’immagine di due tre candidati che, sempre secondo i rapporti delle forze dell’ordine, si dimostrano volenterosi di radicarsi nel territorio romano e di entrare in rapporti di affari con un gruppo che dichiara di avere a disposizione anche pacchetti di 10mila voti.

La (nuova) comunicazione come grimaldello per insistere e resistere alla bufera di arresti, la capacità di usare vecchi e nuovi media che continua a scorrere come in un fiume carsico nel tam tam informatico, che non arriva alle cronache dei grandi giornali o si manifesta nelle strategie mediatiche dei personaggi più in vista. Quando in aula a Rebibbia finisce di deporre Salvatore Buzzi, infatti, Carminati in videoconferenza ritorna a dire tutto con un gesto della mano. Si alza in piedi, sorride e fa il saluto fascista in faccia allo Stato: sa benissimo che il video sarà presto virale e che quindi tutti non avranno occhi che per quello, ignorando il resto del mondo di mezzo.

(2 fine.)

L’irripetibile di Totti

alfredo sprovieri
alfredo sprovieri
Maggio29/ 2017

Per chi non sa cosa si prova ogni spiegazione è inutile, per gli altri nessuna spiegazione è necessaria. Siamo al minuto numero 29 della prima frazione di gioco; la Roma, reduce da 11 anni di delusioni nella San Siro nerazzurra, è già in vantaggio; secondo le vibrate proteste dei nerazzurri messe a verbale dal direttore di gara, Vincenzo Montella ha festeggiato con un aeroplanino di troppo. Ventisei ottobre dell’anno 2005, stadio “G. Meazza” in Milano: un Francesco Totti al trotto segue le consegne dell’allenatore Luciano Spalletti e con loro il tentativo di imbastire la manovra di Juan Sebastian Veron. Il piratesco argentino all’altezza del centrocampo scambia la palla con Ze Maria, poi la cede a Ivan Ramiro Cordoba e si butta nello spazio, sulla fascia destra, per una sovrapposizione che può portarlo verso un rapido scambio con il brasiliano che, intanto, ha di nuovo ricevuto la palla, ma stavolta in verticale. Gli uomini dell’Inter in questo momento sono disposti in perfetta posizione da triangolo e alla Roma manca un raddoppio: la superiorità numerica è a un passo e ci sono i prodromi per un pericoloso assalto alla tre quarti avversaria. Questo accade perché Totti a un certo punto ha arrestato la sua pigra rincorsa e con una specie di saltello ha deciso di abbandonare Veron al suo destino, qualsiasi esso sia. Si è posto a gambe larghe in una mattonella anonima segnata dal taglio dell’erba, un piedistallo all’apparenza inutile che però, non si sa bene per quale legge custodita nella zona franca al confine fra geniale intuizione e colpo di fortuna, diventa proprio quello in cui finisce la palla calciata da Ze Maria e sporcata da un intervento ravvicinato di Christian Chivu.

 

UNO – sulla linea del centrocampo – 

Il folto crinito capitano della Roma allora accoglie la palla nella sua metà campo difensiva e inizia un’impresa che resterà per decenni negli occhi dei presenti. Nel 2004, nella sua prima e poi ospitata televisiva su un canale capitolino (si trattava di “Pressing” condotta da Alberto Mandolesi), Totti disse che quella è la situazione di gioco che predilige, quella in cui puoi guardare in faccia l’avversario e puntarlo nella speranza di vederlo giacere al tappeto. Veron e Cordoba, come i ciclisti piegati sulle gambe nel momento migliore dello scatto in salita, sono rimasti indietro e non recupereranno in discesa. Sulla linea del centrocampo tocca quindi a Esteban Cambiasso ricucire lo strappo e lasciare il cerchio in un rapido scivolamento di posizione verso la fascia. Totti lo vede e rallenta un attimo, valuta i metri di vantaggio e al momento giusto sposta la palla sulla sua sinistra, in modo che l’estirada del piccoletto che arriva da destra possa toccare ma non sottrarre la palla dalla sua disponibilità. A certi livelli pochi rimpalli sono davvero casuali, tanto che la palla, sporcata dall’ex Real Madrid, si sposta ancora verso destra e sembra poter essere di nuovo preda del rientro di Ze Maria, ma quando anche lui prova l’entrata da tergo per ricacciare la palla verso la difesa, Totti mette il piede davanti e rende tutto vano. Ha ancora il controllo assoluto, ha già lasciato due avversari a terra e ad attenderlo c’è Marco Materazzi. Il centrale nerazzurro finirà stordito da una serie di cose, prima di tutte la sbagliata posizione iniziale del corpo, errore che cerca di recuperare con una piroetta su se stesso non appena il 10 avversario inizia a spostare la palla verso destra, verso lo specchio di porta.

DUE – gioco di squadra – 

Al limite dell’area di rigore si palesa l’emsemble che solleva l’acuto solista: il movimento dell’attacco della Roma è come un’imboscata di arcieri merovingi, che veloci e precisi si fiondano nella parte opposta a quella del loro condottiero per confondere il nemico e aprire una breccia. Amantino Mancini passa così deciso e potente alle sue spalle che l’arcigno difensore è tradito da un riflesso incondizionato nella sua direzione. L’incertezza letale, che apre il sipario al capolavoro di Totti, che a passi ormai ravvicinati marcia allineando il proprio corpo alla direttrice che punta al centro del bersaglio. Francesco alza velocemente il capo e quando lo china a guardare il pallone carica il destro come a sparare forte, per poi invece arrotare con dolcezza la pelle della sfera, che oltrepassa il difensore in scivolata e il portiere in accenno di uscita per addormentarsi in rete, dall’alto verso il basso. Un istante sublime, accolto dopo qualche momento di rabbia e stupore anche dall’applauso di Roberto Mancini e del pubblico di fede interista, lo stesso, quest’ultimo che aveva riempito di insulti e fischi il romano durante il riscaldamento preparatorio. Non è il primo cucchiaio di Totti e non sarà l’ultimo, ma in questo c’è stato qualcosa oltre il rito. Una serie di elementi lo pongono fuori dal marchio di fabbrica, rendendolo irripetibile. Riavvolgiamo il nastro: Totti in maglia bianca è lanciato in modo frontale verso la porta, il pallone non è fermo come contro Van Der Sar agli Europei e nemmeno lento o in fermata come contro Peruzzi o Buffon (quella volta di sinistro) all’Olimpico; sospinto dal destro del capitano giallorosso rotola veloce sull’erba compiendo un moto di rotazione orario. Per riuscire nel cucchiaio a quella velocità, con la fatica dei 30 metri compiuti e la forza gravitazionale impressa all’azione, c’è bisogno di invertire il giro della palla con il famoso colpo a scavetto. Tenendo anche conto che il tabellino di “Repubblica” riporta un terreno in mediocri condizioni, è una roba difficilissima da fare e senza alcuna possibilità di precisione. Per questo Totti colpisce quasi in modo impercettibile tre volte la sfera nel portarla verso il centro, alternando il gesto con rapidi movimenti a fintare il passaggio: addomestica la bestia per poterla destinare a una fine di una precisione disarmante.

 

TRE – restringi l’ipotenusa – 

Un minimo rimbalzo, un millimetro più sopra o più sotto, un decimo di secondo prima o dopo, e la palla avrebbe incontrato le gambe del difensore o i guantoni del portiere, che quella sera è Julio Cesar: non proprio uno degli ultimi arrivati, anzi, in quel momento un fenomeno spesso accostato ai migliori del mondo. I commentatori di “Sky Sport”, Caressa e Bergomi, con il rallenty si rendono conto che l’estremo difensore brasiliano non ha nemmeno superato la linea che demarca la cosiddetta area piccola di rigore, non è avanzato più di cinque metri verso il pallone e non è rimasto sorpreso e immobile ad applaudire il gesto come fece nel 97 Ferron con Boksic. Julio Cesar ha allungato tutta la sua stazza in un superbo corpo di reni all’indietro, ma non è servito a nulla. Un portiere arrivato al livello in cui è in quel momento il brasiliano ha ripetuto d’istinto miliardi di volte quello che viene insegnato agli esordienti come rimpicciolimento dell’ipotenusa: ovvero i rapidi passi in avanti dell’estremo difensore, vietati nei calci di rigore, che devono scattare quando il calciatore carica il tiro e che sono direzionati al centro della palla per restringere più possibile il lato più grande del triangolo formato negli altri due lati immaginari dalla distanza che intercorre dallo stesso centro della palla ai due pali della porta. La sua posizione è corretta, irreprensibile: e la giocata del romanista che è perfetta in modo irreale. Nel secondo tempo la partita capitolerà nelle mani di un altro sceneggiatore e il campione giallorosso verrà espulso insieme a Veron per un testa a testa nel recupero, ma questa è un’altra storia. Oggi non ci è dato sapere se e quando nascerà un altro giocatore capace di interpretare in modo così moderno, potente e poetico un’azione come quella. Ciò che sappiamo è che Francesco Totti c’è riuscito.

Dante Prato
Dante Prato
Maggio28/ 2017

anselmo big

A distanza di tre anni da quel tragico 24 maggio 2014 – quando, a seguito di un intervento dei carabinieri di Mirto Crosia morì il ventinovenne Vincenzo Sapia (leggi qui la sua storia) – l’accertamento dei fatti sembra arrivato a un punto apparentemente morto. Per ben due volte il pubblico ministero ha chiesto l’archiviazione dell’inchiesta ma, entrambe le volte, il giudice per le indagini preliminari ne ha rigettato la richiesta. La prima volta ritenendo che «ci fossero troppi aspetti meritevoli di ulteriore approfondimento» soprattutto riguardo il comportamento dei militari e la seconda volta, il 31 marzo 2016, richiedendo «ulteriori consulenze medico-legali, in particolare cardiologiche». Risultati importanti per la difesa, frutto della caparbietà della famiglia e soprattutto della sorella Caterina, ma anche della nota competenza dell’avvocato Fabio Anselmo, che ha fatto di tutto per scongiurare l’archiviazione. Abbiamo chiesto proprio all’esperto legale, già difensore delle famiglie Cucchi, Aldrovandi, Magherini e Bergamini, di spiegarci il suo punto di vista sugli ultimi sviluppi di questa vicenda.

Avvocato, perché a distanza di tre anni dalla morte di Vincenzo Sapia, la vicenda è ancora arenata davanti al Gip del Tribunale di Castrovillari e non si è ancora arrivati ad un processo?

«È vero c’è un ritardo, ma noi attendiamo con ansia che la procura faccia quegli accertamenti medico-legali che mancano, perché penso che il Gip si sia già espresso sulla non correttezza dell’intervento operato dai carabinieri a danno del povero Vincenzo Sapia. Siamo sicuri che questi nuovi accertamenti possano dirimere ogni dubbio sulla morte di Vincenzo, portandoci al processo».

Perché ci sono così tanti aspetti meritevoli di un ulteriore approfondimento? È possibile che le indagini nella prima fase siano state condotte in maniera lacunosa?

«Le indagini secondo me non sono state così lacunose, il fatto è emerso chiaramente ed è suscettibile di essere raccontato in un processo. Ciò che è stato davvero imbarazzante sono le consulenze del medico legale».
Già al primo tentativo di archiviazione avevate presentato una nuova relazione medico-legale che smentiva le conclusioni del consulente tecnico. Questo non è bastato. Servono ulteriori consulenze cardiologiche?

«La nostra relazione ha convinto il giudice a non archiviare. Le dissertazioni medico-legali del consulente della procura sono state giustamente criticate dal giudice sulla falsa riga di quanto da noi dimostrato perché contengono una contraddizione intrinseca. Io credo che la morte di Vincenzo Sapia esiga verità e giustizia».

Già nel 2014 il Comando generale dell’Arma aveva inoltrato a tutte le caserme precise indicazioni sulle linee di intervento in caso di soggetti in evidente stato di alterazione psicofisica. Queste procedure sono state rispettate?

«I carabinieri hanno delle circolari anche precedenti a questa che dicono come ci si deve comportare nel momento in cui ci si trova davanti a una persona che non è in sé per motivi non addebitabili alla sua responsabilità. Vincenzo Sapia era spaventato perché cercava il suo cane. Aveva dei problemi psichiatrici, ma non aveva mai fatto male a nessuno. Le argomentazioni delle difese sono imbarazzanti quando dicono che i militari sono intervenuti perché c’era una scuola e l’ufficio postale lì vicino. Lui non ha mai aggredito nessuno, lui ha soltanto sbattuto i pugni contro una porta. Questo, di fatto, ha determinato l’intervento dei carabinieri che si è tramutato, anziché in un tso con l’intervento dei sanitari, in un arresto insensato e ingiustificato. Non c’era nulla che potesse giustificare un arresto. È emblematico l’atteggiamento di Vincenzo che quando gli vengono chiesti i documenti si spoglia per dire: “guardate io sono questo, non ho niente addosso, non sono armato”. Era una persona che aveva bisogno di aiuto, non una persona sulla quale esercitare la violenza di un arresto. Questo secondo me è assolutamente intollerabile. Vincenzo era conosciuto da tutti i carabinieri che sono intervenuti tranne uno e, in un paesino piccolo come Mirto Crosia, è surreale invocare la legittimità di quell’intervento».

E’ possibile, dunque, che l’immobilizzazione prolungata del giovane Sapia ne abbia provocato la morte?

«Vincenzo è morto per morte asfittica, come sono morti Riccardo Magherini, Federico Aldrovandi e Riccardo Rasman. Bisogna piantarla di trattare come delinquenti le persone che sono in difficoltà psichica e psichiatrica. Il problema è questo: il criminale vero, quando fa resistenza ma si rende conto di essere sopraffatto, si ferma perché ha la consapevolezza di ciò che gli sta capitando e dell’inutilità di ogni suo sforzo. Invece l’invalido psichiatrico che è terrorizzato e ha paura per la sua vita non si ferma mai. Anche quando è sopraffatto dalla forza fisica degli agenti continua a dimenarsi e ad agitarsi in maniera sempre più disperata e questo gli causa un bisogno di ossigeno sempre maggiore che non riesce a soddisfare se è messo in posizione prona o se è preso per il collo. Sono tutte posizioni e situazioni note da decenni».
Secondo Lei, quindi, la morte di Vincenzo si poteva evitare?

«È una morte che si doveva evitare, perché non doveva essere arrestato. Ritenere una persona pericolosa perché è matta significa essere razzisti».

Quali nuovi scenari si aprirebbero se si arrivasse a un processo? Potrebbero esserci testimonianze che aiutino a ricostruire precisamente l’azione dei militari?

«Ci sono già delle deposizioni che poi sono state rettificate in corso d’opera e la genuinità delle rettifiche lascia molto perplessi, ma in ogni caso il corpo di Vincenzo Sapia parla chiaro. Se il giudice ha detto che bisogna stabilire il nesso causale che ha portato alla morte di Sapia mi pare evidente che abbia già espresso un chiaro giudizio sulla condotta dei militari. Confidiamo nel procuratore Facciolla e in una rapida richiesta di incidente probatorio».
In Calabria lavora a un altro caso, molto più noto al grande pubblico; il procuratore ha chiesto l’incidente probatorio e quindi la riesumazione del corpo di Denis per nuove avanzate analisi: dopo 28 lunghi anni di attesa siamo finalmente ad un punto di svolta decisivo nella ricerca della verità sul caso del calciatore Bergamini?

«Si, siamo ad un punto di svolta e questo grazie al procuratore Facciolla che ringraziamo perché ha saputo ascoltarci e ha avuto una grande sensibilità. C’erano e ci sono gli strumenti medico-legali per fare chiarezza al di là di ogni ragionevole dubbio e per dimostrare quello che è successo a Denis Bergamini. Nel momento in cui si dimostrasse, come secondo me è dimostrabile, che era già morto o comunque in fin di vita nel momento in cui è stato sovrastato dal camion è chiaro che la posizione di Isabella Internò e Raffaele Pisano, il conducente del camion, diventa pesantissima».

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In copertina | Fabio Anselmo abbraccia Ilaria Cucchi

Francesca Pignataro
Francesca Pignataro
Maggio14/ 2017

Il Pride di Cosenza è diventato un caso nazionale. Venerdì 12 maggio l’amministrazione comunale rappresentata dal primo cittadino Mario Occhiuto – lo stesso che dallo stesso ruolo firmò il patrocinio al “Calabria Pride” tenutosi per la prima volta in questa regione, a 20 anni di distanza dal primo Pride italiano, sabato 19 luglio 2014 a Reggio Calabria – stavolta, dopo non aver inteso incontrare gli organizzatori, ha deciso di negare il patrocinio gratuito alla manifestazione perché – si legge in una nota ufficiale – in disaccordo con la spettacolarizzazione delle scelte sessuali che tale evento comporterebbe. Mettendo da parte il dibattito di opinioni, spesso tribale, scaturito in questo fine settimana sulla questione, abbiamo ritenuto utile andare a ritroso per verificare i fatti e vedere se davvero di questo si tratta.

Lunedì 8 maggio è stato il primo giorno di una serie di eventi di avvicinamento che porteranno, praticamente in contemporanea con iniziative simili in tutto il mondo, al corteo previsto per il primo luglio. La senatrice Monica Cirinnà, firmataria della legge sulle unioni civili, è stata l’ospite d’onore prima nell’aula Caldora dell’Università della Calabria e poi al palazzo della Provincia. Molte (ma non tutte) le autorità al suo fianco, ma soprattutto tanti cittadini. Dopo una serie infinita di abbracci e selfie, siamo riusciti a incontrarla per porle alcune domande.

Cirinna cosenza

A quasi un anno di distanza dal DDL che porta il suo nome cosa pensa sia cambiato in Italia?

Finalmente due persone che si amano non vengono discriminate solo perché appartenenti ad una coppia di persone dello stesso sesso. Due uomini e due donne esistono come famiglia, come coppia e come amore anche per il nostro Stato.”

Perché l’Italia è stata il penultimo paese europeo ad approvare una legge sulle unioni civili?

Il nostro Paese vive dei conflitti culturali ed ideologici molto forti, ma la legge finalmente è arrivata ed è una legge piena dal punto di vista dei diritti.”

La legge approvata in Parlamento è però monca rispetto alla proposta iniziale.

Manca tutta la parte sul riconoscimento della genitorialità e sul riconoscimento delle famiglie arcobaleno, certo, ma credo che questo Parlamento non abbia i numeri e una composizione sufficientemente laica e libera per affrontare i temi dell’eguaglianza che ancora manca a queste coppie. Sono convinta che con una spinta propulsiva molto forte che viene dalla società per un nuovo Parlamento sarà possibile arrivarci. Ora che la legge c’è ci vuole lavoro culturale, la normalizzazione di queste famiglie e di questi amori che non devono più fare notizia, come non fa notizia il mio matrimonio eterosessuale.”

La seconda attività delle iniziative previste ha preso corpo in un incontro formativo tenuto all’University Club ad Arcavacata di Rende, nel quale lo studioso Cirus Rinaldi, ricercatore a Palermo e autore del manuale “Sesso, sé e società. Per una sociologia della sessualità” (edito da Mondadori) ha discusso con Giovanna Vingelli, esperta di studi di genere e direttrice del Centro Women’s studies “Milly Villa” dell’Unical. Insieme a militanti e pubblico, gli esperti hanno discusso di come si viva tra sessualità, discriminazioni e analisi del sé. Con i tanti presenti si è approfondito, all’infuori di teorie e astrazioni, come le persone vivano il rapporto col proprio corpo e col sesso, cercando di capire quanto influenti siano le pressioni sociali in ambito sessuale.

Sociologia e Sesso - Unical

Superato l’imbarazzo iniziale, interessanti spunti sono arrivati proprio dal pubblico in sala; qui abbiamo raccolto frammenti delle storie che ci hanno voluto testimoniare.

(Uomo, 21 anni)

“Io vivo con naturalezza la mia omosessualità, anche se ho cominciato ad accettarmi solo verso i 16, quando i miei ex compagni di classe mi prendevano in giro perché, secondo loro, ero troppo femminile. Quando ho scoperto la mia passione per l’arte ho cominciato a vivere meglio con me stesso e oggi posso dire di essere fiero di me. Ho iniziato ad avere le mie prime esperienze sessuali solo lo scorso anno, aspettavo qualcosa di importante e penso che vivere la propria sessualità sia un’arte. Credo che non ci sia nulla di peggio che essere repressi, rappresenta una mancanza e fa soffrire. In questo società superficiale la parola omosessuale è usata ancora come insulto, ti fanno sentire sbagliato e non adatto. Oggi l’omofobia è meno peggio che in passato, ma spesso parte da noi ed in questo modo rafforziamo ancora di più tutti quei pregiudizi stupidi e superare le discriminazioni diventa sempre più difficile”.

(Donna, 38 anni)

“Io mi sento di dire che non ha importanza se io sia eterosessuale o meno. Oggi vivo positivamente il rapporto col mio corpo soprattutto grazie agli studi che ho fatto, grazie ai quali ho superato gli stereotipi sull’eteronormatività e sull’essere binari. Gli stereotipi sono ancora cocenti, ma studiando e leggendo possono essere decostruiti. Per me il sesso è fondamentale, ma lo vivo in modo ludico, almeno per quel che mi riguarda non ha un valore identitario”.

(Uomo, 32 anni)

“Non ho mai pensato troppo spesso al rapporto col mio corpo, anzi non so se io lo conosca bene o meno, col tempo però ne ho meno cura. Ho sempre fatto poco caso all’aspetto e alla corporalità. Il sesso per me è fondamentale, ma spesso viene incastrato in altre dimensioni sociali, oggi non è più un elemento di conoscenza tra un uomo e una donna, ma un modo per non sentirsi soli. Il mio rapporto col sesso però è cambiato quando le mie relazioni sono diventate più sporadiche”.

(Donna, 31 anni)

“Ora vivo abbastanza bene il rapporto col mio corpo, da ragazza insicura ho comunque imparato ad accettare i miei difetti. In ambito sessuale non ho alcun tabù, ho una compagna da sei anni, tra di noi c’è una certa intimità e anzi ora stiamo provando anche a sperimentare cose nuove. La società purtroppo mi ha spesso influenzata negativamente e mi sono spesso scontrata con essa, ma oggi posso dire che sono come sono malgrado la società stessa”.

Insomma, in questi primi eventi ci sembra di aver raccolto elementi che fanno parte di un processo di consapevolezza civile, di emancipazione dalle pressioni sociali che, inutile nasconderlo, per molti in molte realtà provinciali continuano a essere soffocanti. In questa prima fase del Pride di Cosenza quindi tutto sembra andare in direzione contraria al vero oggetto del contendere, alla “spettacolarizzazione delle scelte sessuali”, che probabilmente è riferita alla parata del primo luglio. Ma per meglio capire il perché si sia sentita l’esigenza di proporre questa manifestazione in città e per fare un bilancio delle aspettative che ci sono su di esse, abbiamo incontrato una delle persone coinvolte nell’organizzazione di questo evento.

Si chiama Lavinia Durantini ed è la presidente di Eos Arcigay a Cosenza.

Lavinia Durantini

Questo sarà il primo pride della provincia bruzia. È ancora tempo di pride o è un’iniziativa non più in linea con i tempi?

Il gay pride è nato in seguito ai moti di Stonewall, spinti dalla consapevolezza che si era privati di alcuni diritti per via del proprio orientamento sessuale. A differenza di ciò che si pensa, negli anni il pride ha acquisito un valore sempre maggiore, perché maggiore è diventata la consapevolezza che esiste un problema, che ancora non siamo tutti uguali nei diritti e che ancora non tutti possono essere totalmente liberi”.

Ma davvero il pride ha ancora oggi un valore così importante per la comunità LGBT (QIA)?

Ancora oggi all’interno della nostra società sussistono delle discriminazioni e c’è una mancanza di diritti che colpisce i membri della comunità. Il pride rappresenta ancora oggi un’occasione per essere se stessi a 360 gradi, è una marcia dei diritti che rivendica l’orgoglio di non nascondersi, di non aver paura di esprimersi liberamente”.

Secondo il suo punto di vista, perché Cosenza è importante per questo pride e perché questo pride è importante per una città come Cosenza?

Cosenza è importante per questo pride perché l’intera provincia si sta mobilitando per sostenere e supportare questa iniziativa e ogni manifestazione ha bisogno di suscitare l’interesse dell’intera società, altrimenti perde il suo valore reale. Questa marcia è importante per la nostra città perché è il primo pride che si svolgerà a Cosenza e sta tirando fuori un tessuto umano e sociale pronto ad accogliere e a confrontarsi con le diversità, è un’opportunità di apertura tutti”.

Perché avete scelto la forma “P.R.I.D.E.C.S.”, che tipo di evento vuole essere?

“Abbiamo voluto chiamare questo pride utilizzando l’acronimo che richiama Cosenza e non “gay pride” per sottolineare la natura inclusiva di questo evento. Vogliamo che sia un pride libero ed il pride di tutti quelli che vogliono partecipare, non solo un pride di pochi. Vuole essere un pride di tutti, infatti nasce dal basso, dalle proposte e dall’impegno di chi ci ha sostenuti fin dal principio.  Vorrei spendere le ultime due parole per spiegare il significato del nostro acronimo, che non solo richiama l’iniziativa in sé e Cosenza, ma che racchiude in estrema sintesi anche il nostro manifesto politico”.

Prego.

“P vuole ricordare la prevenzione, ciò non significa che tutti gli omosessuali siano malati, ma che è giusto avere rapporti sicuri;

R di rivendicazione, il pride è appunto una marcia d’orgoglio per rivendicare i nostri diritti e le nostre libertà;

I come identità, un’identità che va oltre gli stereotipi e le solite contrapposizioni uomo-donna o eterosessuale-omosessuale, l’identità è più complessa di così;

D di difesa dei diritti che siamo riusciti ad ottenere o di diffusione di un nuovo modo di concepire la realtà;

E per ricordare l’importante svolta dall’educazione per combattere le discriminazioni e costruire una società ed un immaginario differente, più inclusivo;

C sta per comunicazione, che deve essere chiara, deve essere una comunicazione di arrivare a tutti per abbattere quei muri che ancora stanno in piedi;

S di servizi, come quelli che chiediamo alla Regione Calabria e agli enti locali, quei servizi indispensabili per chi subisce discriminazioni e violenze e per chi cerca risposte ai propri bisogni.

Questo non sarà il pride di qualcuno, noi vogliamo che questo sia il pride di tutta la città e di tutti quelli che ci stanno aiutando a dar forma a questo evento per noi tanto importante”.

Carmen Baffi
Carmen Baffi
Maggio02/ 2017

Questo conflitto non finirà“.

La guerra in Siria dura ormai da anni. Aleppo non esiste più. I civili che continuano a perdere la vita durante i bombardamenti sono solo numeri. Uno scenario complesso, fatto di giochi di alleanze tra potenze occidentali, ma anche orientali. Alberto Negri, inviato speciale de Il Sole 24 Ore, questa guerra l’ha vista esplodere, crescere, ed è sicuro nell’affermare che se ne dovrà parlare ancora a lungo. Dopo un viaggio durato oltre trent’anni, ha portato in Italia le sue  scoperte. Le ha trascritte, passo dopo passo, ne “Il musulmano errante“, il suo libro presentato lo scorso 20 aprile al Circolo Romano di Nuoto. Per capire come si è arrivati alla distruzione, bisogna ripercorrere le strade del passato. Quelle di oltre mille anni fa. “Era il 969“, quando in Siria iniziarono a formarsi le sette alawite. Un ramo della religione islamica molto diverso da quello di Sunniti e Sciiti. Gli alawiti credevano nell’esoterismo, nella trasmigrazione delle anime; pregavano fuori dalle moschee, celebrando cerimonie segrete con formule magiche, sia le donne sia gli uomini. Vennero sempre considerati dei miscredenti. Fino all’arrivo dei Francesi, che nel 1921 diedero vita a uno stato alawita. Iniziò la loro ascesa al potere: nel 1971, l’imam Musa Al-Sadr dichiara musulmani gli alawiti siriani e turchi. Crea una costituzione in cui non è necessario dire che a capo vi è un musulmano: “primo shock per i Sunniti siriani“. Nel 1973 scoppia la rivolta. La loro storia è stata occultata volutamente. I testi sacri sono tenuti segreti. A nessuno è permesso leggerli.

 

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Sullo sfondo del libro di Negri c’è la storia di Soleyman Effendi, che si convertì a sei religioni diverse per poi tornare a quella originaria dell’alautismo: “un momento fatale della sua vita; il momento fatale di questo libro, che forse vedrete nei prossimi mesi e nei prossimi anni“, spiega il giornalista.

“Il Medio Orienta ha bisogno di democrazia, ma prima che di democrazia, ha bisogno di giustizia”

Continuando il suo discorso, Negri fa poi riferimento a come vengono trattate e successivamente trasmesse le notizie che riguardano la guerra in Siria e soprattutto i morti civili: “di serie A e di serie B“. Ci sono periodi in cui sulle pagine dei giornali non si legge una sola parola su ciò che accade in Medio Oriente e “quando c’è una calma apparente, significa che succederà qualcosa di grosso”. Non c’è pace in questi luoghi che sembrano così lontani e che in realtà si trovano a soltanto un’ora di aereo dal nostro Paese. L’Italia osserva da lontano. O almeno è quello che vuole raccontare. Così come l’Europa, divisa più che mai in quest’ultimo periodo, proprio come la Siria.

Dante Prato
Dante Prato
Aprile21/ 2017

No Tap cop

«Con questi alberi sono cresciuto. Erano qui da molto prima che io nascessi, non posso permettere che li portino via».

Mario è sulla sessantina, abita a Melendugno e mentre mi parla agita vistosamente le mani. Mani grosse da contadino, che portano indelebili i segni della terra rossa del Salento. «Molte piante hanno già subito un pesante attacco negli ultimi anni, a causa della Xylella – aggiunge scrollando le spalle –, ma la malattia non si poteva fermare. I camion e le ruspe invece sì».

Siamo alle radici della protesta che occuperà le prime pagine dei prossimi mesi; da dove nasce? Per chi non è nato al Meridione non è facile comprendere la sacralità di un albero d’ulivo. Vedere queste piante maestose ingabbiate in un telo bianco o sradicate è un pugno nello stomaco. Basta guardare gli occhi grigi di Mario, incastonati nel viso arso dal sole, per comprendere che la battaglia contro il Trans Adriatic Pipeline è una questione di vitale importanza per i salentini. Ieri, ancora prima che arrivasse l’ufficialità del Tar del Lazio, i giornali diffondevano già la notizia del rigetto del ricorso della Regione Puglia che paventava “un pericolo di danno permanente all’uliveto” denunciando “l’incertezza del quadro autorizzativo sia in relazione allo spostamento dei 211 alberi dal tracciato sia dell’assoggettabilità alla Valutazione di impatto ambientale del progetto del microtunnel” che consentirà l’approdo del gasdotto da mare a terra. Una decisione attesa e prevedibile, alla quale il Movimento No Tap, che da 36 giorni presidia l’area del cantiere, era già preparato. I pochi giorni di tregua a cavallo delle vacanze pasquali sono stati dunque un’occasione per il comitato di organizzarsi per continuare la resistenza. Nei piccoli centri del Leccese, da Melendugno a Vernole, da Calimera a Castrì, le iniziative per le celebrazioni pasquali si sono alternate ad assemblee pubbliche che abbiamo potuto verificare come intense e molto partecipate.

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La sentenza parla chiaro su cosa sta per accadere: i lavori per il trasferimento dei circa 40 alberi che rimangono possono riprendere. “Essendo un’opera strategica per lo Stato”, le competenze in merito alla Valutazione di impatto ambientale ricadono con “competenza esclusiva” sul ministero dell’Ambiente, mentre la Regione Puglia viene indicata solo come ente vigilante.

Il punto allora è capire se si tratta davvero di un’opera così strategica, e strategica per chi. Non certo per gli abitanti del Salento che abbiamo potuto sentire.

«Si sta decidendo un’opera – ci spiega infatti Marco Santoro Verri (Movimento No Tap) – su un’intera popolazione che vorrebbe mantenere il suo sistema di sviluppo basato sull’agricoltura, sulla pesca e sul turismo, ma a cui viene imposto un processo di industrializzazione che non ha precedenti in questa zona».

Non si tratta, però, solo di motivi di natura geografica: nessun giardino pugliese è quello giusto per il gasdotto. Anche la proposta di mediazione sostenuta dal presidente della regione Puglia, Michele Emiliano, di uno spostamento dell’approdo del gasdotto da Melendugno all’area industriale di Brindisi dove comunque il Tap, attraverso ulteriori 55 km di condutture a terra dovrebbe arrivare per allacciarsi alla rete nazionale Snam, non convince. Su questo lo slogan del Movimento è abbastanza chiaro: “Né moi né mai, né qui né altrove”. Il Tap per gli abitanti del Salento è un’opera inutile che rappresenta solo una speculazione finanziaria. Una tesi confermata da molti esperti, ma anche dalle ultime inchieste giornalistiche, tra cui quella de L’Espresso, che si è avvalsa della collaborazione di giornalisti turchi e russi che per motivi di sicurezza devono rimanere anonimi. Gli interessi che ruotano intorno al Tap, finanziato dalla Commissione Europea per un totale di 45 miliardi di dollari, sono enormi e coinvolgerebbero, con strani intrecci societari transnazionali, aziende e manager legati a Vladimir Putin, Recep Tayyip Erdogan e al dittatore dell’Arzebaijan Ilham Aliyev. Meri motivi economici che non riescono a far emergere la loro strategicità, soprattutto se si considera che, secondo i dati diffusi dal ministero dello Sviluppo economico, il consumo di gas in Italia negli ultimi dieci anni ha subito un calo del 20 %.

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«Non possiamo permettere speculazioni a danno del nostro territorio – aggiunge Marco –, stiamo assistendo a una mobilitazione che sta coinvolgendo tutta la popolazione, con le famiglie e gli amministratori locali in prima linea a bloccare pacificamente, con i propri corpi, i camion».  La lotta, infatti, sta coinvolgendo davvero interi paesi perché non riguarda solo pochi ulivi ma l’intera area.

«Il gasdotto – ci spiega Gianluca Maggiore (Comitato No Tap) – arriverà a 850 metri dalla costa della marina di San Foca per poi entrare a terra attraverso un micro tunnel interrato. Questo comporterà l’interdizione alla balneazione della spiaggia di San Basilio e il divieto di pesca e balneazione in questo tratto di mare».  Un’operazione che, da progetto, prevede anche operazioni di dragaggio a mare e la creazione di una scarpata di 200 metri per accogliere il tubo del gasdotto. Interventi tutt’altro che leggeri e che peseranno fortemente sull’ambiente marino, come ci spiega la biologa marina Mila Boso De Nitto: «Il passaggio del microtunnel in mare causerà lo sconvolgimento dell’habitat marino ed una riconfigurazione dello stesso. Ciò potrà comportare 5 anni o più di fermo dall’attività ittica, con danni pesanti alla poseidonia e al coralligeno».

Insomma, la battaglia contro Tap – come conferma ancora Marco Santoro Verri, riportando le intenzioni del Movimento – è destinata a continuare e non si fermerà solo all’area del cantiere: «Gli ulivi sono diventati il simbolo di una lotta che è molto più ampia e che riguarda l’idea di sviluppo che si vuole per questo territorio e che non può essere calata dall’alto, con i soprusi e l’uso della polizia».

mmasciata
mmasciata
Aprile12/ 2017

di Francesca Pignataro

Perché non sconfiggiamo il califfato nero? Partendo da questa domanda, che potrebbe sembrare quasi retorica, ha avuto inizio l’incontro con Corrado Formigli, noto giornalista e conduttore del programma televisivo Piazza Pulita, che ogni giovedì sera va in onda su La7. Formigli, ospite nella terza giornata del Festival internazionale del giornalismo di Perugia, è stato intervistato dalla giornalista Barbara Serra, e assieme hanno ripercorso il contenuto del suo ultimo libro “Il falso nemico. Perché non sconfiggiamo il califfato nero”, pubblicato nel 2016 da Rizzoli.

“Il falso nemico è un nemico che si finge di combattere, ma che non si combatte realmente, sia per ragioni strategiche che geopolitiche.”

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Il falso nemico cui si riferisce Formigli è l’Isis, che inizialmente si scontrò bruscamente solo con i combattenti curdi, mentre le preoccupazioni dell’Occidente erano focalizzate ancora sulla crisi economico-finanziaria del 2007-2008. Secondo l’opinione pubblica però, esiste anche un altro nemico che si muove verso occidente, simboleggiato dai profughi che quotidianamente sbarcano sulle nostre coste. Movimenti xenofobi e populisti identificano in loro la principale causa del malessere economico e sociale che investe sia i paesi europei che americani. Per Formigli si tratta ancora una volta di un falso nemico; dal suo punto di vista infatti sono proprio i profughi a rappresentare una chiave di volta per fronteggiare il problema del terrorismo islamico. Questi uomini e queste donne, assieme ai propri figli e nipoti, sono spesso costretti ad abbandonare i propri Paesi d’origine per fuggire da regimi non democratici, proprio per questa ragione, secondo Formigli, dovrebbero essere inclini a collaborare per la definitiva eliminazione di Isis e per la diffusione di una nuova ondata di democratizzazione, capace di coinvolgere anche i paesi del vicino e Medio Oriente, adattandosi però alle caratteristiche culturali dei singoli territori, senza tentare nuovamente di esportare il modello della democrazia americana.

Da inviato di guerra, che ha sentito l’odore della carne bruciata in seguito ad un attentato e che ha camminato in una poltiglia umana, una delle sofferenze più grandi per Formigli sembra essere rappresentata dal fatto che, come ci confessa nel corso dell’incontro, “anche da morti abbiamo bisogno di avere il passaporto giusto affinché la nostra scomparsa sia un evento rilevante.” Formigli ci racconta che, dall’altro lato, spesso siamo noi occidentali ad essere considerati dei nemici da odiare, almeno finché non proveremo dolore per le sofferenze che affliggono anche altri popoli. Per il giornalista di La7, una delle possibili soluzioni alla radicalizzazione, fenomeno in crescita anche tra i giovani nati in paesi europei, come ad esempio la Francia, è rappresentato dall’inclusione sociale, possibile solo se si è disposti a convivere in un contesto multiculturale senza chiedere agli altri di rinunciare alle proprie tradizioni, nei limiti del diritto, come avviene nel sistema britannico.

 

Carmen Baffi
Carmen Baffi
Aprile10/ 2017

Le scalinate della Sala dei Notari a Perugia sono scomparse. Sparite sotto la densa macchia di popolo che attende in fila di ascoltare la voce di chi da quattordici mesi chiede e cerca la verità sulla morte di suo figlio. Giulio Regeni, ricercatore, 28 anni, torturato e ammazzato al Cairo.  Diversi pezzi di verità stanno venendo a galla, ma chi e soprattutto perché restano negli abissi.

Mamma Paola e papà Claudio entrano in sala, tutti si alzano in piedi. Un lunghissimo applauso. Il famoso telo giallo con la scritta nera “Verità per Giulio Regeni” stretto fra le loro mani. L’applauso non cessa, cresce, rimbomba più forte sulle pareti: tutti vogliono questa verità.

In un regime di dittatura, banalmente, l’atto più eversivo è chiamare le cose col proprio nome: Giulio non è morto, è stato assassinato. Giulio non è scomparso, è stato sequestrato. Il governo egiziano non ha reso complessa la ricerca della verità, l’ha costantemente e ciclicamente deviata. Il ministro degli Interni egiziano ha mentito di fronte alla stampa internazionale, dichiarando che Giulio Regeni era nome ignoto e sconosciuto per il governo. È stato dimostrato che tutto questo è una menzogna”. Carlo Bonini, firma di punta a Repubblica, mette i puntini necessari a sgretolare, pezzo dopo pezzo, il “Muro di sabbia” (questo il titolo del dossier firmato Bonini e Foschini in edicola) costruito per nascondere la verità sui fatti.

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Un omicidio di Stato che per Paola “non si può accettare di chiamarlo caso”. Dopo Giulio sono salite infatti in superficie molte altre storie, tanti altri Giulio scomparsi, uccisi, dimenticati nel silenzio. La memoria corre alla prima telefonata dal Cairo. Paola e Claudio partono subito, non dicono nulla a nessuno. “Quando andammo al Cairo per la prima volta con Giulio, visitammo tutte le cose più belle. Quella volta, tutte quelle cose belle non c’erano più”, racconta dopo di lei papà Regeni. Si attendono notizie. Un’altra telefonata: è Maurizio Massari, l’ambasciatore italiano. “Stiamo arrivando”. Paola mette tutto in ordine, spolvera in tutte le stanze. Ha ancora la speranza che con loro, arrivino buone notizie.  Squilla il telefono, di nuovo Massari. “Ritardiamo dieci minuti, ma non abbiamo buone notizie”. Era già finito tutto. Un’istante per capire che non avrà mai i nipoti da Giulio, cinque minuti prima che inizi il circo mediatico.

Cinque minuti per dire tuo fratello, tuo nipote, il tuo migliore amico, il tuo fidanzato è morto, non è cosa da poco”. Inizia l’inferno. La lunga lotta che anche grazie ai social è diventata la lotta di tantissimi. “Verità e giustizia per Giulio Regeni” non è solo parole scritte nero su giallo. “Se dopo 14 mesi il caso non è stato archiviato è anche merito vostro” ha detto rivolgendosi al pubblico Alessandra Ballerini, avvocato che la famiglia ha ingaggiato proprio per difendersi dai media e con i media. Abbiamo bisogno di sapere chi, ma soprattutto perché – ha detto la Ballerini – lo dobbiamo a Paola, a Carlo e a tutti i Giulio d’Egitto”.

Molti in sala si concedono alle lacrime. La forza – o meglio, la resilienza come l’ha definita il giornalista Giuliano Foschini – di una mamma a cui hanno ucciso il figlio senza alcun motivo. E se un motivo dovesse esserci stato nessuno ancora vuole dirglielo. Paola è arrabbiata, è stufa di non sentire nulla di nuovo. È stufa di sentir definire le sue reazioni come “elaborazione del lutto”. Perché “non esistono libri di psicanalisi che parlano dell’elaborazione del lutto di una mamma italiana ed europea a cui hanno torturato il figlio”.

Quel 25 gennaio 2016 Giulio uscì di casa per incontrare un amico che lo aspetterà invano. Perché quell’appuntamento, Giulio lo ebbe con la morte. Anzi, con l’inizio delle torture raccontate dal suo stesso corpo. La serata finisce come (secondo i tabulati delle indagini) è finita la vita di Giulio da uomo libero, con una canzone dei Coldplay: “A rush of blood to the head”. Magari un caso. Magari no.

Carmen Baffi
Carmen Baffi
Aprile07/ 2017

Il giornalismo d’inchiesta in Italia sta scomparendo e quelli che davvero se ne occupano possono contarsi sulle dita di una mano. Emiliano Fittipaldi di L’Espresso è certamente uno di loro, ha firmato le inchieste più spinose di questi anni, dal Vatican gate al caso Marra – Raggi, ed ha tenuto uno dei più attesi workshop delle prime giornate dell’edizione 2017 del Festival Internazionale del Giornalismo a Perugia.

«Una delle malattie del giornalismo italiano è l’opinionismo, perché il giornalismo d’inchiesta è un’altra cosa, quello si occupa dei fatti».

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L’incontro nella superba Sala dei Notari è servito ad analizzare l’infinito braccio di ferro tra il giornalismo, quello che infastidisce e non abbassa la testa, e il potere in Italia. Non nasconde una certa preoccupazione, Fitttipaldi, volgendo lo sguardo al mondo del new journalism, in cui si sente dire ai ragazzi delle scuole di voler divenire firme raccontando le loro idee sul mondo. Nessuno sembra voler più cercare le notizie scomode, quelli che tanti vogliono tenere nascoste al cittadino: «Perché è molto più noioso, molto più complicato e rischioso». Perché in Italia la realtà è che se un giornalista dà fastidio, non si becca un Pulitzer e un film da Oscar, ma una denuncia. Dopo la denuncia passa a incassare minacce e immediatamente si ritrova a vivere sotto scorta. L’unica colpa: aver fatto bene il suo mestiere. Secondo dramma: la carriera. «Un giornalista d’inchiesta non fa carriera. Nessun di loro sarà direttore di un giornale in Italia. Questo in altri paesi, in America per esempio, non accade».

Finché l’opinione pubblica non sarà in grado di riconoscere e sostenere chi informa, i giornalisti si autocensureranno, rimarranno sotto i capi redattori che a loro volta sono sottomessi al potere. Fittipaldi elenca i processi ma anche molti feedback in questo senso:

«Se Fittipaldi fa un’inchiesta non è perché è libero e indipendente o perché ha cercato una notizia, ma perché sicuramente gliel’ha detto De Benedetti. Se la fa sulla Raggi è perché gliel’ha detto Renzi, a cui è legato De Benedetti, a sua volta legato al Pd. Se invece la fa su Renzi, è perché Fittipaldi ha capito che vinceranno i grillini e deve tenersi pronto».

Ma allora, giornalismo e potere – se da fuori sembrano essere così intrecciati – cosa temono di più l’uno dell’altro?

«Il potere deve temere il giornalismo fatto bene, perché in Italia c’è un potere che difficilmente si caratterizza di trasparenza. Il giornalismo, invece, deve temere dal potere alcune censure che sistematicamente vengono imposte ai giornalisti e deve essere capace di combatterle con più coraggio e più forza».

Non ha alcun dubbio Fittipaldi mentre risponde alla domanda. Certo è che a volte i dubbi servono: se non ne avesse avuti, dopo aver letto un pezzo di Dagospia,  non avrebbe scritto i suoi due libri Avarizia e Lussuria. Terzo germe è, infatti, la mancanza di curiosità. Le inchieste nascono così: trovi la notizia che ti incuriosisce e ci entri dentro. Scavi, indaghi, cerchi la verità finché non la trovi. Dopo, arriva il lavoro più faticoso: pubblicare. “Io non pubblico se non ho le carte”, servono le prove, sempre.

Qualcuno gli ha chiesto se ha mai avuto paura: “Se un giornalista d’inchiesta ha paura, ha perso in partenza“. In conclusione nel kit di sopravvivenza non devono mancare: curiosità, coraggio e, se serve, la pazienza di essere sicuri di vincere. In caso contrario, il potere ti spezza il braccio.

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In copertina: foto di Alessandro Migliardi per Ijf17

mmasciata
mmasciata
Marzo30/ 2017

di Alessandro Senato

Do un colpo di tosse, la gola graffia, riesco a malapena a parlare. Mi inserisco un millimetro alla volta nel flusso di gente che esce. “Chi bravu stu guagliune” commenta la signora sulla sessantina con la permanente rivolgendosi alla sua amica con una pettinatura ancora più vistosa. “Passami il mantello nero, il vestito da torero, oggi salvo il mondo intero, con un pugno di poesie” canta un coretto improvvisato di tre ragazze che più in là avanza un passo alla volta ondeggiando le teste sulla metrica della canzone.

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Questa volta le generazioni si sono mischiate e hanno applaudito insieme, ci sono tutti dai nonni ai nipoti, non è più adolescente il suo pubblico, come ammetteva anche lui ai tempi del mitico Vol.1. Nella penombra, dal mio sedile vedevo professionisti in abiti da gran serata che si abbandonavano a balli a braccia alzate cantando insieme al vicino di posto. Come Amelie mi giravo a guardare gli altri spettatori durante le canzoni e tutti – alcuni più compìti altri più plateali – muovevano le labbra insieme a quelle di Dario Brunori. Luci, scenografia e sonorità hanno assunto l’autorevolezza dei grandi concerti, ma Dario è rimasto il giocherellone di sempre. Fa ridere di gusto tutte le generazioni con un umorismo genuino e imbastisce un duetto tenero e divertente con il nipote di tre anni in grembiule e chitarrina il cui carisma sul palco promette un futuro da esaltatore di folle.

Coinvolge nel concerto gli altri artisti della sua città come la splendida voce di Aldo D’Orrico (in arte “Al The Coordinator”) che apre e i fiati dei Takabum che accompagnano in qualche pezzo, mentre gli altri musicisti applaudono fra il pubblico. Dopo le canzoni del nuovo album “A casa tutto bene” la Sas per voce del suo amministratore delegato introduce i pezzi degli album precedenti a modo suo: “…sì, vabbè tanto lo sappiamo che i pezzi vecchi erano meglio”. Parte “Come stai” e poi una splendida versione pianoforte e voce di quella che è “Piccolo grande amore” per Baglioni o “Vita spericolata” per Vasco Rossi: le note malinconiche di “Guardia 82” danzano sulle teste di chi è seduto in platea insieme al coro unisono di tutto il teatro, rendendo quel momento perfetto.

All’uscita la gente si saluta e si abbraccia in un clima di famiglia. Famiglia, è proprio la parola che descrive meglio l’atmosfera che la tappa cosentina del tour nazionale della band cosentina ha creato ieri sera. Mio fratello Dario ha cantato le sue canzoni, ha fatto le sue battute e ha dialogato con il pubblico in dialetto abbattendo quella barriera di divinità fra il cantante e il pubblico che si sente in altri concerti. Con Mammarella sas in platea, il nipote sul palco e gli amici di una vita ad applaudirlo non era difficile sentirsi a casa, ma la popolarità troppo spesso ha effetti alienanti sulle persone che ne sono colpite. Invece Dario è ancora Dariù e abbraccia la sua città come faceva prima di comparire da dietro le quinte tecnologiche degli studi Rai annunciato da un presentatore. La sua città ricambia. E’ stato per me come dovrebbe essere un concerto, dove si canta fino a graffiarsi la gola, si ride ad alta voce e dove si sente che quella persona sul palco ti è vicina perché canta quello che tu vorresti dire, perché cresce insieme a te e perché mette in rima le tue inquietudini e le tue gioie con le tue stesse parole. Le sue “stupide canzoni” mi piacciono perché riescono in tutto questo rumore, in tutto questo dolore, a ricordarmi chi sono.

Carmen Baffi
Carmen Baffi
Marzo30/ 2017

«Il giornalismo è una professione in cui conta molto la passione, ma questa passione merita di essere giustamente retribuita. Il 40 per cento degli oltre 35mila giornalisti in Italia, per lo più under 35, ha un reddito inferiore a 5mila euro. Il tema della precarizzazione e della dignità professionale impone riflessioni e azioni non più procrastinabili». Parola di Pietro Grasso. La seconda carica dello Stato ha deciso così di dare il via alla II Edizione dell’Osservatorio sul giornalismo intervenendo nella Sala Zuccari di Palazzo Giustiniani a Roma. Noi c’eravamo e abbiamo potuto ascoltare con attenzione e dare conto di un’analisi dettagliata sulla crisi e l’evoluzione del mondo dell’informazione italiano, fatto sempre meno di carta stampata e notizie di qualità e sempre più di social media e quello che viene definito surplus informazionale.

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Il Presidente del Senato Pietro Grasso apre i lavori dell’Osservatorio sul giornalismo.

Come si può evincere da questi grafici il livellamento in discesa è certo e ha distorto il valore di un mondo i cui mutamenti sono notevoli. Il dato più importante: dal 2010 ad oggi sono oltre 4mila i giornalisti che non lavorano più. I giornalisti attivi in Italia sono 35.619 e la loro situazione non è buona. La categoria è stata statisticamente divisa in cinque gruppi, tre per gli uomini e due per le donne. Per gli uomini il primo è quello dei giornalisti dipendenti (23%, guadagnano fra i 20 e i 70 mila euro); i freelance (20%, guadagnano fra i 5 e i 20 mila euro) e gli idealisti (21%, reddito fino a 5mila euro). Per le donne sono state individuate le emergenti (18%, reddito dai 20 ai 70mila euro) e le precarie (18%, reddito fino a 5mila euro). Il lavoro dipendente ha ceduto il passo a quello autonomo ormai da anni e vengono a galla profonde differenze fra insider (prevalentemente dipendenti uomini oltre i 40 anni di età) e outsider (prevalentemente donne e giovani, tutti subordinati o autonomi). Secondo il rapporto la maggior parte dei giornalisti in Italia va verso la tendenza di non guadagnare oltre i 20mila euro all’anno e di questi solo piccole parti di autonomi e subordinati potranno farcela. Nella professione del giornalista in Italia oggi il rischio occupazionale e la precarietà sono elementi critici che superano tutti gli altri possibili messi insieme: questo dice lo stato delle cose. Altro rilevamento assai significativo quello che indica l’aumento degli iscritti all’Ordine dei giornalisti: dal 1975 ad oggi è stato del 308%. Insomma, mentre diminuiscono drasticamente i contratti e le garanzie aumentano a dismisura gli aspiranti giornalisti. Un’anomalia tutta italiana che vediamo in un’altro dato: se nel 1975 i pubblicisti rappresentavano il 47% circa degli iscritti all’Albo al netto di praticanti, stranieri ed elenco speciale, tale percentuale è andata crescendo negli ultimi 40 anni fino a rappresentare oggi il 67% degli iscritti. Il rapporto è molto interessante; realizzato dal Servizio Economico-Statistico dell’Agcom (Autorità per le garanzie nelle comunicazioni), si focalizza sugli aspetti fondamentali della professione giornalistica.

Potete leggerlo qui in versione integrale e di seguito nelle infografiche che abbiamo ritenuto più interessante estrapolare. L’analisi è partita dagli aspetti socio-demografici dei giornalisti attivi in Italia, la loro attività lavorativa e professionale fino alle criticità riscontrate dagli stessi sul campo. Criticità che dovrebbero essere sanate dalla legge italiana, per definizione rivolta a perseguire l’obiettivo di un’informazione libera e al servizio della collettività.

 

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L’Osservatorio è stato presentato e spiegato da Marco Delmastro, direttore del servizio-statistico dell’Agcom, che ha spiegato come l’aumento di testate online non sottoposte a controlli adeguati abbiano causato l’aumento delle fake news. Inoltre, sempre secondo l’esperto, «negli ultimi anni è stato registrato un aumento del chilling effect e molte notizie non vengono nemmeno prodotte». Questa espressione arriva dagli Usa e indica il fenomeno dell’autocensura, in particolar modo in presenza di leggi che scoraggiano con il timore di una sanzione la libera espressione. Il convegno è proseguito con gli interventi di Angelo Marcello Cardani e Mario Morcellini, rispettivamente  presidente e commissario dell’Agcom; Paola Spadari, Presidente dell’Ordine dei Giornalisti del Lazio; Virman Cusenza, direttore de Il Messagero; Lucia Annunziata, direttrice di Huffington Post Italia; Philip Willan, presidente della stampa estera e Federica Angeli, giornalista di Repubblica.

L’esperienza riportata da quest’ultima è stata particolarmente d’impatto nella descrizione di un universo giornalistico difficile, che può mettere paura soprattutto ai giovani che intraprendono questa carriera. Da quattro anni, infatti, per le inchieste che ha portato avanti, la Angeli è costretta a vivere sotto scorta, privata della sua stessa libertà, a causa delle molteplici minacce che le ha rivolto la criminalità organizzata. «Se non hai davvero passione non puoi essere un giornalista. Davanti a una scelta: poso la penna o continuo, io continuo, nonostante intimidazioni e paura», queste le sue parole più intense, sostenuta da tutti i colleghi presenti. Anche secondo Philip Willan, infatti, «serve un giornalismo forte e autorevole, che in questo momento manca». Il giornalismo deve cercare, scavare a fondo nelle cose, soprattutto quelle più scomode. Ma come si diventa degni portavoce della verità? «Bisogna sapersi sporcare le mani – ha concluso Federica Angeli – entrando in quella realtà che ti fa girare la testa per quante cose ci trovi dentro».

Gianluca Palma
Gianluca Palma
Marzo20/ 2017

Si definisce “operatrice silenziosa” della memoria e dell’impegno. E guai a usare “l’io”. Nancy Cassalia 22 anni di Lamezia Terme (Cz), studia Giurisprudenza all’Università Magna Grecia di Catanzaro ed è responsabile del settore giovanile per l’associazione Libera – nomi e numeri contro le mafie in Calabria. Fedele all’insegnamento di don Luigi Ciotti, crede nella forza della comunità e nella corresponsabilità, «perché la lotta al fianco dei familiari delle vittime innocenti delle mafie per pretendere dallo Stato verità e giustizia deve riguardare tutti». Sui suoi profili social scrollano in rassegna le attività di formazione nelle scuole e i tanti raduni giovanili a cui ha partecipato e che ha organizzato in vista di questo tanto atteso 21 marzo, Giornata nazionale della memoria e dell’impegno, ma dice di avercela con chi «si riempie la bocca della parola antimafia, che non significa niente se non per molti solo una bandiera da sventolare all’occorrenza».

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Nancy Francesca Cassalia, 22 anni, in una manifestazione di Libera.

Cosa significa per te che dopo 10 anni il 21 marzo ritorni ad essere celebrato nel tuo territorio?

Nella Locride ci sono stati decine di omicidi e tanti familiari aspettano ancora giustizia. Dimostriamo che esiste una Calabria più forte della ‘ndrangheta. In molti pensano che i clan siano “dormienti” solo perché non sparano più. Anche se gli ultimi omicidi di mafia a Locri sono stati nel 2005, quando uccisero prima Gianluca Congiusta poi Francesco Fortugno. Senza dimenticare i piccoli Dodò, Domenico Gabriele e Cocò Campolongo, uccisi rispettivamente nel settembre 2009 a Crotone e nel settembre 2015 a Cassano allo Jonio, nel Cosentino. Allora tutta la comunità si ribellò. Ma alla ‘ndrangheta oggi non conviene più spargere sangue per le strade, non serve più intimidire perché attirerebbe troppa attenzione. Piuttosto agisce sottotraccia e continua a controllare il territorio. Dobbiamo dimostrare che noi calabresi sappiamo essere comunità, che sappiamo difendere la nostra meravigliosa terra. Contribuiamo tutti a far sorgere il bello, come recita quest’anno il titolo della Giornata, dovremmo essere tutti “testimoni di bellezza”.

La Giornata della Memoria e dell’Impegno è stata istituita ufficialmente dal Parlamento come data nazionale. Era una delle battaglie più importanti di Libera. Come valuti questo risultato?

Quella legge è monca. Non so neanche se definirla una vittoria a metà. Manca un aggettivo fondamentale: “innocenti”. In questo modo un mafioso che è stato ucciso in un regolamento di conti è equiparato a quei cittadini onesti che si sono opposti ai clan. Proprio perché ci siamo battuti in questi anni, individuando una data simbolica, il primo giorno di primavera, che potesse accomunare tutti i familiari con cui lavoriamo da tempo, questa legge per molti di loro è come uno schiaffo. Continueremo a batterci per ottenere il riconoscimento delle vittime innocenti. Non è una sottigliezza.

I clan in Calabria non sparano più, ma controllano il territorio anche con le scritte sui muri. E Libera qui come risponde?

Esistono i presidi che lavorano a stretto contatto con i coordinamenti ed è una rete che si fortifica ogni giorno. Riusciamo a organizzare diverse attività, andiamo nelle scuole a fare progetti con gli studenti. Li facciamo incontrare con i familiari delle vittime innocenti, e poi i ragazzi devono produrre un racconto sulla storia che hanno ascoltato per solidificare la memoria. In questi mesi con il coordinamento di Catanzaro abbiamo svolto attività di formazione in venti scuole della provincia. Anche in zone socialmente molto difficili e abbandonate come il quartiere Pistoia, dove vivono prevalentemente famiglie di etnia rom. Ed è stato proprio lì che sono successe cose importanti, molti giovani rom hanno partecipato ai nostri seminari in chiesa grazie alla collaborazione delle famiglie.

nancy Libera
Nancy in un incontro di Libera con le scuole.

Perché hai scelto di impegnarti con Libera?

Ho partecipato a un campo estivo di Estate Liberi a Isola Capo Rizzuto nel 2013. Una delle esperienze più belle della mia vita. Ho toccato con mano la mia terra, in tutti i sensi. Mi alzavo presto al mattino insieme al resto del gruppo e si andava a lavorare nei campi dei beni confiscati. Ho conosciuto da vicino quella realtà, ho visto che esisteva una Calabria attiva, tanti giovani provenienti dalle altre province e dal resto d’Italia che con il loro impegno seminavano speranza. Così ho deciso che il mio percorso doveva proseguire e tempo dopo mi misi in contatto con Rocco Mangiardi, testimone di giustizia a Lamezia Terme per costituire un presidio nella nostra città. Progetto al quale stiamo ancora lavorando.

Il tuo territorio viene descritto come uno dei più difficili, fin dove è vero?

Lamezia è un territorio estremamente complicato. Tra l’altro nell’ultimo anno si sono verificati nuovi atti intimidatori e strani omicidi. La scorsa estate hanno incendiato i terreni della Cooperativa Le Agricole che fa capo alla Comunità Progetto Sud di don Giacomo Panizza. Vuol dire che c’è stato un ricambio nelle famiglie mafiose, perché molti boss e affiliati sono stati arrestati dalle Forze dell’Ordine, quindi bisogna capire chi c’è dietro questi episodi.  La nostra rete di associazioni è solo uno strumento per raggiungere uno scopo superiore: riscattare la nostra terra e tutto il paese dalle ingiustizie. Per questo andiamo nelle scuole a incontrare gli studenti. Recentemente in un Istituto di Catanzaro un ragazzino di 12 anni mi ha detto “con le tue parole mi hai fatto capire da che parte stare”. È stato emozionante, sono piccole cose che mi danno ancora più determinazione ad andare avanti. Infatti credo che nelle scuole non ci si dovrebbe limitare alla didattica classica, ma prevedere laboratori improntati alla cittadinanza responsabile. In territori complicati come Lamezia sarebbe davvero utile.

Con don Luigi Ciotti hai mai parlato?

Si, due anni fa, in occasione del 25esimo anniversario dell’omicidio dei netturbini Francesco Tramonte e Pasquale Cristiano. Libera è una grande famiglia. Siamo un enorme “noi” collettivo.  Don Luigi è venuto a Lamezia e abbiamo passato un’intera giornata insieme per un incontro che ho moderato io dove interveniva lui e i familiari delle vittime. Alla fine del mio intervento introduttivo mi ha abbracciato e ho trattenuto a stento le lacrime.

Dove e come lo vedi il tuo futuro?

Come si può immaginare mi piace molto il diritto penale e dopo l’Università vorrei intraprendere la carriera di magistrato, per questo vorrei andare a Napoli per entrare nella Scuola Superiore di Magistratura.

mmasciata
mmasciata
Marzo17/ 2017

di Fabrizio Di Buono

(BUENOS AIRES) La settimana appena conclusasi qui ha segnato un confine tra l’estate e l’autunno. Cosa ha di particolare questo confine temporale? Da una parte l’accettazione della sua esistenza, dall’altra il suo rifiuto. Nei termini della settimana trascorsa, si traduce con un caldo che non appartiene a disquisizioni climatiche e per stagione, e al fresco che non di certo fa riferimento ad un termometro sociale, che invece segna una evidente idiosincrasia tra la politica economica e sociale del governo di Cambiemos, liderato dall’imprenditore Mauricio Macri, e lo stato reale del paese, alle prese con aumento del costo della vita, contrazione del potere acquisitivo dei salari e una crisi lavorativa in vari settori dell’industria. Da questa mancanza di accordo sul cammino da intraprendere nella vita quotidiana, si sono determinati tre giorni di sciopero, aperti da uno protesta insolita per la vita argentina, lo sciopero del calcio.

Domenica 5 marzo, ore 14 e 45. Scioperano i calciatori

L'assemblea dell'Afa vota per cancellare "futbol para todos".
L’assemblea dell’Afa vota per cancellare “futbol para todos”.

L’assenza è di quelle che si fanno notare, il calcio ogni giorno sembra quasi ronzare per le strade di Buenos Aires; come ritmo di vita scandisce ogni passo e passaggio per le vie della città che nasce e dà le spalle al Rio del Plata: è la voce del pueblo. Il calcio ha scioperato di domenica, nel suo giorno sacrale, istituito quasi per legge divina, raccontata da voci che perdono il sonno della siesta, ansiose di raccontare la gioia, la magia di un tocco, nell’attesa dell’inaspettato che farà gridare migliaia di gole. Forse, come in un racconto di Fontanarossa, se ci fosse stata la ripresa del campionato, molti problemi dell’Argentina non avrebbero avuto il tempo di essere così ampiamente discussi. A fermarsi sono state duecento società professionistiche, che reclamano il pagamento degli stipendi ai calciatori. La situazione è difficile, visto lo stato di profonda crisi di numerose società e la irrisolta questione dei diritti televisivi che coinvolge in prima persona il primo ministro [1]. Nei giorni seguenti allo sciopero, lo stato ha pensato di risolvere con l’erogazione di 362 milioni di pesos (305 mln erogati dal governo, 40 mln erogati da Trisa[2], 7 mln da TyC, per i diritti televisivi esteri, e 10 mln che arrivano dalla compagnia petrolifera privata Axion Energy, che figura come sponsor del campionato) erogati nelle casse dell’AFA (Asociaciòn futbolistica Argentina), al fine di pagare i debiti contratti nei confronti dei calciatori associati e la rescissione del contratto del programma Fútbol Para Todos[3], che riguarda i diritti di trasmissione televisiva delle partite. Tuttavia restano in sospeso 1.200 milioni di pesos che verserà il vincitore dei diritti televisivi. Il primo sciopero, di conseguenza, è rientrato domenica 12 marzo, con la ripresa del campionato. Come conclude Gustavo Veiga dalle colonne di Página 12, «Al fútbol nadie le bajará la persiana. Eso está claro»[4].

 

6 marzo, ore 7 e 53. Si fermano gli insegnanti

Il maestro che sta lottando sta anche insegnando.
“Il maestro che lotta sta anche insegnando”.

Gli scioperi con maggiore rilevanza sociale non sono stati quelli nelle sale riunioni dei miliardari: sono quelli dei docenti, degli operai e delle donne, avvenuti nei primi tre giorni della settimana, riconsegnando alla città un’altra delle voci che la caratterizzano, la voce dei tamburi, che penetra nelle vie e sembra risuonare anche quando non c’è traccia di manifestazione. La crisi della scuola pubblica in Argentina è un tema che si affronta da diverso tempo. Sempre più maltrattata, con carenza di fondi anche per le infrastrutture e di sostegno per le famiglie in difficoltà economica, porta diverse forze sociali a prendere una posizione. Las Madres de Plaza de Mayo, ad esempio, hanno avviato una raccolta di materiale basico da distribuire agli studenti che non riescono a comprare un kit per iniziare la scuola. Affermando che «tuttavia servirebbero anche i banchi nelle scuole», evidenziano la carenza di risorse. Tuttavia lo scontro verte sull’aumento del salario nei tavoli di trattativa tra Governo e los gremios (i sindacati) che raggruppano i docenti. L’aumento dell’inflazione – che nel 2016 ha raggiunto il 40% -, l’aumento del costo della vita, determinando una perdita del potere d’acquisto dei salari. Pertanto la proposta avanzata dai sindacati è quella di un aumento del 35%, mentre il governo pone un tetto del 18% – valore dell’inflazione che il governo prevede di raggiungere a fine anno -, una controproposta che ignora la perdita del potere d’acquisto registrato in tutto il 2016. Il risultato è stato una mancata negoziazione e uno sciopero di 48 ore che ha ritardato le aperture delle scuole pubbliche. In questo modo, lo sciopero è continuato anche per il 7 marzo.

 

7 Marzo, 0re 6 e 34. Braccia incrociate per gli operai

7 marzo 5
Una delle numerose organizzazioni in marcia il 7 marzo.

Il 7 marzo le strade di Buenos Aires si sono nuovamente bloccate. La protesta ha occupato le strade principali della capitale in una marcia che prevedeva più punti di partenza e una destinazione: il Ministero della Produzione. Molti dei manifestanti non sono mai arrivati alla fine del tragitto per la moltitudine delle persone presenti, un’organizzazione impeccabile delle varie colonne di manifestanti, con una nota negativa avuta nell’indegno tafferuglio finale della manifestazione tra gli stessi dirigenti delle varie correnti della CGT[5], in cui si vive un clima teso per disparità di vedute che poco hanno in comune con la dignità e la lotta di classe che sta intraprendendo la base. Tuttavia allo sciopero hanno partecipato molte sigle politiche, non riconducibili tutte alla CGT, e neanche al blocco kirchnerista. La manifestazione ha così risposto non tanto alla chiamata della CGT, bensì al rifiuto popolare delle politiche del macrismo. Sono queste politiche il fulcro del grande sciopero: gli aggiustamenti strutturali del governo in stile neoliberista, la flessibilità del lavoro, i licenziamenti in aumento, fabbriche che chiudono o sul lastrico per l’apertura non controllata delle importazioni, l’inadempimento della legge di emergenza sociale. Una inchiesta uscita sulle colonne del Tiempo Argentino, nell’ottobre 2016, segnala come la metà dei salari legali si attesta sotto la linea della povertà, cioè sono salari inferiori ai 12.489 pesos (equivalenti a 755 euro), che secondo l’Encuesta Permanente de Hogares dell’Indec (l’istituto di statistica argentino) rappresenta l’ammontare necessario a una famiglia per affrontare le spese alimentari, di trasporti e servizi minimi. A questo si deve aggiungere l’attacco frontale del governo lanciato contro le “fabbriche recuperate”, con un nuovo decreto che favorisce gli imprenditori che avevano portato la fabbrica alla chiusura.

 

8 marzo, ore 18 e 13. La marcia delle donne

8marzo 6
Le donne argentine hanno sfilato ricordando le vittime di femminicidio

L’8 marzo è stato il giorno della manifestazione più attesa. Già annunciata da tempo, ha riproposto un corteo immenso, dopo quello del 17 ottobre, con molteplici argomenti, attraversano il quotidiano nazionale ed internazionale delle donne, completando tre giorni di intensa mobilitazione, affrontando anche tematiche trasversali alle giornate precedenti. Convocata da NiUnaMenos, la marcia ha reclamato contro la violenza machista, le conseguenze degli aggiustamenti economici che hanno riportato l’Argentina sotto la supervisione del FMI (non entrava in Argentina dal 2003) e la libertà di Milagro Sala, prigioniera politica leader dell’organizzazione Tupac Amaru, in carcere da 417 giorni senza che ci sia stato processo. Un caso, quello di Milagro Sala, che appare come un “uso arbitrario della Giustizia che penalizza oppositori e criminalizza le proteste”, affermano diverse sigle, afferenti ai movimenti per i diritti umani, sindacati e partiti politici della sinistra e che ha fatto pronunciare a favore della sua liberazione anche le Nazioni Unite. In ottobre il numero di femminicidi in meno di tre settimane raggiungeva quota 19 vittime. In Argentina, si attesta che 1 donna viene assassinata ogni 18 ore. Al centro della protesta che ha visto sfilare l’enorme corteo dal Congreso fino a Plaza de Mayo, anche la necessità di legalizzare l’aborto “sicuro e gratuito”, così come un forte accento sull’ingerenza della chiesa (cattolica ed evangelista) nel non promulgare leggi che riguardano le politiche di genere. Tra gli otto assi dello sciopero dell’8-M, letti in Plaza de Mayo, anche la necessità di parlare di lavoro in chiave femminista, in cui si appoggiano le lotte scese in piazza nei giorni precedenti, la reincorporazione delle persone licenziate, così come il riconoscimento economico del lavoro domestico e riproduttivo che le donne realizzano in forma gratuita.

Nella piazza non sono mancati momenti di tensione, come spesso accade, davanti la Cattedrale porteña, che ha visto coinvolti un piccolo gruppo di persone, ma che ha avuto forte risonanza grazie a reti come TeleFe e Canal13 di inclinazione oficialista (filo-governative), nel tentativo di screditare una marcia più che riuscita, con forti e precise richieste politiche. Dall’altra parte, la posizione del Governo si concretizzava nel sostenere che “non c’è motivo di scioperare”, riferendosi ai primi due giorni di protesta, mentre sull’8 marzo, il presidente Macri, assieme alla governatrice di Buenos Aires, Maria Eugenia Vidal, hanno trascorso la ricorrenza in una mensa comunitaria, in un’immagine tradizionale della festa della donna, senza alcuna allusione alla marcia e allo sciopero internazionale, ma concludendo la giornata nella mensa ringraziando le donne per «averci messo al mondo, per darci tanto amore», insomma il focolare casalingo è stato riscaldato. Non lontani, pertanto, sembrano essere gli anni in cui Macri affermava che «in fondo alle donne piace sentire complimenti, […] incluso quando si tratta di grosserie». Ma c’è poco da scherzare: le promesse fatte dai governatori (nazionale e provinciale) non sono state seguite da azioni concrete fino ad ora.

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[1] Basti pensare alla recente notizia dei 70 milioni di pesos di debiti del Correo Argentino di proprietà della Famiglia Macri, condonati e perdonati dal governo, rappresentato dallo stesso Macri – Mauricio – anche lui con un passato importante nel mondo del calcio, quale ex presidente del Boca.

[2] Società del gruppo Clarín (impegnato al momento nel licenziamento del settore grafico AGR Clarín) y Torneos y Competencias (TyC)

[3] Il programma Fútbol Para Todos permetteva l’emissione delle partite attraverso i canali della televisione aperta, dal 2009.

[4] Veiga Gustavo, Vuelve el fútbol después de 80 dias, Página 12, 9 marzo 2017. “Al calcio nessuno abbasserà la saracinesca. Questo è chiaro”.

[5] Confederación General del Trabajo.

Francesca Pignataro
Francesca Pignataro
Marzo09/ 2017

Se le nostre vite non valgono noi scioperiamo”, questo lo slogan principale del movimento #NiUnaMenos (Non una di meno in Italia), che l’8 marzo ha trovato eco nelle piazze di almeno 50 paesi del mondo ed in innumerevoli città italiane. Quella che più ha impressionato è stata la marcia a Montevideo, in Uruguay; Mmasciata.it ha trasmesso in diretta attraverso i suoi canali social la marcia del corteo partito dal Colosseo a Roma, io ho partecipato a quella organizzata tra Cosenza e la sua università.

All’Unical si è occupato dell’organizzazione dello sciopero il Comitato Unico di Garanzia, in collaborazione con il Centro di Women’s Studies “Milly Villa” assieme al Centro antiviolenza “Roberta Lanzino”. Le motivazioni dello sciopero sono differenti, accomunate però da un problema comune: l’ancora irrisolta questione della diseguaglianza di genere. Questioni centrali, oltre alla violenza di genere, sono ad esempio il cosiddetto gender wage gap, la richiesta di maggior sostegno ai centri antiviolenza, anche se uno dei temi più caldi, almeno in Italia, è la rivendicazione del proprio diritto di usufruire di quanto stabilito dalla legge 194/1978 in tema di aborto. Delle pensiline dell’università intorno alle 11 è partito il corteo, che ha percorso l’intero ponte, tra uno slogan ed un altro, fino ad arrivare in piazza Vermicelli. Donne e uomini hanno scioperato assieme sotto la pioggia, una piccola folla, guardata con relativo sospetto dai passanti, che hanno scelto di non aggregarsi. Se tutti, almeno si spera, condividono i motivi della lotta, in molti hanno considerato l’evento “inutile”, seppur per ragioni diverse. Secondo alcuni, ad esempio, è necessario lottare assieme per sovvertire il sistema capitalistico ed instaurare il socialismo, perché questa è l’unica strada possibile da percorrere per superare le diseguaglianze di genere. Oppure ancora, il movimento femminista, per qualcuno, dovrebbe autolimitarsi e comprendere che esistono problematiche più gravi ed urgenti di cui occuparsi. La lotta però, come suggerisce un uomo che ha preso parte al corteo, ha senso ed è indispensabile all’interno di questa società, ma è necessario inserirla in un contesto più ampio perché le discriminazioni di genere sono schemi sociali creati nel corso della storia.

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Nel pomeriggio, verso le 17, la manifestazione si è spostata a Cosenza, partendo dal Comune per arrivare a piazza Kennedy, percorrendo l’isola pedonale di Corso Mazzini. Il corteo era certamente più numeroso e, fortunatamente, non mancavano gli uomini ed emozionante era vedere le bambine ed i bambini manifestare assieme ai propri genitori e nonni. La manifestazione in sé ha mostrato una città attenta, certamente consapevole dell’esistenza di un problema, ma l’interesse dimostrato potrebbe esser stato mosso da passioni passeggere e domani, finita la ricorrenza (nessuno vuole demonizzare le date simboliche), c’è il rischio che si torni a normalizzare tutti quei comportamenti discriminatori oggi condannati.

È stato un tentativo di lotta che ha richiamato all’attenti un certo strato di popolazione e ha mostrato uno dei pochi aspetti positivi della globalizzazione. Come suggerisce un manifestante, l’idea di scioperare assieme in diverse parti del mondo dimostra come sia possibile riuscire ad ottenere una globalizzazione non solo dei mercati, che forse è meno positiva, ma anche e soprattutto dei diritti. La giornata ha mostrato però anche i suoi limiti, acutamente segnalati da chi crede nell’esigenza della lotta, ma è scettico sulle modalità in cui essa viene condotta. Per esempio, se il maschilismo è un male, lo è anche la misandria, proprio per questo non sono stati apprezzati tutti gli slogan proposti. Rivolgersi all’uomo, inteso come maschio, con troppa violenza è controproducente perché aumenta il divario tra i sessi, generando incomunicabilità, come suggerito da un attento osservatore, ed inoltre non tiene conto delle nuove categorie di cui il movimento femminista si occupa: le persone transgender e non binarie.

È insomma indispensabile cercare dei nuovi modi per combattere, utilizzare una comunicazione innovativa, in linea con la quarta ondata del femminismo, che disconosce il ricorso alla violenza e che condanna anche il sessismo di rigetto. La manifestazione si è conclusa in modo allegro e con una piacevole parentesi di femminismo intersezionale, ricordando le lotte di donne discriminate non solo in quanto donne, ma anche a causa della loro etnia e collocazione geografica, facendo ad esempio riferimento al caso di Malala Yousafzai, giovane Premio Nobel per la Pace pakistana nel 2014 e simbolo dei diritti civili e della lotta per l’educazione. Cosa resta di una giornata all’insegna della parità? La certezza che le modalità di lotta possono migliorare, che le nuove generazioni possono ed hanno il dovere di diventare parti attive della società per combattere un sistema ancora maschilista, ma l’unica cosa che non si può smettere di fare è resistere e non arrendersi allo stato delle cose, ricordando che “non è libero l’uomo che opprime la donna”.

alfredo sprovieri
alfredo sprovieri
Marzo07/ 2017

nave a perdere

La notizia è questa: la corte d’assise di Cosenza in data 6 marzo 2017 ha assolto per non aver commesso il fatto tutti gli imputati del processo sull’inquinamento radioattivo della Valle dell’Oliva, ovvero la zona che va dai comuni di Amantea a Serra d’Aiello, in corrispondenza dell’antica e gloriosa città di Temesa, sul litorale tirrenico calabrese. In particolare il pm aveva chiesto sedici anni e sei mesi di carcere con l’accusa di disastro ambientale per un ottuagenario imprenditore del posto, secondo risultanze di indagini riportate nella relazione del giudice per le indagini preliminari coinvolto anche nelle “operazioni che si svolsero intorno alla nave Jolly Rosso, arenatasi nel dicembre del 1990 sulla spiaggia di Amantea”.

Cosa ci resta di questa vicenda. Innanzitutto 160mila metri cubi di rifiuti contaminati da metalli pesanti da bonificare al più presto, a cui segue un abituale retrogusto di complicità, impunità e disinformazione. Di questi strani tempi pare non sia importante reclamare futuro per le generazioni costrette a crescere fra i fanghi tossici, va più di moda provare a disvelare fantomaci passati. Purtroppo però quando si parla di queste storie sui grandi media (raramente, quanti inviati dei grandi giornali erano presenti all’udienza del 6 marzo?) scopriamo che grande è la confusione sotto il cielo. Certo, non per tutti la situazione si è mostrata eccellente come quella di Mao – se da un lato è innegabile infatti che il marchio Calabria-terra-di-misteri-indicibili ha costruito carriere fondate sul nulla, è vero che dall’altro ha prodotto censure e isolamento -, ma nel più dei casi odierni assistiamo ad un appiattimento sul modello fiction che mette in pratica una delle più sofisticate tecniche di mistificazione: parlare di tutto per non parlare di niente. Un modello di giornalismo caciarone che cita gli eroi civili Ilaria Alpi, Mihran Rovatin e Natale De Grazia solo per sfamare i motori di ricerca, solleticando pruriti di un pubblico comprensibilmente frustrato dalle troppe ingiustizie di un potere apparentemente inscalfibile, senza mai arrivare a chiedersi chi come e perché abbia portato agli eventi odierni.

in.fondo.al. mar un'inchiesta multimediale e interattiva
in.fondo.al. mar un’inchiesta multimediale e interattiva

Eppure le informazioni sulle navi affondate nel Mediterraneo sono a disposizione di tutti da anni, ecco un altro tesoro che ci resta. Per esempio basta puntare il proprio telefonino verso il mare e seguire le istruzioni di in.fondo.al.mar., il progetto indipendente realizzato da David Boardman e Paolo Gerbaudo. Uno ricercatore al Design Laboratory presso il Massachusetts Institute of Technology di Boston, l’altro giornalista freelance e collaboratore de “il manifesto” da Londra, hanno realizzato un’inchiesta giornalistica moderna e seria, dando vita ad un’indagine partecipata sugli affondamenti di rifiuti tossici e radioattivi nel Mar Mediterraneo. I dati raccolti da in.fondo.al.mar provengono da diverse fonti documentali: la lista delle navi sospette è stata ricavata a partire da quella fornita nel dossier di Legambiente “Affondamenti sospetti 1979-2001”; Le informazioni su navi, proprietari, carico e circostanze degli incidenti sono quelli ufficiali ricavati dai registri “Casualty Return” e “World Casualty Statistics” del Lloyd’s Register of Shipping di Londra.

Il progetto pubblica in esclusiva i risultati di un’indagine condotta presso l’archivio dei Lloyd’s di Londra (Lloyd’s Register of Shipping) e li incrocia con informazioni ricavate da ritagli di giornale, dossier di organizzazioni ecologiste e siti specializzati, per costruire un dataset aperto, liberamente scaricabile e riutilizzabile dagli utenti per altre ricerche sulla vicenda che possono essere condotte da tutti, persino da chi è riuscito per 30 anni a far finta di non vedere 150 tir andare su e giù in una stradina di campagna. Le informazioni circostanziali sulle navi sono state ricavate dai seguenti dossier consultabili:

 

Carmen Baffi
Carmen Baffi
Marzo06/ 2017

Quando la vita inizia a beffarti è difficile darle fiducia. Se poi sei Lou Castel, il discorso cambia. Le prospettive e le circostanze cambiano, si complicano e nella maggior parte dei casi sono anche difficili da spiegare. Una vita divisa tra due ruoli, forse anche qualcuno in più. Castel come uomo, militante, attore, folle. Una vita alienata dalla realtà, vissuta anche nell’alternarsi di periodi schizofrenici. Quelli erano gli anni Sessanta. L’unico modo per esistere era dire di no, ma presto diventò un personaggio scomodo per l’Italia. Arrivò a Roma che era giovanissimo e da questo ricordo parte il documentario A pugni chiusi di Pierpaolo De Sanctis sulla vita di questo “mostro sacro”, presentato in queste ore alla Casa del Cinema di Roma e già nel mirino di Sky e della Rai. In primo piano c’è un Lou invecchiato, con pochi capelli bianchi, lunghi;  ingrassato, trasandato. Non più l’attore militante di una volta. Protagonista della scena è un uomo semplice, che passeggia nelle zone più periferiche della capitale, quasi a dimostrare definitivamente che non ha mai smesso di disprezzare tutto ciò ch’è borghese.

Una scena in cui Castel racconta dell'espulsione dall'Italia

«Non seguivo un copione. Io stesso ero il copione. I luoghi sono stati un’interfaccia che, in qualche modo, mi hanno ispirato durante la scelta di ciò che volevo o non volevo dire. Nulla di prestabilito, è stato tutto una continua sorpresa»

Sul grande schermo c’è un uomo che cammina piano, che si racconta piano. Poi una risata quasi “sguaiata”: è davanti a lui, la casa della madre. Ne ricorda il grande terrazzo, ma questa volta lo sta guardando da un’altra parte della città. Da un punto in cui non l’aveva mai osservata. Ride. Eccolo di nuovo. Questa volta seduto davanti a una scrivania, in un vecchio capannone. Legge, e ricorda di quel 1972 in cui fu espulso dall’Italia. Senza un motivo: era un militante maoista, il Castel di quei ricordi lontani. Negli anni della lotta politica arrivò fino in Calabria, a San Giovanni in Fiore. Racconta dell’alienazione personale, dell’isolamento, del rifiuto di quella realtà che lo rendevano sofferente. È tutto spontaneo, naturale, inaspettato. C’è il ricordo di suo padre, la caduta da cavallo di quand’era bambino. Ancora, il suo essere violento, la schizofrenia, causati da quello stesso senso di alienazione tuttora presente. Un altro Castel, diverso. Non solo mutato dallo scorrere del tempo nel corpo. Non c’è ha una parte da recitare. È un Castel non più attore, ma regista interno della sua stessa vita, in perfetta armonia con quello esterno.

Come hanno potuto seguire in diretta un po’ di amici sul nostro canale Instagram, seduto in prima fila c’era anche Marco Bellocchio, regista del film d’esordio di Lou Castel negli anni Sessanta, I pugni in tasca. Il regista di Sbatti il mostro in Prima pagina, de I cento Passi, La Meglio gioventù e tanti altri capolavori ha detto di esser rimasto «molto emozionato dal film. Un film che racconta in modo anti-spettacolare – che per me è una qualità – la vita di Lou con un ritmo del tutto originale». Pierpaolo De Sanctis ha parlato così del suo documentario: «Un travaglio durato otto anni, perché è stato difficile trovare le condizioni produttive che permettessero le riprese di questo film; poi l’iniziale diffidenza di Lou: non era facile rimettersi in gioco, lasciarsi andare in questa intimità. Non ero pronto nemmeno io in realtà. Diciamo che è accaduto tutto nel momento esatto in cui doveva accadere: il tempo ha giocato un ruolo fondamentale».

Lou gli era seduto accanto. Annuiva, quasi timidamente, poi con generosità si è concesso ad un pubblico intergenerazionale ed è tornato sull’argomento nell’intervista che qui riportiamo in modo integrale.

Poco fa De Sanctis ha detto che non è stato facile dar vita a questo documentario; lei ha dovuto rimettersi in gioco e riportare alla luce molte questioni “private”, quindi inizialmente era restìo all’idea di questo progetto. Cosa le ha fatto cambiare idea?
«Dovevo trovare il casuale. Come una corda, che tiri tiri fino ad arrivare alla fine. Così le scene: una scena che produce un’altra scena, fino alla fine. Non volevo farlo attraverso un qualcosa di programmato. Quando leggi che sarà la tua autobiografia, sai che non stai recitando. Non c’è quella corda che ti mette in azione come attore, ma come attore che sa recitare sé stesso che è molto più complesso dell’interpretare un personaggio. Dell’imparare la battuta a memoria. Qui mi devo sdoppiare nel momento stesso in cui recito: sono io e non io simultaneamente».

Che valore ha per lei questo documentario?
«Ha un grande, grandissimo valore. Spero che lo scoprano, questo valore, perché nessuno lo dice. Perché dicono, “sì, è il grande attore”, invece no, è molto di più. È qualcosa in cui c’è il mio modo di essere e il mio modo di recitare, insieme»

È stato questo suo modo di essere che l’ha portata a rifiutare ruoli che non sentiva suoi?
«Quelle sono scelte di vita. Prima di fare l’attore ero comunista, con l’ideale di cambiare il mondo. Per cui l’essere è un qualcosa che non si può avvicinare all’attore. È difficile da immaginare, soprattutto per le nuove generazioni. Negli anni Sessanta si poteva percepire cos’è l’esperienza, adesso non è possibile. Non c’è più un’esperienza diretta; adesso è indiretta»

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«Quando nei film dovevano frustarmi mi arrabbiavo. Dicevo: “Ma frustatemi davvero! Come faccio altrimenti a reagire?”; oppure quando mi legavano i polsi con le corde mi veniva un po’da ridere: si vedeva che potevo liberarmi da solo!».

Tempo fa ha affermato che l’unico modo per dare una svolta alla realtà sarebbe uscire dal capitalismo. Ma se ormai l’esperienza è indiretta, i giovani di oggi cosa potrebbero fare per dare una svolta concreta?
«Non sono uno di quelli che dice che i giovani non capiscono niente rispetto a noi degli anni Sessanta. Semplicemente non hanno la percezione di quegli anni, quindi come fanno? Come tutte le generazioni hanno un altro modo di procedere, ma non meno rivoluzionario. A questa parola – rivoluzionario –  bisogna stare attenti, magari non si userà più, ma ci sarà sicuro un cambiamento sociale»

Potremmo dire che il sistema capitalistico ormai è entrato anche nel cinema; ma si può ancora fare politica attraverso i film? Attraverso quale tipo di linguaggio?
«Ci sarà sempre un linguaggio politico nel cinema, ma non come prima. Le ideologie sono finite, però ci può essere un impatto della forma artistica. Un impatto politico al primo colpo. Per esempio sul muro della Senna ho visto un dipinto: gli emigrati cadevano giù, ma con loro cadevano giù anche i parigini. È questo il senso: è proprio l’impatto di vedere un’immagine che lo rende politico, però con una grande riflessione artistica»

Poi si è alzato dalla sedia scattando, quasi a voler fuggire via dall’obiettivo. Dell’attore militante Lou Castel, nome d’arte di Ulv Quarzéll, rimane questo: un uomo senza rimpianti, che ha creduto, si è ribellato, ha lottato a pugni chiusi sempre e che, nonostante tutto, crede ancora che prima o poi qualcosa cambierà.

alfredo sprovieri
alfredo sprovieri
Marzo03/ 2017

AGGIORNAMENTO | 5 aprile 2017 – La leader birmana Aung San Suu Kyi in un’intervista alla Bbc ha finalmente risposto alle domande che da mesi le rivolge il mondo,  negando la pulizia etnica ai danni della minoranza musulmana Rohingya. Suu Kyi ha parlato semplicemente di “problemi nello stato di Rakhine” dove vive la maggior parte della popolazione Rohingya, ma ha definito “pulizia etnica” un’espressione troppo forte da usare.

Myanmar bazar cox

Bazar di Cox, rifugiati Rohingya in Bagladesh ©UNHCR/G.M.B.Akash

Un bambino Rohingya giace riverso nel fango, è morto a faccia in giù nel fiume, provava a scappare dalle pallottole. Un altro è stato freddato perché non la smetteva di piangere mentre le divise stupravano la madre e le sorelle. Corpi come i loro sono stati visti bruciare nei roghi lasciati nei villaggi. Yanghee Lee, inviato delle Nazioni Unite è scioccato dai racconti, sorpreso da una situazione ben peggiore di quella che si aspettava di trovare. Visitando il campo profughi al Bazar di Cox, in Bangladesh, ha messo insieme decide e decine di testimonianze sugli indicibili crimini che da mesi avvengono al di là del confine, in Myanmar. La documentazione finirà nel rapporto ufficiale che verrà presentato al Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite a Ginevra il 13 marzo, ed è fra i contributi indipendenti che hanno convinto il Tribunale Permanente dei Popoli che non è più tempo di aspettare.

L’alto organo di opinione è stato convocato lunedì sei marzo alla Queen Mary University di Londra per una due giorni di lavori sulla condizione in Birmania, paese a maggioranza buddista, delle minoranze etniche Kaichin e Rohingya, di religione musulmana, che da mesi denunciano persecuzioni etniche per mano dell’esercito birmano. La prima sessione di udienze, i cui lavori nei prossimi mesi continueranno negli stati Uniti e poi in Malesia, prevede la partecipazione di esperti come Denis Halliday, ex segretario generale aggiunto delle Nazioni Unite e vincitore del Premio Gandhi. Gianni Tognoni è segretario generale del Tribunale Permanente dei Popoli, l’organismo internazionale fondato sulla scorta del Tribunale Russell dal padre costituente Lelio Basso a Bologna nel 1979 per promuovere e difendere il rispetto dei diritti dei popoli.

Il governo guidato da un Nobel per la Pace accusato di genocidio: cosa non torna?

Anche comprendendo la delicata fase di transizione che sta vivendo il Myanmar, quello che più impressiona è proprio il silenzio di Aung San Suu Kyi. Sollecitata da un appello (leggi qui, ndr) di numerosi suoi colleghi Nobel ha saputo solo definire false le inchieste di organismi internazionali e annunciare il lavoro di commissioni interne che purtroppo la mostrano agli occhi del mondo sempre più dipendente dai militari”.

Gia
Gianni Tognoni, segretario generale del Tribunale Permanente dei Popoli

 

Cosa si prefigge di ottenere il Tribunale Permanente dei Popoli su questa vicenda?

Come fatto in passato vuole farsi carico del dolore di un popolo e trasferirlo al mondo. La corposa documentazione e le testimonianze raccolte hanno la coerenza che ci fa dire di essere davanti a qualcosa di molto grave. Nei prossimi mesi daremmo spazio a tutte le versioni, portando la questione agli occhi della comunità internazionale che purtroppo in mancanza di un diritto internazionale efficace è ormai ridotta al ruolo di spettatrice. C’è la brutta sensazione che si fa finta di non sapere fino in fondo, magari in attesa che tutto finisca. Invece non si può rinunciare all’idea che si può e si deve fare qualcosa”.

Fra gli arresti del governo birmano nella regione ci sono sarebbero militanti dell’Isis.

Sì, questo può diventare un problema. Questa zona di confine si sta dimostrando una zona di aggancio per il terrorismo internazionale, che tenta di impadronirsi della disperazione come ha sempre fatto nella storia quando il diritto non ha saputo precederlo”.

———–>Il reportage del New York Times

Secondo le stime dell’Onu solo nelle ultime settimane oltre 65mila persone Rohingya hanno lasciato il Myanmar, trovando rifugio oltre il confine con il Bangladesh. Questa popolazione, da sempre fra le più povere della terra e senza riconoscimenti di cittadinanza, sta lasciando in massa i villaggi in seguito alla dura repressione avviata dall’esercito birmano, decisa in seguito ad alcuni attentati organizzati negli ultimi mesi da gruppi indipendentisti che chiedono maggiori autonomie per lo stato che si trova nell’ovest del paese. Repressione portata avanti con una serie di crimini internazionali commessi contro la popolazione in modo indistinto, falcidiando il futuro di donne e bambini innocenti. Tutto nell’assordante silenzio della comunità internazionale e di Aung San Suu Kyi un premio Nobel per la Pace che de facto è primo ministro del Paese e che per molti anni è stata simbolo indiscusso dei diritti umani nel mondo.

l’intervista || Brunori torna a Nanà land

mmasciata
mmasciata
Febbraio09/ 2017

di Francesca Pignataro e Linda Scaglione

 

All’università tutto bene, almeno per un pomeriggio.

Era prevedibile, complice i tanti posti riservati alle autorità, gli studenti dell’Università della Calabria sono stati smossi più dalla presentazione all’auditorium del nuovo disco della Brunori sas che dall’arrivo in aula magna del Capo dello Stato, Sergio Mattarella. Come si scrive in questi casi, il cantautore cosentino ha infiammato la platea dell’Unical, tra una confessione, una battuta e qualche canzone. Sotto la pioggia una folla di studenti eccitati ha spintonato contro le porte del teatro per accaparrarsi i posti migliori, ma va annotato che non erano i soli ad aspettare Dario Brunori. Assiepati a vederlo giocare in casa, in una sorta di ritorno a Nanà land (per i brunoriani dell’ultimora: la provincia normale cantata in do che è stata concetto del suo primo album e del pezzo Nanà) c’era una parte di quell’umanità descritta nel suo nuovo disco “A casa tutto bene“. C’era chi resta attaccato al suo posto ma non vuole innalzare muri per barricarsi in casa propria e desidera confrontarsi con un mondo che è altro da sé. Durante la presentazione Brunori ha dato la notizia (29 marzo al Teatro Rendano di Cosenza l’unica tappa calabrese del suo tour), e si è sforzato di dar voce alle svariate personalità che popolano il suo condominio interiore, senza distaccarsi troppo dall’immagine che si diverte a dar di sé e senza prendersi troppo sul serio. Un Brunori un po’ cazzone, a tratti cinico e calcolatore, a tratti un po’ megalomane.

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Ma c’è sempre qualcosa in più di noi da quello che vogliamo far apparire. Probabilmente questo ragazzo di provincia non è un disilluso come gli altri, ma qualcuno che attraverso una pensata critica della società tenta di trasformare quel sentimento tipico della modernità in qualcosa di costruttivo, e proprio ciò lo rende portavoce e custode di sentimenti che ormai hanno trovato una connessione con un pubblico vasto e diffuso su tutto il territorio nazionale. Sue interviste in queste settimane di lancio sono apparse su tutti i principali media italiani; siamo lontani anni dai primi incontri di Mmasciata nel suo studio di Rende a parlare de “il suo pubblico immaginario”, ma un tentativo di spogliare Brunori per arrivare alla pancia di Dario è forse per questo ancora più interessante.

Iniziamo con una domanda semplice: la morte di Bauman ha preceduto di poco l’uscita del tuo ultimo album. Lo hai ucciso tu nella speranza di dare maggiore visibilità al disco?

«Sarebbe stata un’ottima mossa di marketing, ma è stata una coincidenza, di certo non felice, ma questo è anche un modo per far tornare in auge un certo tipo di pensiero, che sento di sposare».

Ascoltandoti è impossibile non cogliere alcune influenze culturali che accompagnano il tuo pensiero. Qual è stato il libro o la canzone che ti ha salvato la vita? 

«Cito sempre “Uno, nessuno e centomila” di Pirandello, che ho incontrato a liceo, in un’età in cui cerchi la tua identità ed invece scopri che probabilmente dentro te vivono una molteplicità di figure. Sono un osservatore dei tipi umani e tutto ciò che mi fa guardare dentro e trovare collegamenti con gli altri mi affascina, infatti sono anche un grande appassionato di Gurdjieff. Non posso dire una canzone che mi ha salvato la vita, parlerei più di dischi. In una fase della mia vita è stato molto importante l’incontro con Lucio Dalla. “Com’è profondo il mare” è stato un album che mi ha dato un certo orientamento».

Nella società cellulare è molto più semplice costruirsi un’identità multipla. Dario quanto ha lavorato per costruire una certa immagine di Brunori e le due quanto sono sovrapponibili?

«Generalmente l’immagine che do di me sul palco è simile a quella che si vede fuori, anche con i miei intimi. Vivrei con grande disagio l’idea di avere un altro personaggio fuori dai contesti pubblici. Attraverso le mie canzoni ho sempre cercato di essere il più onesto possibile e spudorato, tentando di fare emergere le varie parti che mi compongono. In questo disco ho provato a rappresentare sia l’uomo che vorrei essere che l’uomo che sono. Questa cosa mi aiuta a comprendere meglio il mondo fuori, senza giudicarlo in modo manicheo».

Tu che animale ti definiresti? Pecora, maiale, lupo, cinghiale o hipster intellettualoide figlio della tv che si nutre di stereotipi?

«Penso ci sia tutto. La canzone “Sabato bestiale” potrei pensarla come un dialogo che faccio nel bagno di un locale, davanti allo specchio con me stesso. Sono sia il personaggio che mostra una disillusione totale e pensa solo a sé, sia la controparte che cerca di indirizzarlo verso la coscienza civile».

 

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Uno nessuno e centomila Brunori.

 

In una delle canzoni del disco, dai voce alla pittrice messicana Frida Kahlo; come ti sei ritrovato nei suoi panni?

«È stato un esperimento molto istintivo. “Diego ed io” è venuta fuori da una canzone che avevo scritto alla chitarra e che mi ricordava, a livello armonico, alcune ambientazioni sud americane. Mi piacciono inoltre le storie drammatiche e carnali e sono un appassionato di dissidi amorosi, forse perché io nella vita sono molto moderato e quindi sono attratto da chi vive la passione in maniera meno controllata».

In un mondo sempre più diviso tra noi e loro, pensi che le parole bastino ancora o si rischia di trasformarle in nascondigli dalla realtà?

«Se scrivo canzoni significa che credo nella possibilità della parola, ma ci credo nella misura in cui non venga investita di un ruolo maggiore di quello che ha. Il problema è che a volte ci rifugiamo nelle parole, mente l’ideale sarebbe avere un equilibrio. In questo disco mi sono sforzato di indossare i panni di chi rappresenta un mondo che è altro da me e tento di impersonare anche la parte scomoda. In questo meccanismo narrativo risiede la possibilità di raccontare gli eventi, creando delle suggestioni nell’ascoltatore».

Alle prossime parole, allora.

 

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in copertina: illustrazione su foto di Michele Piazza

il disco: A casa tutto bene, Picicca Dischi/Sony Music

Matteo Dalena
Matteo Dalena
Gennaio25/ 2017

Heinz Furst, o più semplicemente Enzo, austriaco entrato in Italia da Lubiana, è uno dei tanti piccoli ebrei internati nel campo di Ferramonti di Tarsia (in provincia di Cosenza). Il campo è il più grande tra i numerosi luoghi di internamento aperti dal regime fascista tra il giugno e il settembre 1940 e fu liberato dagli inglesi nel settembre del 1943; un luogo storico importante, tanto che oggi, per l’annuale “Concerto per il Giorno della Memoria” a Santa Cecilia in Roma si rievocheranno le musiche composte dai musicisti internati in questo campo. Enzo è uno dei piccoli ebrei finiti fra queste mura: ha solo dodici anni e una grande passione per la scrittura che lo porta – come appunta – seguendo l’impulso del mio cervello a raccontare in poche pagine di diario la quotidianità del campo come le sue impressioni mi sono rimaste impresse e le quali non dimenticherò per tutta la vita. La testimonianza, finora inedita, è custodita dalla Fondazione Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea nel fondo dell’ingegnere-benefattore Israel Kalk, «raccolta delle carte e dei materiali prodotti da Israel Kalk e dalla Mensa dei Bambini, associazione di assistenza ai piccoli profughi che lo stesso Kalk creò a Milano nel 1939 e che portò assistenza agli internati di Ferramonti», ha spiegato a Mmasciata.it la responsabile dell’archivio storico della Fondazione Cdec, Laura Brazzo.

apertura ferramonti

Nel mio lungo viaggio una domanda, accui non sapevo rispondere, non mi lasciava pace. Perché sono internato, perché sono internati già più di un migliaio di persone a Ferramonti? […] Devo dire che tutti coloro che sono qua internati hanno commesso la “grave colpa” di essere ebrei.

Non è certo un parco dei divertimenti quello in cui Enzo Furst mette piede nella prima volta insieme al padre Leo, alle 8.30 del 31 maggio 1941. Nonostante non siano previsti stermini sistematici, tra soprusi e pestaggi, scabbia, malaria e borsa nera, quella al di là del filo spinato di Ferramonti non è vita. Un ultimo sguardo alla foto di mamma Marta, nel frattempo internata a Vinchiaturo (Cambobasso), prima di metter piede in

“questo gruppo di baracche bianche, sorte per ospitare tra le loro pareti ebrei di tutti i paesi. Una terra solo prima palude che mai aveva udito una lingua non italiana ora una vera babele: jiddish, tedesco, polacco, cecoslovacco italiano e molte altre lingue […] Nessuno vivente in libertà, può immaginare nel vero senso della parola, ciò che significhi essere internato. Essere limitato in una certa area di terreno, chiuso da tutto il resto del mondo, da cui si riceve notizie solo per mezzo delle lettere e da pochi giornali […] Qua nel campo nelle baracche tutti sono uguali, tutti hanno qua solo una branda di legno e un sacco di paglia senza riguardi alla posizione sociale che occupavano in libertà. Indifferente se dottori, avvocati, maestri, sarti o calzolai, tutti uguali”.

Foto di bambini di Ferramonti di Tarsia (fondo Kalk – Cdec)

Nelle pagine del diario di Enzo Furst, tre luoghi – fontana, cucine e baracche – e azioni principali – lavarsi, mangiare, ritirarsi al coprifuoco – scandiscono al suono del fischietto per i diversi appelli, la giornata degli internati:

“La mattina la vita nel campo comincia alla fontana. La gente in fretta e furia si lava, sospinta da quelli che seguono e aspettano, per pure lavarsi o riempire le loro brocche, i loro catini od altro. Qui comincia per tutto il seguito della giornata le baruffe, che purtroppo fanno parte del programma giornaliero del campo. Per ragioni perfettamente inutili, non saprei, perché uno passa davanti all’altro o qualcosa di simile […] Verso le 10 coloro che si fanno da solo il mangiare cominciano ad affluire nello spazio dove c’è la vendita di frutta, verdura e di carne, quest’ultima due volte alla settimana. In tutti due posti c’è sempre una confusione grande e quelli che tra coloro aspettano hanno la maggior lingua, gomiti e facciatosta, come naturale sono i primi […] Le donne verso mezzogiorno si affannano intorno a stuffette mai viste, per preparare il pranzo aiutate dai loro mariti […] Alle 17 specialmente adesso il caldo è notevole che non si vede più una persona girarsi tra le baracche, che dico, neanche un cane […] Dopo la cena fino all’appello della sera che è alle 8.30 non succede nulla di notevole. Dopo di esso nessuno deve più circolare, che tra l’altro è molto spiacevole poichè appena verso quell’ora la temperatura diventa sopportabile”.

giochi di bambini tarsia
Giochi di bambini a Ferramonti di Tarsia (fondo Kalk – Cdec)

A Ferramonti i bambini profughi provenienti da mezza Europa vanno a scuola, frequentano i due templi e la biblioteca, luoghi puntualmente descritti da Enzo Furst. Contrariamente a quanto pensano gli internati appena giunti nel campo, nessuno di questi luoghi è opera della direzione.

“Devo qua aggiungere che la scuola che io frequentai con molti altri ragazzi, pochi giorni dopo che ero qua, è stata istituita dagli internati stessi con i loro scarsi mezzi contro mia aspettativa, poiché credevo fosse stata fondata dalla direzione del campo […] Gli addetti alla biblioteca come pure i maestri della scuola offrono i loro servizi per tutti e per una comune causa senza ricompensa alcuna”.

Dagli austeri ambienti di quell’abbozzo di istituzione scolastica provengono 33 “disegni in internamento” realizzati a matita colorata, carboncino o acquerello, raffiguranti motivi fiabeschi o leggendari, scenari campestri, ambienti urbani, ritratti di animali, scene di giochi e di sport, mappe geografiche, locomotori, aeroplani, scene belliche e ornamenti. Nel campo d’internamento di Ferramonti di Tarsia entrano anche alcuni personaggi di Walt Disney, la cui “industria della fantasia” dopo i successi di Topolino, Paperino e Biancaneve – è ferma al palo della guerra e dell’orrore.

La galleria dei loro disegni: 

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per approfondire:

Fondazione Centro di documentazione ebraica contemporanea

Fondo Israel Kalk

  • Disegni in internamento: busta 7, fascicolo 109
  • Impressioni di Enzo Furst: busta 7, fascicolo 104

Database Ebrei stranieri internati in Italia durante il periodo bellico

PLAN CONDOR | Desaparecidos, il giorno del giudizio

alfredo sprovieri
alfredo sprovieri
Gennaio16/ 2017

AGGIORNAMENTO (17 Gen.) | Otto condanne all’ergastolo, 19 assoluzioni e sei non luogo a procedere per morte degli imputati. E’ questa la decisione della III Corte di Assise di Roma presa a conclusione del processo sul cosiddetto piano Condor. I condannati all’ergastolo avevano cariche di rilievo nei rispettivi paesi d’appartenenza, fra gli assolti anche Jorge Troccoli, l’unico imputato residente in Italia.

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Verso le ore 17 del diciassette gennaio 2017 è il momento, singolare e per alcuni versi storico, in cui si attende la sentenza di primo grado del maxiprocesso al “plan Condor”, che mette in fila i crimini perpetrati dalle dittature dell’America Latina tra gli anni 70′ e 80′ del secolo scorso. Alla sbarra nell’aula bunker di Rebibbia, a Roma, saranno 34 gli imputati, interpreti a diversi livelli di un piano di coordinamento militare studiato sotto l’egida dei servizi segreti statunitensi per far sparire gli oppositori politici in quegli stati dove l’influenza socialista e comunista era ritenuta troppo ingombrante. I crimini per i quali il pubblico ministero Tiziana Cugini ha chiesto 27 condanne all’ergastolo e un’assoluzione sono il sequestro e l’omicidio di 42 giovani, tra cui 20 italiani, avvenuti in Cile, Argentina, Bolivia, Brasile e Uruguay tra il 1973 e il 1978.

Per gran parte di queste storie il corpo dei protagonisti non è mai stato trovato. Storia di desaparecidos, come Luis Stamponi, italo argentino originario di Ancona citato più volte nei diari del “Che” Ernesto Guevara. Il governo del dittatore Banzer lo catturò in Bolivia nel 1976 e dopo averlo torturato lo diede in consegna alla gendarmeria argentina. È a quel punto che la sua storia annega nel mistero, lo stesso che tocca alla sua coraggiosa madre, la 64enne Mafalda Corinaldesi, che nella prima notte di soggiorno all’Hotel Esmeralda di  Buenos Aires, con l’intenzione al mattino di recarsi dalle autorità locali, verrà prelevata da tre agenti della Polizia Federale e fatta sparire. Drammi di madri coraggio ricostruiti in decenni di audizioni, a volte con clamorosi colpi di scena. Come quello toccato alla signora René D’Elia Pallares, che per la dittatura perse le tracce di suo figlio e di sua nuora appena sposati, ma che nel processo ha trovato quelle del nipote, nato nel centro clandestino di tortura dove i suoi genitori furono uccisi e poi adottato da un ufficiale della Marina argentina.

Di questi crimini di lesa umanità sono accusati componenti delle più alte gerarchie dei regimi militari dell’epoca, e fra di loro ce n’è uno con passaporto italiano: si tratta di Jorge Troccoli, accusato del sequestro e dell’omicidio dei coniugi D’Elia Pallares e di altri 23 uruguaiani. L’ex tenente colonnello vive da molti anni nel Sud Italia, dopo aver scampato il processo al suo paese. Nel dibattimento iniziato due anni fa a Roma in seguito al rinvio a giudizio chiesto e ottenuto dal magistrato Giancarlo Capaldo, è accusato anche di aver recluso e torturato Aida Celia San Fernandez «applicandole la picana elettrica, anche mediante l’intrusione in vagina di un cucchiaio che le provocava il parto prematuro della figlia Maria de las Mercedes Carmen Gallo, nata nel corso della prigionia il 27 dicembre 1977».

Troccoli nelle sue rare apparizioni e tramite i suoi legali si è sempre detto innocente, dicendo di aver solo eseguito ordini in operazioni di interrogatorio che, è verità storica, sono noti per le crudeli torture. Dopo 40 anni , in Italia, nel paese in cui torturare non è reato, un giudice è finalmente chiamato a stabilire la verità.

Dante Prato
Dante Prato
Gennaio13/ 2017

Fot
(Fotoservizio di Dante Prato e Laura Danzi)

«Poche settimane fa ho provato ad attraversare il confine con l’Ungheria per arrivare in Germania, ma la polizia ci ha scoperti è ha cominciato a picchiarci. Con me c’erano anche bambini di dieci anni e la polizia ha picchiato anche loro». Nonostante ci sia un timido sole a illuminare il volto di Farid la temperatura di Belgrado, alle 14, è ben al di sotto dello zero. Questo ragazzo afghano di venti anni, stretto nel suo cappotto arancione, ci racconta una storia che non è più nuova. Non lo è alle nostre orecchie, non lo è a quelle di milioni di europei, ma che ancora una volta tutti quanti continuiamo ad ignorare.

Dietro la stazione ferroviaria della capitale serba, a meno di un chilometro dal centro storico, più di mille migranti hanno dato vita ad un nuovo insediamento informale. Un piazzale circondato da capannoni ed ex depositi, da diversi mesi, è diventato la nuova casa per migliaia di persone provenienti principalmente da Afghanistan, Pakistan, Siria e Kurdistan. Sono soprattutto giovani uomini, molti adolescenti, qualche bambino; tutti bloccati a Belgrado nel loro viaggio lungo la rotta balcanica. Proprio quella che l’Europa dice che non esiste più. Proprio quella che, a seguito degli accordi tra l’Unione europea e la Turchia, da marzo dovrebbe essere stata definitivamente sbarrata. In realtà, seppur i numeri siano leggermente diminuiti, la balkan route è tutt’altro che chiusa. Si sono aperte nuove strade, che nella maggior parte dei casi sono ancora più insicure e rischiose.

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«In Serbia – ci racconta Andrea Contenta, Humanitarian affairs officer di Medici senza frontiere – ci sono circa 8000 migranti. 6000 vivono in campi governativi che, a causa del sovraffollamento e delle scarse condizioni igieniche, non rappresentano certo un esempio di accoglienza dignitosa, mentre 1700 persone vivono a Belgrado».

C’è un cancello proprio dietro l’angolo della piazza della stazione, sembra un normale parcheggio con tanto di custode, ma dentro ci sono centinaia di persone già in fila ad attendere che Hot Food Idomeni, un’organizzazione autorganizzata che avevamo già incontrato al confine tra la Grecia e la Macedonia (leggi qui il reportage), arrivi a fornirgli un pasto caldo. Una zuppa e un pezzo di pane, quanto basta per non morire di fame, per cercare di riscaldare il corpo già provato dal freddo polare.

L’unico riparo sono i capannoni abbandonati che circondano il piazzale, un materasso lurido e una coperta. L’unica soluzione è accendere un fuoco, bruciare qualsiasi cosa possibile alla ricerca di un po’ di calore.

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«L’aria all’interno dei magazzini è irrespirabile – ci racconta Alì, un adolescente pakistano – , dormire tutte le notti così diventa davvero pericoloso per la salute. Ma la scelta tra il morire di freddo e rischiare un’intossicazione è facile».

Il numero di migranti assiderati nell’ultimo periodo è aumentato considerevolmente, qualsiasi fonte di calore è vitale. Negli ultimi giorni Medici senza frontiere, oltre che del lavoro sanitario si sta occupando anche di distribuire coperte. Il termometro di notte tocca meno venti. In queste condizioni anche lavarsi diventa proibitivo. L’unico modo è scaldare l’acqua sul fuoco e approfittare di ogni singola goccia, mentre quella che finisce a terra sull’asfalto gelato, alza nuvole di vapore spettacolari. «Sono circa quattro mesi che parliamo con il municipio, con il Ministero della salute e il governo per cercare di installare dei bagni e delle docce – aggiunge preoccupato Andrea –, ma ci hanno risposto che non era proprio il caso, mentre le persone continuano a vivere qui senza un bagno e senza acqua corrente». E continueranno a viverci, perché il confine con l’Ungheria è bloccato, mentre i migranti in Serbia continuano ad arrivare o a ritornare. «La Serbia rischia di diventare una nuova Calais all’interno dei Balcani – conclude il responsabile di Msf –, molte delle persone che sono qui erano già arrivate in Austria o in Germania, sono state poi trasferite in Bulgaria, a causa delle leggi di Dublino, e si ritrovano di nuovo qui. La Serbia rischia di diventare un grosso campo aperto, circondata dai confini dell’Europa, non gode dei benefici dell’Unione ma ne paga comunque le conseguenze».

Un cane che si morde la coda, mentre le persone continuano a morire. Mentre continuiamo a pagare la Turchia perché blocchi i migranti lungo il confine siriano, mentre stringiamo dispendiosi accordi commerciali con paesi come la Libia perché arginino i flussi, le persone continuano ad arrivare in maniera ancora più difficoltosa e sopponendosi a condizioni sempre peggiori. La linea politica europea in tema di gestione dei flussi migratori fatta di muri, fili spinati e esternalizzazione dei confini, non solo non sta funzionando, ma mostra tutta la sua disumanità.

THE SPEECH | Meryl Streep vuole bene al giornalismo

mmasciata
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Gennaio12/ 2017

Sarà ancora rimasta nei panni di uno dei suoi ruoli cinematografici più riusciti: quello del direttore di rivista nel Diavolo Veste Prada ispirato ad una delle giornaliste più temute e rispettate del secolo, tant’è che la grande attrice Meryl Streep ha di nuovo stupito tutti con un discorso “politico” declamato con grande verve alla cerimonia per la premiazione dei Golden Globe, un discorso che riflette sul ruolo civico del giornalismo nell’epoca della cosiddetta post-verità. Lo riproponiamo integralmente.

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di Meryl Streep

Grazie, Stampa estera, dovrò leggere perché ho perso la voce urlando questa sera e perso la testa in un momento dell’anno. Giusto per riprendere quel che ha detto Hugh Laurie: Voi (stampa estera) e tutti noi in questa sala apparteniamo ai segmenti più diffamati dalla società americana in questo momento. Pensate: Hollywood, gli stranieri e la stampa.

Ma chi siamo noi e che cosa è Hollywood? Siamo solo persone provenienti da altri luoghi. Sono nata e cresciuta e ho studiato nelle scuole pubbliche del New Jersey. Viola è nata nella cabina di un mezzadro in South Carolina ed è cresciuta a Central Falls, Rhode Island; Sarah Paulson è nata in Florida, allevata da una madre single a Brooklyn. Sarah Jessica Parker è una di sette o otto fratelli dell’Ohio. Amy Adams è nata a Vicenza, in Italia. E Natalie Portman è nata a Gerusalemme. Dove sono i loro certificati di nascita? E la bella Ruth Negga è nata ad Addis Abeba, in Etiopia, cresciuta a Londra – o forse in Irlanda ed è qui nominata per aver interpretato una ragazza proveniente da una piccola città della Virginia.

Ryan Gosling, come tutte le persone migliori, è canadese, e Dev Patel è nato in Kenya, cresciuto a Londra, e qui ha interpretato un indiano cresciuto in Tasmania. Hollywood è dunque infestata da stranieri e da gente che viene da fuori. E se li cacciassimo tutti a calci non ci rimarrebbe nulla da guardare se non il football e le arti marziali. Che non sono arti.

Mi hanno dato tre secondi per dire queste parole: il lavoro di un attore è quello di infilarsi nella vita delle persone diverse da noi, e far sentire come ci si sente. E nell’anno passato ci sono state molte, molte, molte prove di attore potenti in questo senso. Mozzafiato.

Ma ce n’è stata una quest’anno che mi ha stordito. Colpito al cuore. Non perché fosse particolarmente buona; non c’era niente di buono. Ma è stata efficace e ha fatto il suo dovere. Ha fatto ridere l’audience a cui era destinata. È stato il momento in cui la persona che chiedeva di sedersi sulla poltrona più rispettata nel nostro Paese ha imitato un giornalista disabile che superava per privilegi, potere e per capacità di reagire. Vedere quella scena mi ha spezzato il cuore e ancora non riesco a togliermela dalla testa. Perché non era un film. Era vita reale. E questo istinto di umiliare gli altri, quando è usato da qualcuno che ha una grande visibilità, da parte di qualcuno potente, si trasmette nella vita di tutti, perché dà un po’ il permesso agli altri di fare la stesse cose. La mancanza di rispetto incoraggia altra mancanza di rispetto, la violenza incita alla violenza. E quando i potenti usano la loro posizione di prevaricare gli altri tutti noi perdiamo. O.K., andare avanti con lui.

E questo mi porta alla stampa. Abbiamo bisogno di una stampa capace di esercitare il controllo sui potenti, e farli rispondere per ogni gesto oltraggioso. È per questo che i nostri fondatori hanno inserito la libertà di stampa ed espressione nella Costituzione. Quindi chiedo alla facoltosa Stampa estera e a tutti i presenti di unirsi a me nel sostenere il Comitato per la protezione dei giornalisti, perché ne avremo bisogno nell’immediato futuro, ne avremo bisogno per salvaguardare la verità.

Ancora una cosa: una volta me ne stavo sul set a lamentarmi per qualcosa – del tipo che stavamo lavorando troppo o all’ora di cena o qualcosa di simile – e Tommy Lee Jones mi disse: «Non è un già un enorme privilegio, Meryl, solo essere un attrice?». In effetti è proprio così, e dobbiamo ricordarci a vicenda il privilegio e la responsabilità di questo mestiere. Dovremmo essere tutti orgogliosi del lavoro di Hollywood che si onora qui stasera.

Come la mia amica, la Principessa Leia, mi ha detto una volta, prendete il vostro cuore spezzato, e fatene arte.

mmasciata
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Gennaio05/ 2017

di Salvatore Intrieri

Tutti gli esperti sembrano concordi: sta arrivando una colata gelida come non se ne vedevano in Italia dal 13-14 Gennaio 1968, con valori che scenderanno sotto lo zero anche nelle località di pianura ed in pieno giorno. C’è molta confusione in giro, molti siti hanno deciso di chiamarlo “Burian”, usando il termine spesso associato alle bufere di neve che in inverno investono buona parte dei territori della Russia europea e la Siberia, trasportate  dalla gelida manina ventosa che durante la stagione invernale spira sopra le sterminate lande siberiane e le steppe kazake verso gli Urali e le pianure Sarmatiche, ma probabilmente quello che sta per raggiungerci sarà qualcosa di diverso.

meteo-artico
La gelata artica ha già colpito da diversi giorni il Nord Europa, dando vita a scenari spettacolari.

Come detto, il Burian infatti parte direttamente dalle steppe russe, mentre la perturbazione che guarda all’Italia è artico-continentalee nasce da latitudini ancora più settentrionali. Comunque sia, quello che è certo è che sta per raggiungerci: nelle prossime ore il nostro paese sarà colpito duramente dal freddo, con neve abbondante addirittura sulle coste della bassa Calabria e della Sicilia tirrenica. Attenzione, stavolta non si tratterà del singolo ed isolato episodio freddo, come è avvenuto nella sfuriata molto fredda di fine 2016, ma bensì di una severa quanto rara colata artico-continentale che, da nord, nord-est si dirigerà verso l’Italia a partire dalla metà giornata di giovedì 5 Gennaio. I dati in mano agli esperti dicono che durerà fino a martedì 10 e che i settori più colpiti saranno il medio e basso versante adriatico ed il meridione in genere, con le temperature che scenderanno davvero drasticamente, fino ad addirittura 15°c sotto le medie del periodo. Ci si aspettano termiche di ben -15°c infatti a 850hpa (1400m. circa. s.l.m.) tra l’Abruzzo e la Puglia, ed una -14°c a 850hpa si spingerà addirittura fino alla Calabria centrale.

LA NEVE | Ovviamente, oltre al forte gelo, cadrà anche tanta neve; si imbiancheranno città dove  la coltre bianca è solitamente un fenomeno eccezionale, infatti, nelle giornate di Venerdì 6 e Sabato 7, e c’è possibilità che nevichi fin sulle coste della Sicilia tirrenica, della Puglia, ed addirittura nello Stretto. Le homepage dei siti più importanti si apriranno con foto di Napoli imbiancata? Non è da escludere che qualche fiocco cada anche ai piedi del Vesuvio, ma a tal punto è molto probabile vedere neve con accumulo al suolo a Palermo, Messina e Reggio Calabria, e sicuramente saranno abbondanti i centimetri anche nelle località di mare abruzzesi e della costa adriatica in genere, come ad  esempio a Pescara, esposta bene alle correnti da nord, nord-est. La Calabria vivrà una situazione particolare; nel centro-settentrionale sono invece previste minori precipitazioni, difatti non dovrebbe nevicare né a Cosenza e né a Catanzaro (a causa del Pollino e della Sila che riparano la città dai venti da nord), con qualche eventuale fioccata nella città dei lupi solo tra il tardo pomeriggio e la serata di giovedì. Sarà comunque acuto il gelo; sono perfino attese punte minime di -8, -9°c a Cosenza al primo mattino di Sabato e -18°c sulle vette silane. Possibili spruzzate invece a Crotone e Vibo, dove non si esclude un minimo di innevamento anche al suolo. Fiocchi moderati anche su Sila Orientale e versante est del Pollino, dove, anche qui, avremo tanto ghiaccio e venti intensi di tramontana.

DISAGI E ALLERTE | Dunque, saranno sei giorni d’altri tempi, che faranno battere i denti anche per i tanti disagi. Per fronteggiare la situazione, ampiamente prevista dagli esperti, Autostrade per l’Italia ha fatto sapere di aver già avviato tutte le attività preventive previste dal ‘Piano Neve’, con oltre 600 mezzi operativi antineve coinvolti sul territorio interessato, 1.500 operatori e 60.000 tonnellate di fondenti stradali. Agli automobilisti d’ogni sorta viene ovviamente raccomandata prudenza e di informarsi prima della partenza, evitando se possibile il viaggio sulle tratte e nei periodi interessati dalle nevicate più intense. Ai camionisti, vista la probabile attivazione dei provvedimenti di fermo e divieto temporaneo della circolazione per i veicoli pesanti, si consiglia di evitare il transito sulla 14 adriatica e sulla A16 Napoli-Canosa nel periodo interessato dalle nevicate.

Saremo pronti ad affrontare tutto questo? Il Dipartimento della Protezione Civile, d’intesa con le Regioni coinvolte – alle quali spetta l’attivazione dei sistemi di protezione civile nei territori interessati –, ha emesso un avviso di condizioni meteorologiche avverse che dovrebbe mettere tutti sul chivalà. I fenomeni meteo, fa sapere la Prociv, impattando sulle diverse aree del Paese, potrebbero infatti determinare delle criticità idrogeologiche e idrauliche che sono riportate, in una sintesi nazionale, nel bollettino di criticità consultabile sul sito del Dipartimento (www.protezionecivile.gov.it).

Matteo Dalena
Matteo Dalena
Dicembre24/ 2016

Ponte San Giovanni (Perugia) – «E’ come se ci avessero rapito, la normalità non può più esistere». Diego, poliziotto sfollato, al Natale non ci pensa nemmeno: «A Norcia è ancora tutto fermo, cominciano ad arrivare i primi moduli abitativi collettivi, ma nel frattempo la gente si organizza con roulotte e container perché non può aspettare lo Stato».  Da Cascia invece arriva Miran, il nonno è il suo eroe più grande da quando, facendogli scudo col corpo, l’ha protetto dalla caduta di un armadio. Insieme ad Alessia e Francesca, allestiscono l’albero di Natale nell’alberghetto ai piedi di Perugia che li ospita. Walter Cardinali è il gestore di questa struttura, si dimostra fiero di dare una mano: «Si tratta di ricreare condizioni di dignità e familiarità per una quarantina di persone che, pur avendo perso tutto, trovano la forza di dirti che è stato proprio il terremoto a farci conoscere».

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La statua del Santo sembra indicare l’orario in cui la cattedrale di Norcia è crollata.

Dislocati in 4 strutture alberghiere dei dintorni perugini, sono circa 160 gli sfollati che trascorreranno il Natale in una delle hall di questi posti; gli spostamenti e i tentativi di riavvicinamento a casa sono all’ordine del giorno e non è facile stargli appresso: cerca il contatto con ciascuno di loro Giulia Gamboni, medico dell’Usl inviato ad orario e su chiamata nei vari hotel per garantire la continuità assistenziale: «Facciamo le veci di quelli che erano i loro medici di famiglia. Riscontriamo soprattutto problematiche di natura fisica acutizzate dallo stress, disturbi del sonno, fatica ad avere uno stile di vita normale». Assicurare soprattutto agli anziani una continuità nelle cure e nelle terapie in atto e bruscamente interrotte a causa del sisma, non è facile: «In molti casi la documentazione è rimasta nelle case e andata perduta, dunque non è difficile ricostruire le singole storie», spiega la dottoressa. Il pensiero di ciò che si è lasciato è costante. L’attesa di notizie dal Centro operativo avanzato della Protezione Civile sulle verifiche di agibilità dei singoli edifici sospende decine di nuclei famigliari in una sorta di limbo. In attesa del 7 gennaio, data indicata come probabile dalla ProCiv umbra per il rientro di alcuni nuclei familiari nelle abitazioni classificate in fascia A, con il Natale alle porte tutto si acuisce.

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Una delle abitazioni del centro di Norcia dove la quotidianità è stata spezzata per sempre.

Pietro stringe forte la mano di Antonietta, una vita assieme. La loro abitazione nel centro di Norcia è stata classificata di “fascia C”, dunque solo parzialmente agibile. La nuova “casa” è una matrimoniale di 16 metri quadri, tirata a lucido dalla coriacea donna ogni mattina nonostante le precarie condizioni di salute: «Tanto per non perdere le buone abitudini». Consumata tutti assieme, la colazione è occasione per aggiornarsi sullo stato dei paesi: «Se a Norcia ci salutavamo appena e correvamo via, adesso abbiamo fatto gruppo», racconta Roberto, costretto ad abbandonare quasi di forza l’antico casale di famiglia.

C’è chi passeggia, chi gioca a carte, chi va al supermercato, chi aiuta a sfoltire le siepi in giardino. Tanto per sentirsi utili e parte di un tutto. Il registro degli ospiti raccoglie tracce di speranza e, insieme, gratitudine:

«Torniamo a casa lunedì, siamo rimasti per due settimane causa terremoto, ci siamo trovati benissimo e tutto questo ci mancherà. Grazie».

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alfredo sprovieri
alfredo sprovieri
Dicembre19/ 2016

Dai rifiuti posson nascere anche le scuole. Francesco Fassina è un giovane ricercatore nato a Genova. A Siena si è laureato in Archeologia, ed era in Svezia a studiare Ecologia umana quando ha deciso di scrivere alla “Tagma”, l’organizzazione no profit che a Jaureguiberry, sulla costiera uruguaiana, ha realizzato la prima Escuela Sustentable.

Una scuola unica al mondo, costruita utilizzando pneumatici, bottiglie di vetro e di plastica, cartone e lattine, ma soprattutto impastando esperienze da tutto il mondo in un progetto educativo e culturale unico nel suo genere. Una struttura pubblica perfettamente sicura, nata per decisione del governo uruguayano (che ha messo il 10% dei fondi, il resto viene da finanziatori privati come la Nevex, che potrà detrarlo dalle tasse dovute allo Stato che con questo sistema favorisce la partecipazione privata nei progetti pubblici) in una zona economicamente depressa e fino a quel momento povera di beni comuni. Un’utopia di quelle che nell’era del presidente povero Pepe Mujica possono diventare realtà. L’escuela sfrutta le risorse rinnovabili per auto sostenersi, raccoglie le acque piovane, i raggi del sole e ricicla i rifiuti. E’ una creatura che respira, e i bambini sono coinvolti in tutto e per tutto nel suo ciclo di vita.

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L’altro giorno è successa una cosa incredibile”, racconta via Skype Francesco, a oggi è l’unico membro non uruguaiano dell’organizzazione. “I bambini nel giorno aperto alle visite ci hanno sostituito nello spiegare ai visitatori come funziona la scuola. Sono arrivati da casa con dei sacchetti pieni di bottiglie di plastica, di semi e di rifiuti organici dicendoci che erano per l’istituto”. Francesco si occupa di educazione per la Tagma, fra poco tornerà a casa per passare le feste natalizie in Italia, il progetto è arrivato ad una prima fase di autosufficienza ed è naturale tempo di bilanci. “Sentono ormai loro questa scuola, e quello che stanno imparando in classe lo portano a casa, rendendo le famiglie e quindi la comunità partecipe della vita dell’istituto. Fra l’altro le mamme e le maestre ci dicono che ormai non fanno più i capricci quando c’è da mangiare frutta e verdura: seguendo le varie fasi della vita delle piante i bambini sentono molto più vicini i prodotti della terra. Sono risultati che in così pochi mesi non ci aspettavamo”.

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Chiamarle aule potrebbe però non rendere l’idea; gli ambienti della scuola sono dei veri e propri orti giardini, dove le materie che si studiano in tutte le altre scuole del paese diventano pratica. Negli orari extrascolastici la comunità organizza anche corsi di yoga, cine-proiezioni e tante altre attività, finanziate da feste di quartiere e collette. Chiunque abbia a che fare con la struttura partecipa al processo di vita dell’istituto che avviene seguendo i sei principi ecologici fondamentali. L’edificio è di 270 metri quadrati e si apre a nord, massimizzando la luce e l’energia solare attraverso un corridoio vetrata che funge da collegamento fra le tre classi di età mista, secondo quello che è il cosiddetto “modello rurale” in Uruguay: una è quella dell’asilo con i bambini dai tre ai cinque anni, un’altra classe con prima seconda e terza elementare e l’ultima che arriva fino alla sesta elementare. La facciata è dominata dal vetro e dal legno e il corridoio consente la produzione di cibo attraverso un giardino interno. La generazione di energia elettrica proviene da pannelli fotovoltaici e immagazzinata in un banco di batterie. A sud, est, e ovest, l’edificio è chiuso con un terrapieno, un muro di contenimento che sfrutta le proprietà termiche della terra. Questa strategia, ci spiega l’educatore italiano, permette l’equilibrio termico dell’edificio durante tutto l’anno, provocando attraverso condotti di ventilazione la circolazione trasversale di aria fresca in estate. In inverno invece accumula il calore causato dall’effetto serra del corridoio settentrionale e riscalda la scuola; e la temperatura della scuola è intorno ai 20 gradi tutto l’anno, a dispetto delle condizioni atmosferiche esterne.

Attualmente”, riflette Fassina, “la scuola produce più energia di quanto consuma e l’idea futura è di far sì che questo surplus possa essere immesso nella rete della comunità e permettere anche un sostentamento economico dell’istituto”. Oltre ad essere autonomi nel loro consumo di energia e promuovere la produzione di alimenti biologici all’interno, nella scuola sostenibile utilizzano l’acqua piovana per bere, lavarsi le mani, irrigare i giardini e riempire i serbatoi, con un processo di depurazione delle acque nere realizzato anche esso con materiali di recupero.

Tutto iniziò nel 2011, quando Martin Esposito, coordinatore generale del progetto, vide il documentario “Garbage Warrior” sulla vita del visionario architetto americano Michael Reynolds. Sotto la sua bislacca egida hanno partecipato alla costruzione della scuola circa 200 persone, volontari e studenti provenienti da Uruguay e altri trenta paesi e durante i lavori in parallelo è stata animata un’accademia dove l’organizzazione guidata da Reynolds ha potuto addestrare 100 studenti provenienti da cinque continenti per sviluppare l’approccio costruttivo definito “Earthship”. L’idea è quella di vedere queste “navi della terra” attraccare presto in altri posti dell’Uruguay e dell’America Latina, e il sogno di Francesco è poterla vedere un giorno anche nel suo paese, l’Italia.

Dove intanto la notizia è che nelle scuole costruite con i rifiuti industriali si è tornato a far lezione. Ci sono voluti cinque anni perché la Cassazione ponesse la parola fine al processo scaturito dall’inchiesta “Black Mountain”, prosciogliendo 45 persone dall’accusa di disastro ambientale e dando quindi ragione alle perizie che, contrariamente alle ipotesi della procura, sostengono la “non pericolosità” del conglomerato idraulico catalizzato (Cic), il materiale ricavato dagli scarti industriali dall’Ilva di Taranto e dalla Pertusola di Crotone, utilizzato per la costruzione di ben 18 scuole nel Sud Italia. Mentre milioni di soldi pubblici a queste latitudini sono sfumati in anni di inchieste, varianti e colate di cemento armato, protocolli sanitari campionamenti e bonifiche, in Uruguay in sole sette settimane e con soli 300mila dollari dimostravano che un altro mondo è davvero possibile.

il servizio completo è online su Dire.it

Salvatore Tancovi
Dicembre16/ 2016

La notizia ha oscurato tutto il resto, Raffaele Marra, per molti il “sindaco ombra” della Capitale mentre per il vero sindaco “solo uno dei 23mila dipendenti comunale”, è stato arrestato dai carabinieri del Nucleo investigativo del comando provinciale di Roma con l’accusa di corruzione. Secondo il giudice per le indagini preliminari sussiste “un concreto ed attuale pericolo di reiterazione di condotte delittuose analoghe a quelle già accertate e ciò anche in considerazione del ruolo attualmente svolto da Marra all’interno del comune, della indubbia fiducia di cui gode il sindaco Virginia Raggi”.

Raffaele Marra, capo del personale del Comune di Roma, è da tempo nell'occhio del ciclone per i suoi r
Raffaele Marra, capo del personale del Comune di Roma, è da tempo nell’occhio del ciclone per i suoi rapporti con imprenditori finiti in “Mafia Capitale”.

La tegola in pochi giorni si somma ad’altra; nonostante gli scongiuri infatti, il tanto temuto avviso di garanzia ha bussato alla porta di Paola Muraro, ormai ex assessore all’ambiente del comune di Roma. A nulla sono serviti l’impegno e la tenacia con le quali ad agosto Virginia Raggi e tutto il Movimento Cinque Stelle hanno perseverato sull’investitura della Muraro, nonostante fosse coinvolta in un’indagine, nonostante la pioggia di critiche: tutto si è sciolto di fronte a 5 capi d’imputazione, tutti per reati ambientali. Di fronte a questo anche la sindaca pentastellata ha dovuto capitolare.

Una parentesi breve che però arriva dall’onda lunga mafia capitale e delle sue amicizie, e che lascia per l’ennesima volta vuoto uno scranno della giunta romana. E proprio a quel tempo, durante la scelta degli assessori del comune di Roma, comincia la tragicommedia in più atti della nettezza urbana capitolina.

1. AMA la tua città

Era la fine di luglio quando i giornali cominciarono a parlare di Paola Muraro, passata da consulente di AMA, azienda addetta allo smaltimento dei rifiuti in città, ad essere la responsabile del dicastero ambientale. La procura di Roma aveva cominciato un’indagine su alcuni impianti per la gestione dei rifiuti. Alla domanda dei giornalisti: “Ass. Muraro, lei sapeva di essere indagata?” la risposta fu “No”. Il problema è che l’avviso di garanzia (quello del 12/12, per intenderci) non era ancora stato recato al destinatario, ergo la severa morale 5 stelle fu bypassata, anche se tra mille critiche e difficoltà.

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Il sindaco di Roma Virginia Raggi nel suo studio, la giovane esponente del M5s ha chiesto scusa per essersi fidata di personaggi legati a “Mafia Capitale”.

In questo prologo alla tragicommedia ecco il primo colpo di scena: la mail di Paola Taverna a Luigi Di Maio. “Caro Luigi […] ci pervengono notizie circa l’imminente notifica di un avviso di garanzia all’assessore in questione per un’ipotesi di reato […] per il trattamento dei rifiuti”. Di Maio rispose che non sapeva, poiché “aveva sbagliato a leggere la mail”. Applausi, chiuso il sipario.

A questo punto entra in scena l’opinione pubblica, divisa tra chi i rifiuti li ha visti moltiplicare e chi li ha visti scomparire, tutto nel giro di due mesi. #CassonettiPuliti, gridano al miracolo i fedeli alla sindaca, #Monnezzopoli, tifano i detrattori dell’assessora indagata. Starci in mezzo è dura, e decidere chi abbia ragione e chi torto è questione assai difficile, visto che il dissesto della partecipata “AMA” è questione spinosa da molto prima che la giunta pentastellata s’insediasse in Campidoglio, ma il popolo ha sempre ragione, anche se si divide e afferma di ogni cosa l’opposto.

 

2. La notte dei frigo viventi

Come in una fiaba d’altri tempi, anche la storia della nettezza urbana romana ha la sua componente magica: frigoriferi che la notte si animano e passeggiano per la città. È il 25 ottobre quando Virginia Raggi prende una pausa dal suo risanamento degli affari cittadini per rilasciare un’intervista a Repubblica, un’intervista in cui affermerà di non aver mai visto tanti rifiuti ingombranti per strada, un fatto per lei assai sospetto. La Raggi dimenticava che da luglio 2016 il servizio di raccolta dei rifiuti pesanti, previa prenotazione del servizio (gratuito), è stato sospeso dall’Ama, e che per qualsiasi cittadino la soluzione più semplice (ahinoi anche la più incivile) è quella di depositare il frigo rotto alla pattumiera più vicina invece che spostarlo a braccio fino alla più vicina isola ecologica. Insomma, il ragionamento è becero ma fila, ma in questi tempi incerti la pratica del complotto è più frequente di quella della logica.

 

Il #frigogate porge di nuovo il fianco alla comicità latente di questa storia, ma dimostra anche che la situazione rifiuti è ancora fuori dal controllo della coppia Raggi-Muraro. Serve un colpo di coda, presto detto: ecco che alla sera vengono avvistati dei supereroi aggirarsi per le vie di Tor Pignattara con l’ardua missione di ripulire la città. Sono le 23 e 30 quando la signora Maria scende a buttare la spazzatura e a stento strozza le grida quando vede due figure avvicinarsi dicendo: “Che cosa sta buttando?”. Sono Virginia Raggi e Paola Muraro che hanno scelto le prime sere di dicembre per cominciare quello che prontamente sarà battezzato lo #spazzatour, in linea con la tradizione grillina di rendere ogni percorso che superi le due tappe un “tour”.

Sindaca e assessora ci mettono la faccia, e anche naso e mani. Ormai la loro fama è internazionale tanto che il The Guardian in un articolo sul Movimento cita anche i magici frigoriferi. Un problema però è alle porte, uno che metterà fine a questa storia che tanto altro avrebbe potuto raccontarci, e che forse ancora ci racconterà, ma senza la Muraro. Il problema infatti è l’avviso di garanzia che, secondo il regolamento penstellato, mette fine al suo assessorato. Dimissioni, e via alla ricerca di un sostituto. Il palcoscenico però si chiude con un’ultima scena, ricca di semantica e simbolismo: Virginia Raggi al centro di questa sala riunioni in Campidoglio, alle sue spalle un tavolo intorno al quale c’è tutta la sua maggioranza. Come in Kubrick, la fotografia ha un punto di fuga centrale, posizionato tra le ciglia nere della Raggi, poco sotto la fronte aggrottata mentre pronuncia le parole “Ho accettato le dimissioni di Paola Muraro, ho assunto le deleghe per la sostenibilità ambientale. Ritengo importante dare continuità all’azione amministrativa per il risanamento di Ama”.

E anche se il pubblico resta attonito e senza più un applauso, il drappo rosso cade sull’ennesimo atto della nettezza urbana romana. Il prossimo non tarderà ad arrivare.

 

(continua, purtroppo)

mmasciata
mmasciata
Dicembre14/ 2016

Caro Mark Zuckerberg,

ti seguo su Facebook, ma tu non mi conosci. Sono redattore capo del quotidiano norvegese Aftenposten. Per essere onesti, non mi illudo che leggerai questa lettera. Il motivo per cui devo fare questo tentativo, però, è che sono sconvolto, deluso – beh, in realtà anche impaurito – di ciò che si sta facendo ad un pilastro della nostra società democratica.

Poche settimane fa l’autore norvegese Tom Egeland ha postato un articolo su Facebook con sette fotografie che hanno cambiato la storia della guerra. Facebook ha rimosso l’immagine di una bambina nuda in fuga dalle bombe al napalm – una delle fotografie di guerra più famose del mondo. Tom ha criticato questa decisione e Facebook ha reagito bloccandolo e impedendogli di scrivere un altro post.
Ascolta, Mark, questo è grave. In primo luogo si creano regole che non distinguono tra la pornografia infantile e famose fotografie di guerra. Poi si mette in pratica queste regole senza permettere spazio al buon senso. Infine si censurano le critiche e una discussione in merito alla decisione – punendo la persona che osa esprimere critiche.

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La prima pagina dell’Aftenpoften dedicata a Facebook

 

Facebook è per il piacere e beneficio di tutto il mondo, me compreso, su una serie di livelli. Io stesso, per esempio, rimango in contatto con i miei fratelli attraverso un gruppo chiuso centrato su nostro padre, che ha 89 anni. Giorno dopo giorno condividiamo le gioie e le preoccupazioni.
Facebook è diventato una piattaforma leader mondiale per la diffusione di informazioni, per il dibattito e per le relazioni sociali tra le persone. Hai guadagnato questa posizione perché te lo meriti.

Ma, caro Mark, tu oggi sei l’editore più potente del mondo.

Anche per un giornale importante come Aftenposten, Facebook è difficile da evitare. In realtà non abbiamo voglia di evitarlo, perché ci sta offrendo un grande canale per distribuire i nostri contenuti. Tuttavia, anche se sono redattore capo del più grande giornale della Norvegia, devo capire che si sta limitando la mia responsabilità editoriale. Questo è ciò che voi ed i vostri collaboratori state facendo in questo caso. Penso che stiate abusando del vostro potere, e trovo difficile credere che ci avete pensato in modo accurato.

Torniamo alla foto che ho citato. La napalm-girl è di gran lunga la fotografia più iconica della guerra del Vietnam. I media hanno giocato un ruolo decisivo nel riportare storie diverse sulla guerra. Hanno portato un cambiamento di atteggiamento che ha svolto un ruolo nel porre fine alla guerra. Essi hanno contribuito ad un dibattito più critico più aperto. Così deve funzionare una democrazia.
I mezzi di comunicazione liberi e indipendenti hanno un compito importante nel portare le informazioni, anche comprese le immagini, che a volte possono essere sgradevoli, e che la classe dirigente e forse anche i cittadini comuni non possono sopportare di vedere o sentire, ma che potrebbe essere importante proprio per questo motivo.

«Se la libertà significa qualcosa», scrisse il britannico George Orwell nella prefazione a “La fattoria degli animali”, «significa il diritto di dire alla gente ciò che non vuole sentire».

I media hanno la responsabilità di prendere in considerazione la pubblicazione in ogni singolo caso. Questa può essere una pesante responsabilità. Ogni editore deve pesare i pro e i contro. Questo diritto e dovere, che tutti gli editor del mondo hanno, non dovrebbe essere minata da algoritmi di codifica nel vostro ufficio in California.

Mark, ti prego di provare a immaginare una nuova guerra in cui i bambini saranno le vittime di bombe a botte di gas nervino. Volete ancora una volta oscurare la documentazione della crudeltà solo perché una piccola minoranza potrebbe eventualmente essere offeso da immagini di bambini nudi, o perché una persona pedofilo da qualche parte potrebbe vedere l’immagine come pornografia?
La mission di Facebook afferma che il vostro obiettivo è quello di “rendere il mondo più aperto e connesso”. In realtà ciò si sta facendo in un senso del tutto superficiale.
Se non vuoi distinguere tra la pornografia infantile e fotografie documentarie da una guerra, il tutto sarà semplicemente promuovere la stupidità, senza riuscire a portare gli esseri umani più vicini gli uni agli altri.

Pretendere che è possibile creare regole globali comuni per quello che può e ciò che non può essere pubblicato, getta solo polvere negli occhi della gente. Facebook è un bel canale per le persone che desiderano condividere video musicali, cene di famiglia e altre esperienze. Su questo piano si sta portando la gente più vicini gli uni agli altri. Ma se si desidera aumentare la reale comprensione tra gli esseri umani, devi offrire maggiore libertà al fine di soddisfare l’intera larghezza delle espressioni culturali e discutere le questioni sostanziali.

E poi si deve essere più accessibile. Oggi, se è possibile a tutti di entrare in contatto con un rappresentante di Facebook, il meglio che si può sperare di ottenere in breve sono risposte formalistiche, con riferimenti alle rigide regole e linee guida universali. Se ci si prende la libertà di sfidare le regole di Facebook – come abbiamo visto – si verrà puniti con la censura. E se qualcuno protesterà contro la censura, sarà punito con l’esclusione, come è stato per Tom Egeland.
Avrei potuto continuare, Mark, ma mi devo fermare a questo punto. Ho scritto questa lettera perché sono preoccupato che il mezzo di comunicazione più importante del mondo sia limitante per la libertà mentre dice di cercare di estenderla, e che questo accade di tanto in tanto in modo autoritario. Ma sto anche scrivendo – e spero si capisca – perché ho un atteggiamento positivo verso le possibilità che Facebook ha aperto. Spero solo che si utilizzino tutte queste possibilità in un modo migliore.

Cordiali saluti,

Espen Egil Hansen
Editor-in-chief e CEO Aftenposten

 

PS. Allego un commento del fumettista 73enne Inge Grødum di Aftenposten alla censura praticata da Facebook. Che dice l’algoritmo? Così potrebbe andare?

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Francesco Veltri
Francesco Veltri
Dicembre07/ 2016

Pietro e Marco hanno appena finito di cenare. Hanno divorato in dieci minuti la pizza al salame, ai capperi e alle acciughe preparata con cura da mamma Veronica. «Già scappate, ma che partita sarà mai?». «È la finale mà, quante volte te lo devo dire?». «E certo, ogni sera finali ci sono qui, e io rimango sempre a casa!».

Le postazioni in soggiorno sono quelle di sempre, anche se i mobili sono stati spostati accuratamente perché il periodo è quello che è, e bisogna adeguarsi. «Chi gioca avanti?», chiede Pietro a suo figlio. «Papà, te l’ho detto prima, Balotelli e Berardi». «Allora perdiamo».

Mancano dieci minuti al calcio d’inizio e l’aria si fa calda anche se fuori piove e ci sono due gradi. Se continua così stanotte nevica e domani niente scuola. Ma chi ci va più a scuola il 19 dicembre?

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Lo stadio della finale dei Mondiali in Qatar

Pietro guarda la tv e borbotta qualcosa di incomprensibile contro Maurizio Sarri. Non gli è mai piaciuto quel toscanaccio comunista, eppure è riuscito a portare in finale quella che tutti gli opinionisti del pallone definivano una banda. Chi l’avrebbe mai detto? E poi dove vuoi arrivare con quella coppia d’attacco, un calabrese strafottente e discontinuo e un bresciano viziato e per giunta dalla pelle nera, che se avesse pensato a fare solo il calciatore avrebbe potuto mangiarsi il mondo o giù di lì. Ma adesso conta un altro mondo, diverso dal solito, fuori luogo e stagione, ma pur sempre rotondo come un pallone.

Le squadre sono in campo e partono gli inni. «Marco, per favore spegni le luci dell’albero che mi accecano». Luci spente, sguardi concentrati e Goffredo Mameli che si rivolta nella tomba per l’ennesimo evento sportivo del secolo. Pogba prega qualche secondo alzando le mani e chinando la testa. Con quella fascia sul braccio sembra più alto del solito. Appena parte la gara corre subito da una parte all’altra come se fosse una gazzella, e ogni volta che supera il centrocampo, Romagnoli e Rugani faticano maledettamente a contenere la sua furia elegante e potente. Fino al minuto numero 18, quando Varane con un lancio di 30 metri, trova sulla sinistra l’inserimento rapidissimo di Paul che entra in area palla al piede e quasi giunto davanti ad Alfred Gomis viene spinto appena da Romagnoli. Per l’arbitro è rigore. Protestano tutti, persino Verratti che in mezzo a quei giganti quasi non si vede. Sarri non si scompone più di tanto ma il suo ghigno beffardo ripreso dalla telecamera fissa sulla panchina parla da solo.

18′ pt: RIGORE

«Non era rigore», urla Marco contro lo schermo, «si è lasciato cadere!». Dal dischetto va lo stesso Pogba, guarda negli occhi il suo fratello africano e dopo pochi secondi lo beffa con un tiro preciso che va a sbattere contro il palo alla sua destra prima di finire in rete. Poi l’esultanza, la corsa e l’abbraccio con Zidane. Il punteggio è cambiato e Balotelli ha già preso un giallo per proteste e una moltitudine di insulti da quelli che per un giorno sono stati costretti a travestirsi da suoi tifosi. «Deve levarlo subito e mettere Bernardeschi o Insigne – dice senza convinzione Pietro – altrimenti restiamo in dieci… (pausa con sospiro) anzi, in dieci ci siamo già, così non segniamo mai!». Gomis sbaglia un’uscita apparentemente semplice e per fortuna non ci sono avversari nei paraggi. Ma basta a far tornare in mente con rammarico l’infortunio alla spalla di Donnarumma agli ottavi di finale, che ha concesso inaspettatamente una chance irripetibile al ragazzone senegalese. Fuori ha smesso di piovere mentre a Lusail sembra che si stia giocando il Trofeo Tim. Ma non c’è spazio per l’attesa, per la speranza in un futuro migliore e per il perdono. È una partita che non ammette errori e pause di riflessione. O si vince o poi arriva capodanno e chi ci penserà più a questa strana serata d’inverno?

«Perché avete spento le luci dell’albero?». «Mà, non è il momento, le accendo dopo». Baselli sfonda sulla destra e crossa al centro, dall’altra parte, però, c’è una difesa che sembra di ferro. Ora i mediani spingono con più cattiveria ma manca incisività sotto porta. Riappare mamma Veronica, con un vassoio di turdilli [1] in mano. Li poggia sul tavolino accanto all’albero buio, e ordina: «O lo accendete o vi spengo la tv!». Pietro la fissa a mo di sfida coniugale, ma abbassa subito lo sguardo e si mette in bocca un turdillo. Poi si china verso la presa e riaccende le luci dell’abete artificiale. Manca un minuto alla fine del tempo e Verratti batte un calcio d’angolo: palla in mezzo all’aria, svetta Rugani che di testa trafigge Lloris. Pietro e Marco si alzano in piedi e si abbracciano ruggendo un gooool liberatorio. Poi si siedono e contemporaneamente si voltano a guardare con perplessità quell’albero magico che ora fa brillare la stanza di una luce che sa di pace e non dà più fastidio a nessuno. «Non gridate che qui non sento niente!», urla la saggia Veronica dalla cucina. Ma intanto il primo tempo è finito e «tra poco nevica papà!», sentenzia Marco osservando dalla finestra la strada deserta sotto i suoi occhi. Nell’intervallo i cronisti Rai leggono un serie di tweet del ministro dell’Interno Matteo Salvini che se la prende con Berardi, Balotelli e Gomis, terminando i suoi commenti tecnici con un perentorio “i peggiori in campo, mi fanno vergognare di essere italiano”. Mentre inizia la ripresa il vassoio è quasi vuoto e c’è voglia di torroncini, cioccolate e qualsiasi cosa utile ad uccidere la tensione. Sarri, come Zidane, conferma l’undici iniziale e Pietro continua a gettargli addosso i pensieri più disordinati che ha in testa. Ma dopo la parentesi Salvini, lo fa con meno enfasi. Pogba riparte alla grande come nel primo tempo. Fa partire un siluro terra aria da venti metri, ma Gomis è attento e respinge con una mano. Poco dopo Martial in diagonale centra il palo e si dispera. Poi succede l’impensabile. Calabria tocca con un braccio in area. Sembra averlo fatto involontariamente, ma l’arbitro indica ancora il dischetto. La rabbia travolge Sarri e i suoi ragazzi, Rugani fatica a mantenere a debita distanza da ogni essere umano Balotelli, e Verratti sembra essersi dissolto nel nulla. Il duello si ripresenta: Pogba contro Gomis. La rincorsa non cambia: passo breve, interrotto a metà. Poi il tiro, nello stesso angolo di prima, e stavolta Alfred allunga la manona e salva il risultato.

 

42’st: NEVICA

L’urlo di Marco è sofferto e rauco, mentre Pietro alza solo le braccia verso il soffitto senza dire una parola. Ora si soffre e si respira solo quando è necessario. Passano i minuti e torna l’equilibrio. La sfida fa paura ad entrambe le squadre. Sugli spalti stracolmi c’è più silenzio che sotto casa di Pietro e di suo figlio Marco, e fuori ora ha iniziato davvero a nevicare. Di nascosto però. Se ne accorge Veronica, che irrompe nuovamente nel soggiorno con un «sta nevicando!» che non scompone l’immobilità dei suoi uomini. E mancano due minuti al 90’, i termosifoni si sono spenti da tempo e qualcuno dovrebbe riaccenderli altrimenti si congela. Tra poco ci saranno i supplementari e si può fare. Ancora qualche istante. Berardi alza la testa, gli sembra di avere di fronte a sé la Francia intera, con i suoi muri, la sua superiorità intellettuale, la sua arte e la sua disinvolta presunzione. Ma lui è un calabrese strafottente quanto lei e se ne sbatte di quello che gli grida dalla panchina il vecchio Maurizio. La sua storia personale gli suggerisce che può permettersi qualunque cosa. Prova un primo dribbling e gli va bene, ne prova un altro, sta per cadere ma un rimpallo gli fa restare la palla fra i piedi. Ora è sulla tre quarti e se non si sbarazza di quel pallone avrà poche chance di sopravvivenza nel suo futuro prossimo. Si tappa le orecchie e contro tutto e tutti avanza altri tre metri e con una finta di corpo mette a sedere due giganti come Pogba e Kondogbia; è senza fiato ma l’ultima goccia di lucidità va a schiantarsi contro il suo piede sinistro che, ragionando quasi da solo, indirizza quella sfera pesante e fosforescente verso un ragazzone azzurro e nero, col numero nove sulle spalle e stranamente tutto solo in mezzo all’area di rigore. Sta per finire il recupero, come i turdilli, come il calore dentro casa e come un assurdo e corrotto Mondiale d’inverno. Pietro e Marco si alzano in piedi meccanicamente per la seconda volta nello stesso preciso momento. Con gli occhi sbarrati a sbranare la tv e il fiato in una gola che richiede ostinatamente nuovi zuccheri.

45’+2 st: GOOOOL

Balotelli stoppa di destro, e prima di fare il suo dovere così come non ha mai voluto fare in tutta la sua esistenza, decide che quello è il momento adatto per guardare, anche solo per un millesimo di secondo, alle sue spalle, alla ricerca forse di un passato da eterno forestiero in casa propria, che sa che sta per svanire in un colpo solo. Nel suo colpo. Chiude gli occhi, trascorrono pochi battiti di angoscia e poi l’Italia è campione del mondo. I suoi compagni gli corrono incontro e lo travolgono d’amore. In quella selva di braccia, di gambe e sorrisi di ogni colore, si vede spuntare persino Verratti. E non è poco. Dalla tribuna d’onore inquadrano il presidente della Figc, Carlo Tavecchio e il presidente del Consiglio, Matteo Renzi che applaudono e si stringono la mano. Padre e figlio nel solito soggiorno illuminato e alberato non hanno più freddo e si abbracciano ancora, più sudati che mai. Solo adesso si accorgono che la neve ha già coperto la loro città, ma dentro casa è tornata l’estate. È il 18 dicembre 2022 e gli azzurri vincono la Coppa più bella che c’è sotto il cielo del Qatar.

Mario Balotelli ha accanto a sé Gomis e Berardi e alza il trofeo da capitano di un’Italia che per una notte sembra meno sporca, divisa, razzista e ghiacciata. Ma fra poco arriverà Natale, e poi sarà capodanno, e chi ci penserà più a questa notte di finta estate?

Poco più di due ore dopo l’Italia è in festa e si festeggia nelle piazze gelide e innevate. Marco è andato a letto mentre Pietro è ancora davanti alla tv. Nella postazione Rai del “Lusail Iconic Stadium” arriva il premier italiano che ha appena lasciato lo spogliatoio azzurro. Parla di orgoglio nazionale e poi gli viene chiesto dei tweet di Salvini a metà gara. «Matteo lo conosciamo tutti – dice – è vulcanico, impulsivo e la sua passione per il calcio a volte gli fa dimenticare di essere un uomo delle istituzioni. È vero, in quel momento le sue parole possono essere sembrate inadatte, ma come diceva Voltaire? Disapprovo ciò che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto di dirlo. Voltaire – sogghigna – era un francese davvero in gamba». Veronica si avvicina a Pietro ormai quasi del tutto stravaccato sulla poltrona, e a bassa voce prova a svegliarlo: «Pietro, stavi dormendo! Io mi corico, quando vieni ricordati di spegnere le luci dell’albero». L’uomo apre a fatica gli occhi, guarda lo schermo e rivede quell’uomo in camicia bianca che sorride. Poi, ancora frastornato, si gira verso l’albero illuminato e mugugna uno spontaneo «Speravo fosse un sogno!» a sua moglie. Che lo fissa incuriosita e domanda: «Ma non ha vinto l’Italia?». Pietro si alza in piedi, spegne la tv, stacca la presa dell’albero e nel buio più pesto sente uscire dalla sua bocca un inaspettato e incontrollabile «Appunto!».

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[1] Per chi è nato a Milano o a Firenze, il turdillo è un dolce della tradizione Calabrese, uno gnocco grande, fritto e tuffato nel miele. Ma c’è chi lo lo ricopre anche di cioccolato. Come mamma Veronica.

[POST IT] La realtà dice che da quando il Qatar ha cominciato i lavori per le infrastrutture che ospiteranno la coppa del mondo sono morti oltre 1.200 operai, e si stima che per la fine dei lavori il numero raggiungerà quota 4mila, 62 per ogni partita che si giocherà.

mmasciata
mmasciata
Dicembre07/ 2016

di Massimo Cerulo

Parigi, 3 dicembre.

Il Signor de La Palisse direbbe che soltanto chi non vive la realtà quotidiana parigina può stupirsi della mancata ricandidatura di François Hollande alle prossime elezioni presidenziali. Scelta lapalissiana, appunto. Nella Ville Lumière tutti – dal fornaio all’operatore ecologico, dalle guardie che vigilano all’ingresso della mia Università fino agli annoiati tassisti cittadini – sapevano che Hollande non avrebbe avuto alcuna chance di successo. E per successo, si intende arrivare almeno in doppia cifra percentuale, elemento che fa capire quanto in basso sia nella valutazione dei francesi il Presidente uscente. E poi un po’ tutti si auguravano di non dovere ancora sorbirsi l’uomo pubblicizzato dai media per scandali sentimentali, incertezza nella gestione dell’emergenza terrorismo, gaffe nei rapporti con l’opinione pubblica. Certo, lo stile con cui giovedì 1 dicembre in diretta televisiva nazionale ha annunciato la sua uscita si è rivelato emozionalmente ambivalente: da una parte, non ha rinunciato alla grandeur presidenziale nel citare “tutto quello che è stato fatto in questi anni”, compreso un riequilibrio dei conti pubblici che a molti non suona veritiero; dall’altra parte, i dieci minuti scarsi nei quali si è rivolto ai suoi “compatrioti” sono stati contrassegnati da una manifestazione continua di emozioni di imbarazzo, tristezza, nostalgia, forse abbattimento.

Francois Hollande, 24mo presidente della repubblica francese
Francois Hollande, 24mo presidente della repubblica francese

È come se il corpo continuasse a trasmettesse scuse che le parole non riuscivano a pronunciare. Ma tant’è, la verità la fanno i numeri in possesso dello staff presidenziale. E, come dicevo, Hollande è ben al di sotto, attualmente, del 10% dei consensi. Ciò significa che il 22 e il 29 gennaio prossimo, nelle Primarie del centrosinistra, il candidato del governo sarà Manuel Valls, attuale primo ministro destinato a consumare le residue speranze di una Gauche francese che si appresta al suo anno zero, come noti parigini analisti del tessuto sociale ben sanno.
In una Parigi che prova a scrollarsi definitivamente di dosso la ancora percepibile paura per gli attentati (gli alerte attentat continuano a essere ben presenti in tutti i luoghi pubblici), Franco Crespi e Alain Touraine vanno a colazione sorridenti, da vecchi amici che insieme mettono sul piatto circa 180 anni di vita e una cinquantina di libri tradotti in diverse lingue. Gli ultimi pubblicati recentemente dai due sociologi europei – La maladie de l’absolu (Crespi) e Le nouveau siècle politique (Touraine) – analizzano la realtà sociale contemporanea e mettono soprattutto in guardia dal rischio di populismi che sembra attanagliare l’Europa.

Forse anche per questo pericolo, si inizia a riconoscere il vincitore delle Primarie di centrodestra – quel François Fillon che soltanto venti giorni fa veniva etichettato dai media come “Mr. Nobody” (copyright Le Monde) o outsider con poche speranze – come argine e scoglio al quale aggrapparsi disperatamente in vista dell’incapacità che potrebbe manifestare la Gauche nei confronti dell’arrivo del Grand Fantôme. La scelta del male minore, ça va sans dire.

Solo 5 mesi fa, in sella è rimasta solo frau Merkel
Solo 5 mesi fa, in sella è rimasta solo frau Merkel

Così, mentre gli studenti della “René Descartes” danzano e cantano nella hall principale dell’Università, vendendo crêpe preparate al momento al fine di raccogliere fondi per il Telethon appena partito, ne approfitto per fare due calcoli con Danilo Martuccelli sulla forza quantitativa attuale della Sinistra. “Il rischio che la Gauche non arrivi neanche al ballottaggio c’è ed è concreto” – mi confida Danilo con sguardo attento e riflessivo – “basta guardare i numeri e ascoltare il silenzio che arriva da quella parte…”. E con la mano è come se mi disegnasse nell’aria un mantello di donna. I numeri dicono che, a prescindere da chi parteciperà alle Primarie di centrosinistra di gennaio, lo schieramento è balcanizzato e diviso da diatribe interne: il PS avrebbe il 12%, con Valls probabile cavallo di punta; Mélenchon si aggirerebbe sulla stessa cifra, supportato dalla Sinistra estrema e da una serie di organizzazioni apartitiche; Macron, promotore del movimento En Marche! ed ex ministro di Hollande, potrebbe sfiorare il 15%. Uniti potrebbero arrivare al 40%, ma la parola insieme non esiste in questa frenetica attesa del nuovo anno che segnerà un punto di non ritorno.

Il silenzio che arriva da quella parte è frutto della strategia di logoramento messa in atto dal Front National e dalla sua leader Marine Le Pen, già pronta per le elezioni primaverili e, come dicono i ben informati, già concentrata sul ballottaggio presidenziale. Intanto, l’inverno sta arrivando e le barriere pensate per contenerlo sembrano scricchiolare alla sola immagine di un mantello. (3. Fine)

Michele Presta
Michele Presta
Dicembre04/ 2016

Quando si segue una campagna elettorale in Calabria per motivi di cronaca giornalistica bisogna tenere in considerazione una variabile temporale fondamentale: l’orario che solitamente si mette sulla locandina è quello in cui l’ospite atteso atterra all’aeroporto. Nell’ultimo mese, giovani (Maria Elena Boschi) e meno giovani (Paolo Cirino Pomicino) hanno fatto visita qui, nella terra dei due mari, parlandone con distacco e in alcuni casi anche con desolazione. Però, indipendentemente dalla scelta finale, quello del referendum è anche un «voto per il futuro dei calabresi». Come sempre.

Alessandro Pace è uno dei più noti costituzionalisti italiani. Docente e presidente del Comitato per il No, arriva al palazzo del governo provinciale di Cosenza con un faldone che a fatica riesce a trasportare. «Due dichiarazioni per la stampa?» Sguardo profondo, casino insopportabile, apre una porta, poi un’altra. Siamo nel bagno del palazzo provinciale «Bene, vede questo Parlamento…».

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Cirino Pomicino in campagna elettorale a Cosenza

C’è un odore che è tipico, quello dei vecchi. (Per chi ama il cinema ricorderà ne “La Grande bellezza” la scena di Jep Gambardella che confessa di preferirlo all’odore della fessa). Quello è l’odore di Paolo Cirino Pomicino. Perché è tutto un gioco di profumi, tipo quello del teatro de l’Acquario che lo accoglie. Merita una doppia menzione perché riceve l’accoglienza più bella. Sul lungo telo bianco una diapositiva, la prima pagina de il Manifesto dal titolo “Non moriremo tutti democristiani”.

«Oh tu che ne sai, ma Casini per che vota?» Panico tra i cronisti. Il referendum riesuma PierFendi Casini, l’incarnazione della vanità. Rilascia per ben cinque volte una dichiarazione al tiggì regionale, che lo trasmetterà poi al nazionale (È la Rai bellezza!). Nonostante il buon ritardo, fa un lungo tour del palazzo provinciale, poi si ferma e chiede «si può avere un tè?» Panico nell’ufficio presidenziale. La probabilità di una richiesta del genere è pari a quella di vincere 106 milioni di euro a Vibo Valentia. Ma tant’è, arriverà anche il tè con il ritardo dovuto (È la politica bellezza!).

Città blindata. Arriva Maria Elena Boschi. Tailleur nero, camicia di seta bianca. Bene, subito le informazioni che più vi interessavano. Scoop: la ministra ha mangiato un panino con la mortadella. In realtà la cosa su cui c’è poco da scherzare è che la ministra non si è concessa a nessuno. Giornalisti intendo, e della sua apparizione in Calabria rimane la cronaca del lungo comizio che ha tenuto e il video dei giornalisti bloccati alla porta (VEDI QUI).

Sapete con chi sarebbe bello andare al cinema? Con Gianni Cuperlo. A parte l’analisi della vittoria di Donald Trump spiegata con l’ultimo film di Ken Loach e il paragone con alcuni film neo-realisti italiani, l’intervento di Cuperlo a Cosenza è stato uno di quelli appassionati di sinistra. Com’è fatto un vero uomo di sinistra? C’era in platea per Gianni. Allora: sciarpa rossa di lana, un grande libro sulla gamba sinistra, il quotidiano nazionale e regionale sulla destra, un cappello di quelli retrò sempre in testa anche dentro. Applausi dosati. L’anziano signore si è visibilmente commosso quando Cuperlo ha focalizzato la sua attenzione sui diritti da tutelare.  Della riforma costituzionale non fa proprio cenno. Un dubbio mi viene. Voterà No?

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Maria Elena Boschi all’Auditorium Guarasci di Cosenza

Il solitario Alfredo D’Attorre arriva nella Yaris di un ragazzo che ne ha curato l’incontro a Cosenza. In concomitanza c’è Franco Marini. Lui non demorde 101 iniziative in difesa della Costituzione, mica bruscoletti. Faccia triste, quasi colpevole, finisce giusto in tempo per l’ora della pizza. «Margherita compagni?»

Una cosa che ha spiazzato davvero tutti è la sicurezza con cui il socialista Riccardo Nencini asserisce che con la riforma costituzionale sarà finalmente introdotta la parità di genere in Costituzione. È l’unico che usa questo argomento e presto detto, lo sconfessa la docente Anna Falcone su Rai News. Lui ne è convinto, gli altri un po’ meno.

Luciano Violante. Dell’incontro a Rende gli vanno dati due meriti. Nel primo riesce a non consumare la batteria dello smartphone nel corso dell’estenuante intervento del docente Renato Rolli. Nel secondo riesce a prendere sul serio un gruppo di ragazzi che percorrono a piedi l’Italia per spiegare ai cittadini le ragioni del Sì. Chi lo avrebbe mai detto

In generale sapete cos’è davvero mancato in questa campagna elettorale per il referendum? Un testo della Costituzione. Si quel libricino di carta dove sono scritti tutti gli articoli. Sarebbe stato bello vederlo, magari anche vedere le edizioni diverse, posato sul tavolo a favore dei fotografi.

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Le foto le vedete qui per gentile concessione di Federico Treggiari

alfredo sprovieri
alfredo sprovieri
Dicembre02/ 2016

«Nun te move che vado a pia’ un secchio d’acqua». Dal primo piano di Villa Lubin vorrebbero togliersi quella che potrebbe essere l’ultima soddisfazione. In un paese che assiste alle ultime ore del testa a testa referendario, se c’è una Stalingrado del “No” si trova in queste mura di grande bellezza. Non è conservatorismo, si tratta più di spirito di conservazione. Il Governo con la riforma proposta al popolo elettorale intende infatti abolire l’articolo 99 della Costituzione che disciplina il “Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro” ospitato da questa struttura barocca nel cuore di Villa Borghese a Roma.

Villa Lubin, sede del Cnel.
Villa Lubin, sede del Cnel.

Tra i cambiamenti previsti dalla riforma, complice il trend delle polemiche sui costi della politica, questo sembra l’unico capace di mettere tutti d’accordo, con il fin qui poco conosciuto organo di rilievo costituzionale diventato, suo malgrado, una specie di emblema dello spreco.

Si calcola infatti che dalla sua istituzione con legge ordinaria del 1957, il Cnel sia costato allo Stato più di un miliardo di euro a dispetto di un’utilità pubblica rivedibile (14 disegni di legge in 60 anni di attività), ma in realtà il costo è stato ridimensionato dalla legge di stabilità del 2015, che ha abolito indennità e rimborsi per varie ed eventuali e nel bilancio di previsione che si può trovare sul sito dell’ente si può leggere che il tutto ora ammonta ad una spesa per lo Stato di euro 8,715 milioni l’anno. Di certo c’è che quando di milioni di euro ne costava anche 20 ogni anno, il CNEL poteva contare su ben 121 consiglieri, poi il  DPR del 20 gennaio 2012 ha portato il numero a 64: 10 esperti nominati dal Presidente della Repubblica (8) e dal Presidente del Consiglio dei Ministri (2); 48 rappresentanti delle categorie produttive; 6 rappresentanti delle associazioni di promozione sociale e delle organizzazioni del volontariato. Polmone di un paese che doveva fondarsi sul lavoro, oggi naviga nella disoccupazione generale con solo 24 consiglieri, soprattutto perché i 40 rappresentanti che si sono dimessi negli anni non sono mai stati sostituiti. A questi si aggiungono 57 dipendenti che anche in caso di vittoria del “Sì”, in quanto dipendenti pubblici, non possono essere licenziati e che finiranno alle dipendenze della Corte dei Conti.

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L’ingresso per le auto affacciato sul cuore di Villa Borghese.

Anche per questi motivi, l’atmosfera all’uscita della Villa che i rumors vogliono nel mirino del Consiglio superiore della magistratura (circa 3 milioni all’anno gli oneri di manutenzione per sale ricche di affreschi e un villino attiguo con una biblioteca da oltre 75mila volumi), è tutto sommato rilassata. Dal piccolo sciame che per la pausa pranzo scende dalle scale liberty disegnate da Pompeo Passerini si mimano labbra cucite, ma dopo, a pancia piena, ai piedi della “Fontana della Spigolatrice” realizzata in bronzo da Luigi De Luca qualche fessura si apre e Renzi non è proprio la parola preferita fra quelle fuori dai denti. «Tutti i governi europei hanno una struttura simile a questa», sostengono a microfoni spenti professionisti che per primi riconoscono i limiti delle gestioni passate, dimostrandosi ansiosi di mettere le proprie competenze al servizio del paese. Razionalizzando il funzionamento dell’ente, insomma, per i lavoratori del Cnel si poteva evitare di chiedere di buttare bambino e acqua sporca. «Ma hanno preferito sacrificarci sull’altare del populismo».

Andando via, il traffico di taxi su via Washington e gli Aerosmith a palla non turbano la siesta dell’autista di un auto blu “Thema” che risulta a noleggio; tutt’intorno l’atmosfera di Villa Borghese si abbina perfettamente a quello di una calma attesa. Su un tappeto di foglie rosse un uomo in loden verde dice al suo interlocutore: «Ne riparliamo dopo il referendum, buon fine settimana». Se lo sarà davvero lo diranno gli elettori.

«Le grand fantome» | Quel ponte che guarda al Cremlino

mmasciata
mmasciata
Novembre26/ 2016

di Massimo Cerulo

(PARIGI, 23 novembre)

“E quel ponte lì?”, mi domanda la mia ospite parigina, mentre nei suoi occhi ancora riflettono le centinaia di piccole luci che ogni sera, alle 19 in punto, illuminano a intermittenza la Tour Eiffel dando vita al fenomeno che nello slang parigino viene definito clignotage. Seguendo il suo sguardo, noto che indica le quattro statue dorate che, adagiate sui piloni di ingresso del ponte Alessandro III, controllano il passaggio juste en face alla Tour. Le racconto che il ponte sta lì dalla fine dell’Ottocento a siglare l’amicizia franco-russa messa per iscritto dall’imperatore di tutte le russie Alessandro III, appunto, e il Presidente de la République Sadi Carnot. Non faccio quasi in tempo a dirle che fu inaugurato durante l’Expo (come si direbbe oggi) parigina del 1900 che la sua espressione di stupore mi fa sorridere. “Un’amicizia franco-russa?”, mi chiede, con un sorriso malizioso che mi ricorda l’indimenticata Anouk Aimée protagonista de “Un homme, une femme” (che in questi giorni i parigini hanno l’opportunità di rivedere al cinema in versione restaurata). Sì, le rispondo, un’amicizia franco-russa esattamente come quella che va, incredibilmente, configurandosi in queste ore…

Era infatti da poco apparsa in tv la dichiarazione dello zar attuale Vladimir Putin che, in un russo francesizzato dall’abitudine allo champagne, pronunciava il nome Fillon indicandolo come ottimo futuro Presidente della République. Il peso di tale dichiarazione è stata tale che 24 ore dopo, durante l’ultimo dibattito in diretta tv, Alain Juppé si è detto “stupito” di aver ascoltato una frase del genere, non spingendosi oltre nel giudicare il Putin in questione.  Eppure, lo staff di Juppé aveva preparato il dibattito sapendo che il distacco da colmare è notevole (i soliti, inaffidabili, sondaggi parlano di una forchetta tra 17 e 24 punti percentuali, ma giusto una settimana fa prevedevano Fillon al terzo posto…): il vecchio politico doveva provare ad attaccare, a riprendere l’editoriale che Le Figaro aveva proposto mercoledì in suo supporto nel quale si evidenziavano i rischi della politica economica “thatcheriana” paventata da Fillon (500mila tagli nel pubblico, rigidità e rigore per almeno 2-3 anni) e si strizzava l’occhio a quella definita “chirachiana” che verrebbe portata avanti da Juppé (250 mila tagli nel pubblico e braccia aperte all’Unione Europea).

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La prima pagina de Le Monde fotografa una Francia conservatrice

Di certo non necessario ma forse sufficiente a spegnere la suspense sul nome del vincitore di domenica, l’intervento dello zar Putin conferisce un nuovo sapore alle presidenziali primaverili. L’endorsement a Fillon fornito dall’ex kgb potrebbe rivelarsi per lui un boomerang, orientando i votanti moderati e liberali di centrodestra a scegliere altre strade? Al momento non vi è risposta a tale quesito, mentre tra 24 ore le urne si riapriranno per riaccogliere i francesi nella scelta del candidato finale di questo centrodestra che vira sempre più a destra e sempre meno al centro. Sul punto, ho avuto una articolata discussione ieri a colazione con alcuni colleghi dell’Ecole des Hautes Etudes, al termine del seminario che ho avuto l’onore di tenere nel corso della mattinata. Credete – chiedevo loro con una curiosità mista a interesse sociologico – che questa volta la Marine possa farcela? Oppure già domenica conosceremo il nome del Presidente? Come immaginavo, le risposte sono state discordanti: dal sociologo che reputava Le Pen incapace di reggere alla prova del ballottaggio e che quindi la vedeva crollare nel corso del voto decisivo, un po’ come si verificò alle recenti amministrative ed europee; al politologo che invece partiva proprio dai punti guadagnati dal Front National nelle ultime elezioni, come testimonianza di un radicamento del partito sul territorio francese e della “maturità ormai raggiunta da Marine per vincere finalmente un ballottaggio e vendicare, suo malgrado, quello storico tra Chirac e Le Pen senior del 2002, scontro che nessun francese potrà mai dimenticare”. Scontro, mi viene da aggiungere, che portò la Francia molto vicina a una deriva populista se non fascista che alla fine spaventò centinaia di migliaia di Francesi che nel segreto delle urne si affidarono alla confortante tradizione di Chirac.

Ad aprile saranno passati 15 anni da quel ballottaggio del 2002 e molti non avrebbero mai immaginato che la figlia di Jean Marie sarebbe stata (probabilmente) protagonista di una nuova sfida presidenziale in una Europa molto lontana ormai da quelle logiche di unità e collaborazione da Unione che fecero la forza di Chirac agli albori del Ventunesimo secolo.  (2. Continua)

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LEGGI: L’ombra non lancia frecce e all’alba sparisce

mmasciata
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Novembre21/ 2016

di Andrea Mammone

Cammino su Upper Richmond Road, al confine tra Putney e Barnes, nel sud-ovest di Londra, col mio zainetto in spalla. Esco da una casa e ne cerco un’altra. Il viale (abbastanza) alberato fa un po’ America. Penso di essere in compagnia e immagino un dialogo a Princeton. In realtà è la musica (Wicked Games di Parra For Cuva e Anna Naklab) che proviene dalle cuffie che mi fa viaggiare e sentire più cool di quello che sono. Invece un clacson mi fa ritornare su questo pianeta. Mi domando allora in che mondo viviamo e se senza quegli occhi puri, all’apparenza duri, che nascondono un mare a volte burrascoso, altre calmo, ma comunque sempre vitalità, sensibilità e dolcezza, riusciremo ancora a comprendere cosa ha da dirci il vento e se saremo in grado di parlargli.

La fermata della metro sull'Upper Richmond
La fermata della metro sull’Upper Richmond

Sarà forse la malinconia, oppure la preoccupazione per quello che mi circonda. Luis Sepulveda però suggerisce, e a ragione, che la tenerezza va protetta con la durezza e che non possiamo permettere che la paura ci paralizzi. Inizio a pensare che nel vivere quotidiano abbiamo dimenticato, o messo da parte, proprio sensibilità e dolcezza. Gli ultimi anni ci hanno portato le bombe su Aleppo e i predicatori di odio. I Donald Trump sono diventati i padroni delle cronache politiche fatte di insulti e isolazionismo, di rigetto del diverso e di avversari che diventano “nemici”. I greci soffrono e a molti interessano che le banche tedesche recuperino i soldi prestati scelleratamente. Che fine hanno fatto la solidarietà, la ricchezza della multiculturalità e i vantaggi di un’epoca in cui viaggiamo senza controlli alle frontiere? Perché proporre divisioni e temi nazionalisti anche dove non sono (quasi) mai esistiti? Come si può accettare che ci sia gente che vorrebbe rigettare in mare barconi di disperati che cercano una vita migliore?

É arrivato il momento di dire basta e reagire. In un mondo diventato improvvisamente “o bianco o nero” scordiamo troppo facilmente la gradazione dei colori e la bellezza degli arcobaleni che arrivano, appunto, dopo i temporali. Non si può più fare spallucce davanti a un mondo che deride il potere dei sogni e non considera l’importanza della “poesia” nella vita di ogni essere umano. La “mia” poesia è nel mare, in Arianna che diventa grande e aiuta i compagni meno fortunati, nel mio (secondo) fratello mulatto Lucas che inizia a parlare in tre lingue, in Sara che a due anni e mezzo ragiona meglio di un centinaio di leghisti che frequentano le discoteche dei presunti vip, in qualche ragazzo e ragazza che non si accontenta della superficie ma entra nelle cose, negli studenti di minoranze etniche che frequentano i miei corsi, in una studentessa che segue una mia lezione sentendosi un’esploratrice del cosmo e uscendo dall’aula mi ringrazia, nei racconti che ho iniziato a scrivere, in chi lotta contro la povertà, ed è anche nel sorriso di un senzatetto e nello sguardo di mia nonna. Ognuno dovrebbe trovare dentro di se quella poesia e quella sensibilità che permettono all’anima di riconnettersi con la ragione, e senza perdere di vista le cose per cui vale la pena combattere. Anni di austerità, precarietà e nazionalismi xenofobi hanno invece inaridito buon senso e sentimenti. Questo rischia d’influenzare seriamente la nostra esistenza.

A volte i miglioramenti hanno bisogno di rotture e “movimento” (oltre che di coraggio). Lo scrittore John Berger racconta che il vero senso della vita è nei segreti e non nei posti dove gli altri ti dicono di guardare – e quindi negli schemi sociali, nelle convenzioni e nelle imposizioni. Abbiamo forse davvero smesso di sognare? Il nostro passaggio sulla Terra necessità della nostra voglia di cambiare il mondo. Da questo punto di vista allora possiamo davvero proteggere ragione e poesia con la durezza, reagendo alla violenza verbale, all’idiozia, a chi vuol farci credere che esistono “razze” umane, a chi commenta i miei articoli (firmandosi) con frasi come “quando vedo un nero mi viene da vomitare”. Democrazie e diritti umani non sono immutabili e nemmeno conquiste stratificate da millenni di storia. Reagiamo quindi prima che una minoranza dei clic e dei likes, o quella che vorrebbe bruciare i libri, ci riporti al clima degli anni venti e trenta.

Sappiamo tutti bene come è andata a finire. Penso che Arianna, Lucas e Sara, oltre a tutti i figli e figlie di guerre e fame, meritino qualcosa di molto meglio.

mmasciata
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Novembre21/ 2016

–PARIGI, 20 nov.–

(di Massimo Cerulo)

Dopo giornate di cielo terso e temperature gradevoli, per quanto autunnali, nuvole e veli accompagnano lo svilupparsi di questa domenica di novembre, consacrata in Francia al primo turno delle elezioni primarie per scegliere il candidato alle Presidenziali di primavera.

Jamais à droite. A droite jamais!, urlavano gli studenti del maggio parigino, mentre un giovane Pierre Bourdieu li intervistava per confutare la tanto declamata uguaglianza nell’accesso alla cultura attraverso la frequentazione delle scuole francesi. Mai come in questa giornata tale urlo è messo in discussione, di fronte alla “partecipazione eccezionale” (copyright BFM TV) che gli elettori francesi stanno facendo registrare in queste ore.

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L’apertura di un seggio a Parigi domenica mattina.

Passeggiando, come di consueto, attraverso il quinto e il settimo arrondissement, in tarda mattinata, alla disperata e vana ricerca di una boulangerie aperta, Parigi si mostrava come sempre sonnacchiosa nei giorni di festa, tra studenti in partenza-arrivo, sportivi diretti al Jardin du Luxembourg e anziane signore di ritorno dalle celebrazioni religiose. Ma ci pensavano gli edicolanti a ricordare a tutti il tema principe della giornata. Da Le Figaro (diretto protagonista), a Le Monde, da Le Canard a Libération fino al Journal du Dimanche era tutto un susseguirsi di titoli dedicati “al giorno”. Prima volta delle primarie del centrodestra, con sette – dico sette – candidati (soltanto una donna) e, soprattutto, con una profonda incertezza riguardo al nome dei due vincitori che andranno a sfidarsi domenica prossima nel ballottaggio decisivo. I tre moschettieri in ballo sono vecchie volpi della politica transalpina (Alain Juppé, già Ministro e braccio destro di Jacques Chirac; Nicolas Sarkozy, già Presidente; e François Fillon, già Primo Ministro e in fortissima rimonta nelle previsioni degli istituti di statistica).

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Il dibattito all’americana fra i candidati alle primarie.

I sondaggi di ieri mattina – queste “scienze prive di sapere”, come Pierre Bourdieu insegnava oltre venti anni fa nel suo corso di sociologia al Collège de France – li davano praticamente alla pari, mentre diversi politologi vedrebbero di certo vincitore odierno il ‘vecchio’ Juppé in quanto supportato dalla coalizione più ampia. Eppure, un po’ tutti i quotidiani non hanno lesinato aperture violente venerdì mattina, il giorno dopo l’ultimo dibattito a sette in diretta tv. Titoli come “La carica degli sconosciuti” o “Si può votare il nulla” (lanciati chiaramente da giornali schierati a sinistra) che tuttavia lasciavano percepire la paura del “grand fantôme” di queste elezioni: quella Marine Le Pen che non partecipa in quanto molto più a destra dei sette candidati e, soprattutto, troppo smaliziata per prestarsi a valutazioni in anticipo rispetto all’obiettivo delle Presidenziali. Le ombre non lanciano frecce e all’alba spariscono. Marine ha sapientemente ignorato qualsiasi confronto con i candidati in ballo, conscia che la guerra la si muove quando il vero nemico si sarà materializzato all’orizzonte.

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Marine Le Pen, leader del Fronte National.

Ma rientrando in casa ho avuto la sorpresa: tutti i canali televisivi hanno aperto le edizioni di metà giornata sottolineando l’enorme partecipazione registrata ai seggi in mattinata: ben oltre un milione di votanti secondo il comitato organizzatore alle ore 12. Folla trainata dagli organismi partitici o presa di responsabilità democratica da parte dei Francesi? Ho rivolto questa amletica domanda ad alcuni amici con cui ieri sera ho avuto il piacere di condividere una degustazione di vini provenienti dalla zona del Rodano nella fidata enoteca “Le vin qui parle” à Saint-Germain: sia Loïc che Rodolphe, da me interpellati, temono l’onda lunga dell’elezione di Trump su suolo francese: una “distruttrice” come Marine Le Pen, che fa della chiusura all’esterno la sua forza, potrebbe rappresentare la ‘terza’ sorpresa in questo mondo occidentale dove tutto sta cambiando? Dopo la Brexit e l’elezione di Trump, la Francia potrebbe chiudere la trilogia di quelli che passeranno alla storia come gli eventi che sconvolsero la geopolitica mondiale?

Di parere opposto è la mia vicina di casa, la signora Josephine di anni 80 che stamattina, fermandomi nell’androne del palazzo, mi racconta che certo è andata a votare e lo ha fatto per Fillon, perché il più “rassicurante” tra i tre: Juppé è vecchio e Sarkozy è troppo legato al mondo della finanza – mi confessa. E poi, non prima di avermi gentilmente invitato a bere qualcosa di caldo su da lei, mi confida con certezza mista a speranza che Marine non vincerà mai, perché i parigini la associano al padre e ai suoi proclami fascisti. Come tale, non potrà mai trionfare – continua la dolce Josephine – e quindi il vincitore delle Presidenziali uscirà da queste primarie (la Sinistra non viene neanche presa in considerazione dopo gli anni di Hollande). C’è da sperarci, continuo a ripetermi mentre apro un rosé di Provenza, ben conscio che i Parigini fanno storia a sé, lo hanno sempre fatto e no, cara Josephine, non corrispondono per nulla al resto degli elettori Francesi.

(1. Continua).

Carmen Baffi
Carmen Baffi
Novembre08/ 2016

Sta arrivando l’inverno. Al Sud, soprattutto i più giovani, il sole lo cercano altrove. Tre anni fa a Lamezia Terme è nato C.R.A.C (Centro di Ricerca per le Arti Contemporanee): il ponte culturale che vuole collegare la Calabria con le altre realtà internazionali, permettendo agli artisti emergenti di esprimersi al meglio. Lo scorso 28 ottobre, si è aperta la seconda stagione organizzata dal Centro lametino, “Lights in the storm”. Il titolo nasce proprio dalla riflessione sul senso di rabbia che fino a qualche anno fa un giovane calabrese poteva provare non trovando qualcosa di stimolante da fare, partendo da un semplice concerto o una mostra. La luce è arrivata pure a Lamezia.

LE MOSTRE – Gli scatti sono quelli di due artisti calabresi, Valentina ProcopioGuido Guglielmelli. Le loro mostre sono entrambe incentrate sul rapporto tra i costumi e le tradizioni dei loro territori e rimarranno aperte fino al prossimo 13 novembre. Il progetto di Valentina è “Luce Madre Casa“, con cui la fotografia diventa un mezzo per analizzarsi, la luce per analizzare una cultura locale. Come? Attraverso un simbolo religioso. Non c’è casa nel piccolo borgo di San Pietro Magisano (CZ), infatti, in cui manchi una statuetta della Madonna della Luce, madre protettrice del paesello. Secondo la giovane fotografa, questo è il punto di partenza per raccontare qualcosa delle famiglie che l’accolgono, perché ognuno lo fa in modo diverso, ma mai in maniera banale. Attraverso la chiave religiosa si può spiegare il titolo scelto dalla Procopio. Luce è metafora della fotografia stessa, madre come femminilità, pilastro del progetto e poi casa come il caldo focolare che l’accoglie.

LA GALLERY – “Luce Madre Casa”

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Guido, invece, ci racconta attraverso i suoi scatti A Pitë (la Festa dell’Abete), una tradizione per Alessandria del Carretto, nel cuore del Sud, sul Pollino. Secondo la leggenda, nel 1600 un martire trovò all’interno di un Abete bianco l’immagine di S.Alessandro Martire. Da allora, per devozione, ogni anno gli uomini alessandrini trainano a mano un enorme abete bianco dai monti più alti giù fino in paese. L’abete viene trascinato rigorosamente a mano lungo un percorso di circa 6 km. La popolazione è in festa e gli uomini vengono incitati continuamente con canti e balli tradizionali, degustando prodotti tipici e bevendo del buon vino locale. Nei giorni successivi l’albero viene levigato e issato a mano. All’estremità dell’abete viene fissata la cima di un secondo albero, a cui vengono appesi dei doni che potrà avere solo chi è in grado di scalare la Pitë. La gara è aperta, e gli abitanti di Alessandria sono tutti con il fiato sospeso. Al tramonto la gara può concludersi. La Pitë viene abbattuta, inizia il conto alla rovescia per il prossimo anno. Ho scelto di raccontare una delle tradizioni più suggestive della mia terra. Questa festa riesce a riconciliare l’uomo la natura, con le antiche tradizioni e con le proprie radici. Tutti sono indispensabili per la buona riuscita dell’impresa, la solidarietà e l’uguaglianza tra tutti i partecipanti sono valori preziosissimi che vengono tramandati di generazione in generazione.

LA GALLERY – A Pitë”

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mmasciata
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Novembre03/ 2016

Che fine fanno persone come quelle sgomberati dal campo di Idomeni? Un camper sta ripercorrendo la rotta meridionale dei migranti in Italia per scoprirlo. Un viaggio di due mesi, dalla Sicilia a Roma, dentro e oltre la rotta del Mediterraneo centrale: 32 tappe, 3.400 chilometri. Sono i numeri della campagna #overthefortress, un’azione di inchiesta e comunicazione indipendente salpata dal Porto di Igoumenitsa e sbarcata al sud Italia al fianco dei migranti e delle realtà locali per mettere in discussione luoghi comuni e narrazione dominante, per fare spazio alle politiche di buona accoglienza, solidarietà e impegno civile.

Nel marzo scorso la marcia della campagna #overthefortress, partita da Ancona e Bari per raggiungere il campo informale di Idomeni, sul confine greco macedone, si era ricompattata proprio in questa cittadina portuale. Da marzo la situazione per i rifugiati bloccati in Grecia, a seguito dell’accordo con la Turchia e la chiusura quasi ermetica della Balkan Route, è drasticamente peggiorata. Costretti a permanere in campi governativi in condizioni indegne, le loro speranze di raggiungere un altro paese europeo dove avere protezione, o di ricongiungersi con i propri familiari, sono appese al filo di un farraginoso e lento meccanismo burocratico. Per i siriani il relocation program è una ruota della fortuna che per molti di loro non girerà nel verso giusto, mentre per le persone provenienti da altre zone di guerra o miseria quel filo esile di speranza si è del tutto spezzato e le scelte, oramai, sono poche: richiedere asilo in Grecia, e in caso di diniego rischiare di essere deportati nel paese di origine, o pagare un trafficante, rischiando di essere respinti dai “cacciatori di migranti” alle frontiere militarizzate oppure di venire bloccati in uno dei paesi lungo la rotta dei balcani.

“Di fronte a un sistema emergenziale, alla violazione dei diritti, alla disumanitá che si propaga come una metastasi letale, sentiamo la necessità di metterci nuovamente in viaggio per raccontare, denunciare e agire assieme a coloro che non si sono assuefatti a questo presente”.

#overthefortress

La traversata del Mediterraneo non ha mai cessato di essere il tragitto più pericoloso del mondo e nell’ultimo anno sono più di 4.000 le vittime delle attuali politiche europee che non permettono di raggiungere in modo sicuro il vecchio continente. Pur se con numeri inferiori alla Grecia, gli arrivi in Italia (circa 145.000 persone) dimostrano come la rotta Mediterranea, in questo momento, sia l’unico varco aperto e, al tempo stesso, che il flusso migratorio dal nord Africa, per una serie di cause economiche, ambientali e sociali, sia da considerarsi strutturale e non possa più essere definito “eccezionale”. L’Italia è storicamente il paese di approdo della Rotta, ma da territorio per molte persone solo di transito (nel 2014 a fronte di 170.100 arrivi solo 63.456 richiesero l’asilo, nel 2015 su 153.842 persone sbarcate la cifra fu di 83.970 – Fonte:Eurostat), da quest’anno è un paese a stanzialità forzata perché di fatto viene proibita la possibilità di oltrepassare le frontiere a nord (leggi il nostro reportage “Aspettando Como“). Questo “nuovo” approccio delle politiche europee che attraverso i centri hotspot localizzati nel sud Italia impone ai migranti l’identificazione anche con l’uso della forza, da una parte è stato ulteriormente peggiorato dal cosiddetto Piano Alfano che ha sancito una prassi di deportazioni delle persone ferme a Ventimiglia e Como soprattutto verso l’hotspot di Taranto. Dall’altra, il blocco forzato nel paese e la sola possibilità di fare richiesta d’asilo per i migranti, ha messo in luce in modo evidente tutti i limiti del già precario sistema d’accoglienza italiano, per lo più legato a logiche di business e massimizzazione del profitto, palesando l’assenza di servizi adeguati e opportunità di inserimento sociale e lavorativo per i migranti. Questa colpevole improvvisazione, visibile soprattutto nella filiera dell’accoglienza straordinaria dal nord al sud Italia, è oltremodo evidente in quelle aree del paese dove i richiedenti asilo e, in generale i migranti, sono braccia senza diritti inseriti nel sistema di sfruttamento lavorativo del settore agricolo, spesso favorito dalla grande distribuzione.

A fine ottobre il camper della campagna solidale #overthefortress è sbarcato a Brindisi e per due mesi attraverserà le regioni del sud Italia. Partendo il 29 ottobre da Pozzallo in Sicilia, tappa dopo tappa, incontrerà e darà voce alle realtà sociali che lavorano con i migranti e che lottano con loro per ottenere diritti, monitorando nel contempo quanto accade nei territori.

 

PS. questo è un viaggio indipendente e autofinanziato, è attivo un crowfunding su Produzioni dal basso per sostenerlo. Con 5 euro si possono far percorrere 10 chilometri al camper. (In copertina, foto di Alfredo Bini)

L’APPUNTAMENTO | “Border”: quei confini che non dividono

Carmen Baffi
Carmen Baffi
Ottobre19/ 2016

Chi l’ha detto che i confini dividono? A Belmonte Calabro, piccolo borgo della costa tirrenica calabrese, arriva “Rifugi d’aria: Border” una festa di comunità che ha come prospettiva l’incontro e il continuo scambio culturale. Dal 21 al 23 ottobre, attraverso talk, laboratori, performance e walkabout si proverà a capire quali sono le condizioni di salute delle comunità, le possibili visioni, le buone pratiche che le attraversano o che potrebbero attraversarle. Un vero e proprio cantiere culturale, in cui verrà abbattuta un’dea ormai pericolante, secondo la quale i confini sono solo delimitazioni geografiche e privazione di inclusione sociale; e ricostruita quella più innovativa della contaminazione culturale, attivando diversi momenti di confronto. Quello del border sarà il tema base di queste tre giornate di musica, teatro e performing media.

VENERDI 21 OTTOBRE alle 11:00 con un workshop su videostorytelling per il rural marketing a cura di Pensiero Meridiano. Alle 16.00, il lab sul performing media storytelling per lo sviluppo global tenuto da Carlo Infante per Urban Experience. In chiusura la proiezione del docufilm “Triokala” del regista agrigentino Leandro Picarella.


SABATO 22 OTTOBRE sarà dedicato a esperienze di Walkabout, a cura di Carlo Infante e Massimo Ciccolini per Urban Experience. Attraverso il sistema di whisper radio, quello usato dalle guide turistiche, si darà il via a conversazioni ludico-partecipative. Non dimenticate di portare dietro gli smart-phone, fondamentali per scegliere i brani da ascoltare nella trasmissione radio, per pubblicare foto e tweet sui social e per spostarsi con le mappe interattive del geoblog che traccia i percorsi. Quello che ne uscirà fuori saranno dei veri e propri radio-walkshow, che lanceranno una sfida al dominio dei talk show televisivi.
Alle 17:00, i talk dal titolo “Un paese c’è già: nuove marginalità”, con interventi e relazioni di Carlo Infante, Consuelo Nava, Emmanuele Curti, Francesco Lesce, Giuseppe Mangano e Leandro Pisano e il dibattito: “Amministrare borderline o non amministrare? Dal basso per produrre nuove pratiche?”  con il sindaco di Sant’Alessio di Aspromonte Stefano Calabrò.
Infine la performance teatrale “In bocca al lupo – ovvero l’uomo nero arriva dal mare” a cura di Piccola Compagnia Palazzo Tivoli e in concerto alle 22:30 la Fanfara Station in residenza presso l’Ex Convento dal 19 al 23 ottobre  2016.

 

DOMENICA 23 OTTOBRE, nella frazione di Santa Barbara, ci sarà un confronto con le varie realtà culturali, che da anni si battono per la valorizzazione dei borghi calabresi spesso abbandonati e dimenticati.

Un talk dal titolo Vecchie e nuove feste con festival come Radicazioni, Joggi Avant Folk, Felici e Conflenti, Cleto Festival.

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alfredo sprovieri
alfredo sprovieri
Ottobre18/ 2016

Quando milioni di giovani in tutto il pianeta manifestavano per la pace in Vietnam non potevano immaginare che un giorno neanche troppo lontano quello sarebbe diventato uno dei pochi paesi al mondo senza guerra. Dieci, sono solo dieci i posti in cui si vive in pace – senza conflitti esterni o interni – nel 2016: Botswana, Cile, Costa Rica, Giappone, Mauritius, Panama, Qatar, Svizzera, Uruguay e Vietnam. In tutti gli altri ci sono conflitti più o meno striscianti. Poveri e profitti, oppressi e oppressori. E tanti, tantissimi ignavi che non lo sanno o che fanno finta di non saperlo.

13,600 miliardi di dollari e’ la cifra che il mondo impiega per darsi battaglia.

A fotografarlo è il Global Peace Index che, nel 2007 ha pubblicato per la prima volta l’immagine del mondo tra guerra e pace e da allora non fa che aggiornare l’escalation. L’indice è concepito dall’Institute for Economics and Peace (PEI) in collaborazione con una équipe internazionale di esperti di pace, da istituti di ricerca e da think tank (organismi sociali apolitici), su dati forniti e rielaborati dall’ Economist Intelligence Unit (società di ricerca e consulenza che fornisce analisi sulla gestione di stati e aziende).

Sono 81 i paesi in cui la condizione di pace è migliorata, ma in altre 79 nazioni la crisi mediorientale, le guerre del nord Africa e della penisola araba, il terrorismo hanno generato un peggioramento di vivibilità. “Afghanistan e Iraq sono in guerra da oltre 10 anni. A questi, si sono aggiunti Siria, nel 2011, e ancora Libia e Yemen – dichiara Steve Killelea, l’imprenditore australiano fondatore del PEI – L’incapacità di trovare possibili soluzioni a questi e ad altri conflitti ha fatto precipitare il mondo in uno stato di inuguaglianza e lontananza dalla pace. Se si eliminasse la zona Medio Orientale dalla cartina geografica ci si renderebbe drammaticamente conto del fatto che il mondo vivrebbe una condizione di tranquillità maggiore: Siria, Iraq e Afghanistan insieme, per esempio, generano il 75% di morti in battaglia rispetto al resto del mondo”.

 

CONFLICT | UNA MINISERIE SUI REPORTER DI GUERRA

MA COSA NE SA LA GENTE COMUNE DELLE GUERRE CHE INSANGUINANO IL MONDO IN QUESTO MOMENTO? Nulla. L’organizzazione non governativa International Crisis Group, che dal ’95 svolge un ruolo di ricerca e analisi dei conflitti in un’ottica di prevenzione e risoluzione, ha stilato un elenco delle 10 guerre da monitorare nel 2016 per le sorti umanitarie del mondo, ma nessuno se li fila. Il comunicato inserisce tra i conflitti a cui prestare maggior attenzione, prima di tutti, quello in atto in Siria (1) e Iraq (2), dove dietro la guerra al mostro Isis, o al conflitto religioso fra sunniti e sunniti, si nasconde la volontà geopolitica di potenze territoriali (Iran vs Turchia) o di potenze mondiali (Usa vs Russia) di mettere le mani su una delle regioni più ricche di giacimenti energetici del pianeta. C’è anche la guerra interna in Turchia (3) con Erdogan contro il Pkk, la nuova Intifada fra Israele e Palestina (4) a Gerusalemme e non manca nell’elenco l’Afghanistan (5), paese che è in balia di una guerra ormai decennale. Ma l’elenco identifica quattro conflitti africani fra quelli più sanguinosi. A nord è segnalata la Libia (6), dove la situazione d’emergenza e di scontri è continua anche in seguito al consolidarsi nella regione dello Stato Islamico. Per quel che concerne l’Africa sub sahariana le tre aree prese in considerazione sono quella del Sud Sudan (7), del Burundi (8) e del Lago Ciad (9). Il Lago Ciad è il centro degli scontri tra Boko Haram e la coalizione internazionale che lo fronteggia. Del Sud Sudan ci occuperemo più giù, mentre sul Burundi sappiamo che da aprile vede fronteggiarsi i governativi di Nkurunziza con l’opposizione, e sembrano riaffiorare ogni giorno di più gli spettri di un passato di morte che ha caratterizzato la storia recente del Paese.

Viene inoltre segnalata come zona di rischio l’area del Mar cinese meridionale, nella quale le contrapposizioni tra Stati Uniti e Cina hanno raggiunto livelli di tensione molto alti. Infine, ultimo Paese considerato sensibile è la Colombia (10), la terra della più longeva guerriglia del continente. Nonostante la prosecuzione dei colloqui di pace tra Farc e governo a L’Avana, una vera e propria cessazione delle ostilità nel paese latinoamericano non sembra arrivare, tanto che solo ieri (17 ottobre) l’esercito ha ammesso di aver catturato e ucciso un ribelle dell’Eln.

Parliamoci chiaro: accorgersi di queste sanguinose guerre sui nostri media è impossibile, eppure ogni giorno muoiono e soffrono milioni di esseri umani e l’Italia ha un ruolo (nemmeno tanto marginale) in diversi conflitti sparsi nel mondo: proviamo con un breve focus quindi a vedere da soli cosa sta succedendo in alcuni di questi scenari di guerra dimenticati dai grandi media.

 

LA FAIDA IN SUD SUDAN

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Il Paese “più giovane” al mondo, nato nel 2011 con un referendum che ne ha sancito la separazione dal Sudan è tormentato da una guerra civile senza sosta. Le autorità militari sudsudanesi hanno affermato lunedì 17 ottobre che 56 ribelli sono stati uccisi negli ultimi due giorni in scontri tra governativi e forze d’opposizione vicino a Malakal, località nel nordest. Dall’inizio della guerra civile tra Kiir e Machar il Sud Sudan sta scivolando verso la catastrofe umanitaria. Secondo varie organizzazioni internazionali, da 4 a 5 milioni di persone rischiano di morire di fame e malattie per mancanza di cibo.

 

IL KASHMIR CONTESO

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Il Kashmir indiano sta vivendo un periodo di proteste tra i più violenti degli ultimi anni. Coprifuoco, social network oscurati e giornali chiusi fanno da contorno a un clima che rimane fortemente instabile e vive negli ultimi giorni una escalation di tensioni, con operazioni militari lungo il confine. Una crisi, quella fra India e Pakistan, che viene da molto molto lontano, più precisamente dalle guerre indopakistane di fine anni 40, dovuti alla divisione della Colonia Inglese. Ancora oggi quei confini sono contesi col sangue; nello scorso anno sono iniziate le proteste e questa estate è scoppiata la guerriglia: il 30 settembre l’India ha chiesto il rilascio urgente di uno dei suoi soldati catturati dalle truppe pakistane nel Kashmir, il territorio conteso in cui Nuova Delhi ha detto di aver condotto “attacchi chirurgici” pochi giorni prima. Nella regione il coprifuoco è stato imposto dopo che, durante alcune manifestazioni per l’indipendenza dall’India, i militari hanno ucciso Burhan Wani, un giovane leader ribelle. Almeno 50 persone sono morte e centinaia sono rimaste ferite in due mesi di scontri.

 

INTIFADA PALESTINA

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Gli ultimi dodici mesi hanno visto, nel silenzio del mondo intero, intensificarsi le violenze sui territori palestinesi occupati. Il centro dei disordini è nella west bank: intorno a Gerusalemme sono morte 274 persone nei passati 12 mesi, l’85% delle quali erano cittadini palestinesi. L’età media degli uccisi è di 22 anni, tuttavia è 19 anni l’età in cui muoiono più ragazzi. L’ultimo mese ha visto una escalation di uccisioni, l’ultima vittima è Naseem Abu Meizar, ucciso il 30 settembre dalle forze israeliane.

 

LA STRAGE IN YEMEN

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Le Nazioni Unite hanno annunciato il 17 ottobre un cessate il fuoco di 72 ore su tutto il territorio dello Yemen nella speranza di mettere fine a un conflitto che in diciotto mesi ha fatto quasi settemila morti e ha innescato una gravissima crisi umanitaria. La guerra ha costretto almeno tre milioni di yemeniti ad abbandonare le loro case dopo che nel marzo del 2015 è entrata in azione una coalizione militare araba sotto il comando saudita per sostenere le forze del presidente Hadi. Altri tre milioni di persone hanno bisogno di aiuti alimentari immediati e 1,5 milioni di bambini soffrono di malnutrizione, denuncia l’Unicef. I negoziati di pace, che si svolgevano in Kuwait con il patrocinio dell’Onu, sono stati interrotti il 6 agosto dopo tre mesi di colloqui infruttuosi. Per il controllo del paese a Sud della penisola araba le forze occidentali (Stati Uniti in testa, ma anche Gran Bretagna, Germania, Francia e Italia) stanno supportando i principi sauditi in una serie di violenze inaudite. In una conferenza stampa a Sana’a, il ministero ha aggiunto altri 751 civili che sono stati uccisi e feriti negli attacchi aerei dell’8 ottobre; la coalizione ha distrutto anche centinaia di ospedali e scuole del paese.

Una catastrofe senza fine e senza senso.

IL REPORTAGE | Quella rosa sulla cicatrice Bosnia

Rita Sanzi
Rita Sanzi
Settembre27/ 2016

D’inverno cade sempre la neve, nel resto dell’anno piove quasi ogni giorno. Il sole si vede poco, la pace di meno. Questo pezzo di terra fino al 1992 componeva il mosaico Jugoslavia,  oggi la chiamano Bosnia ed Erzegovina. Ma potrebbe durare poco; ieri il 99 per cento dell’etnìa serba ha scelto il mantenimento della festa nazionale il 9 gennaio, un fatto che secondo il governo è una provocazione secessionista senza precedenti.

Quasi al centro del Paese c’è Sarajevo, capitale, “Gerusalemme d’Europa” e “meeting of cultures” come recita una scritta incisa su una delle strade principali della città. Su quella strada passano i piedi di donne integralmente velate e di uomini biondi, di imam e rabbini, sacerdoti cattolici, di ragazze italiane o francesi con i jeans strappati ad altezza del ginocchio. Vivono insieme ogni giorno, affrontando le conseguenze quotidiane e gli strascichi di un passato macchiato di sangue, componenti di tre diverse etnie: croati cattolici, serbi ortodossi e bosniacchi musulmani. La Bosnia ed Erzegovina fa i conti ancora adesso con tutto ciò che è stato; cerca di ripartire senza dimenticare il dolore subìto: i palazzi e i segnali stradali mostrano ancora i buchi dei proiettili. È uno Stato che ha seppellito troppi morti in fosse comuni, ha pianto troppe donne stuprate, ha assistito impotente alla distruzione di troppe case.

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A circondare Sarajevo, fino ad arrivare pian piano ai confini nazionali, piccole realtà di montagna arretrate e spesso protagoniste del massacro degli anni ‘90. Tra le più colpite, a 11 km dal confine serbo, c’è Cerska, un piccolo villagio di pochi abitanti (circa 1500) della zona montuosa orientale bosniaco- erzegovese. Durante gli anni del conflitto fu parte dell’enclave di Srebrenica e fu tra i primi paesi ad essere devastato dai soldati serbi guidati da Mladic. Per un attimo i giorni della guerra sembrano essere lontani ma invece tutto, lì, ricorda ancora i giorni che sono stati e che non dovranno più essere. Poche case di mattoni a vista molto distanti tra loro, mezzi di trasporto e di comunicazione quasi assenti: internet è un lusso, i bambini vanno a scuola (due le scuole elementari della zona) a piedi anche dopo le nevicate dei mesi invernali.

Nuclei familiari che hanno ereditato e si trascinano dietro un dolore enorme vissuto o raccontato. Arrancano a fatica in esistenze semplici con la loro povertà in case mai terminate: un orto sul retro, qualche gallina, un cane da guardia, abiti ricevuti dalle organizzazioni e fondazioni europee che operano sul territorio.

È in una di queste case che vive la madre di Samra, dodicenne con un tumore al cervello e crisi epilettiche. Con la piccola e sua madre vivono i due figli più grandi e il marito. Tutti gli uomini di casa sono disoccupati ma vorrebbero, un giorno, aprire un negozio di articoli tessili. Entrano dalla porta d’ingresso con delle pannocchie in mano e con addosso tre magliette identiche della Lazio (dono di una famiglia di Ostia che li aiuta a distanza). Tre le stanze in cui vivono: una cucina, un bagno con la doccia rotta, una camera da letto grande con un divano e i materassi impilati che la notte vengono poi distribuiti sul pavimento.

Non c’è spazio per i letti nelle case di Cerska. A venti minuti di distanza abita Elvira. Tante sono le lapidi disseminate lungo il percorso che separa le case. Lapidi singole o raggruppate, a volte cimiteri nel verde, tra gli alberi. Elvira ha due bambine, il marito è scomparso a causa di un infarto già da un paio di anni. Piange mentre lo racconta e fissa un quadro con una moschea in bianco e nero incorniciata e appesa su una piccola poltrona in finta pelle. Racconta con imbarazzo quanto è difficile fare la spesa per i pasti. Mentre lo dice lo sguardo si sposta sui fiori che ha appena raccolto e sistemato sul tavolino della cucina.

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Una ragazza di Cerska (FOTO Camilla Cattabriga)

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La bambina vive con le zie, la madre e altri cinque bambini nelle montagne di Cerska. (FOTO Camilla Cattabriga)

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La solitudine di un giovane nella sua casa di Cerska (FOTO di Camilla Cattabriga)

Altri chilometri di salite e altre lapidi bianche per arrivare da Hava: sessant’anni, un figlio morto perché ferito e non curato per mancanza del denaro necessario. La sua abitazione è senza tetto da quasi quindici anni. Un coniglio in gabbia in un angolo di quella che è praticamente una capanna, un materasso sporco nell’angolo opposto con qualche coperta vecchia gettata a caso e proprio lì accanto un fornellino elettrico.

La Bosnia ed Erzegovina oggi è in parte (in gran parte) ancora questa.

È stata ed è ancora la vernice rossa gettata nei solchi lasciati dalle granate che hanno distrutto. Quella vernice è diventata un fiore che copre la ferita, una rosa che ingentilisce la cicatrice. Sono le stelle, tantissime, che riempiono il cielo. È il contadino che ringrazia della visita staccando delle pere dal suo albero, la moglie che porge  – quasi vergognandosene  – una busta di prugne (e mostra anche come sbucciarle). L’odore di fumo e a volte di sporco che entra nelle narici quando si varcano gli usci delle case. I denti rovinati o mancanti, anche nelle bocche dei bambini, che compongono sorrisi spenti, storti, vuoti. Sono le mani di una vedova che sistema in un vassoio dei biscotti nonostante abbia appena smesso di piangere per dei debiti che non sa come saldare. È l’abbraccio grato di chi vive col niente. Sono gli occhi persi nel vuoto e gli spasmi di un ragazzo ormai perso nella sua malattia a causa di un intervento fallito quando aveva solo sei anni. Sono i piedi scalzi che camminano sui tappeti della case dei bosniaco-erzegovesi di fede islamica e le orecchie che ascoltano il richiamo alla preghiera che proviene dalla moschea. Sono le braccia di altri sulla schiena mentre si ballano in cerchio danze del posto, danze veloci e travolgenti. È la ruga che attraversa la fronte di donne e uomini sui cui volti il tempo ha avuto troppa fretta di passare e scavare. È la certezza che arriva dritta nello stomaco appena te ne vai che di Bosnia ed Erzegovina bisogna continuare ad occuparsi, che comunque si chiamino in futuro, qui si deve andare e poi tornare. Si deve tornare per i gesti, per il dolore, per la rinascita di Samra e di sua madre, di Hava, di Elvira e di ogni singola persona che tra quelle montagne continua a soffrire.

Carmen Baffi
Carmen Baffi
Settembre22/ 2016

È Lercio o non è Lercio? 70mila fan su Facebook e 15mila su Twitter. In poco tempo sono diventati un fenomeno virale sul web. Sono stati premiati, per la seconda volta consecutiva, al Macchianera Italian Awards come “Miglio Sito” e “Miglior Battuta”. Hanno ricevuto il “Premio Satira Politica” di Forte dei Marmi. Ora sbarcano al Teatro Rendano di Cosenza (23 settembre 0re 19) con uno spettacolo spumeggiante che sarà il fiore all’occhiello dell’area editori della nuova edizione del Festival del Fumetto. Ebbene sì, è proprio Lercio.

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La redazione di Lercio premiata ai Macchianera Awards

Patrizio Smiraglia mi risponde in mattinata dalla redazione di Lercio.it; domanda inevitabile: cosa pensi della vignetta di Charlie Hebdo su Amatrice e delle reazioni che ha suscitato in Italia?

«Ci sarebbe tutto un discorso da fare sulla satira, la tragedia o sulla tragedia + spazio-tempo come dice Luttazzi. La vignetta in sé è brutta. Diciamo che una vignetta simile fatta da un italiano sarebbe inconcepibile. Un francese, invece, essendo lontano dalle vittime, non le sente, non gli riguarda. Il tentativo di spiegarla il giorno dopo, non mi è piaciuto, perché se il significato era che ancora in Italia nel 2016 si muore per un terremoto, quando in realtà ci sarebbero tutte le tecniche antisismiche per evitare queste tragedie e quindi una critica all’Italia e al suo modo di fare politica o alla mafia, che si infiltra sempre negli appalti, il significato potrebbe essere anche accettabile. Ma nella prima vignetta questo significato non c’era. C’era solo uno sfottò alle vittime, che sono “schiattate” e sono diventate come una lasagna. È stata indelicata e non è stata salvata dal secondo tentativo».

Al di là dei troll, c’è ancora chi commenta e condivide i vostri link credendo siano notizie vere o, peggio, bufale: c’è rimedio per chi non capisce l’ironia?

«Ironia: devi arrivare a capirla. Comunque ancora non ci conoscono tutti, quindi una persona che si avvicina per la prima volta a un computer, magari anche di una certa età, è chiaro che ha difficoltà a distinguere cosa è vero da cosa è falso o cosa è scherzoso. Tra l’altro il linguaggio è molto simile a quello giornalistico, Lercio nasce per questo. Il fatto che qualcuno non capisca non è un buon motivo per non continuare a fare ironia anzi, dobbiamo continuare così la prossima volta potranno capirlo anche loro. Poi nel Paese c’è un grande problema di analfabetismo funzionale, oltre che digitale. Qualche giorno fa l’ISTAT ha certificato che in Italia c’è un 47% di analfabetismo funzionale: gente che legge un testo senza capire cosa ci sia scritto. Quindi parliamo di un Paese facilmente manipolabile dalla propaganda, anche televisiva oppure in questo periodo possiamo parlare di quella sul referendum, con cui si punta proprio sul manipolare la gente».

– I manifestanti pro Silvio pagati 10 euro a testa.

– Ma non si vergognano?

– Sì, per altri 10 euro.

(Patrizio Smiraglia)

Nell’ultimo periodo siete spesso superati dalla realtà: qual è la notizia che ti ha fatto dire: “Ah ma non è Lercio!”

«Sì. Di recente, ce n’è stata una, davvero assurda, sul Corriere Adriatico che diceva “Uomo nudo ruba un cavallo e scappa per i boschi: task force per fermarlo”; un’altra è stata la polemica su Gianni Morandi che va a fare la spesa di domenica: una così così stupida che voglio pensare che sia artefatta; ma soprattutto, in questi giorni, c’è la campagna del “Fertility Day” della Lorenzin, per esempio fra le ultime immagini ci sono le compagnie da frequentare e le cattive compagnie, di cui poi lei ha detto di non sapere niente e che addirittura  rimuoverà il dirigente – poverino! – ma la Lorenzin sta facendo figuracce una dietro l’altra! È tutto un modo di fare politica che crea una visione distorta della realtà, della società: i ragazzi veri non sono quelli delle pubblicità “belli” e “perfetti”».

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Lercio.it ha così preso in giro le discusse campagne pro fertilità del ministro della Salute

Lercio è un caso particolare, ma anche sul vostro sito la maggior parte dei lettori si ferma al titolo? Se sì, avete in mente qualche iniziativa per far rimanere di più il pubblico sul vostro portale?  

«Noi abbiamo le “ultim’ora” che si fermano al titolo e gli articoli lunghi. Sicuramente, dovremmo fare qualcosa per portare un po’ più di traffico sul sito, perché abbiamo dei numeri pazzeschi sulla pagina Facebook, ma non sul sito. Il fatto è che, purtroppo, molti lettori, anche i più affezionati non hanno ancora ben chiara la differenza tra ultim’ora (notizia breve) e articolo. Ancora molti mi chiedono perché a volte c’è solo la foto, perché non trovano la notizia. Stiamo facendo di tutto per chiarire questa confusione».

Siete partiti sfottendo i siti di informazione “fast food” e sensazionalisti, che dati avete nel pubblico giovane? Secondo te c’è speranza per la satira e la denuncia o andremo sempre peggio?

«Io spero ci sia un ritorno della qualità. Sarebbe più furbo per un editore puntare su questo, visto che ormai il trucchetto di scrivere i titoli sensazionalistici, titoli inutili, lo usano tutti. Purtroppo anche i grandi giornali, che si sono adeguati al ribasso, al “fast food”. Un’anticipazione della notizia nel titolo invece mi ingolosirebbe di più. Un giornale che si voglia distinguere dovrebbe puntare sulla qualità e dovrebbe dare una discreta spiegazione nel titolo e convincere con gli argomenti il lettore a cliccare sulla notizia. Sarebbe anche più facile, perché lo stratagemma del titolo sensazionalista ormai ha scocciato un po’ tutti».

Avete deciso di allargare la vostra comunità offline con un libro e uno spettacolo teatrale, com’è nata questa decisione, che aspettative avete?

«Noi abbiamo vinto il premio “Macchianera” del 2014 come “Miglior Sito d’Italia”, di sabato; e il lunedì siamo stati chiamati dalla “Rizzoli” per fare un libro. Eravamo contentissimi! In un mese abbiamo confezionato il libro, che è stato mandato in stampa; è uscito per Natale e poi la Rizzoli se l’è totalmente dimenticato, visto che non lo ha mai pubblicizzato. Quindi abbiamo iniziato noi a portarlo in  giro, organizzando varie presentazioni. Ma molti, molti dei nostri fan non lo sanno nemmeno che abbiamo un libro!  A giugno scorso comunque è andato in ristampa, perché siamo 40 ragazzi sparsi in tutta Italia, abbiamo fatto molte serate ognuno nelle proprie zone, nelle librerie e siamo riusciti a vendere tutta la tiratura, tanto che la Rizzoli l’ha ristampato, ma sempre per tenerlo in qualche cassetto, perché  se non ci pensiamo noi, nessuno ci aiuta!  Lo spettacolo invece è nato probabilmente da una partecipazione alla trasmissione di Serena Dandini e abbiamo visto che funzionava leggere le nostre notizie in studio. Poi abbiamo iniziato a proporla nei locali ed è andata bene. E alla fine abbiamo deciso di scrivere un copione, fatto dalle nostre notizie più varie rubriche, quindi un vero e proprio Tg satirico, fatto anche di un gioco interattivo con il pubblico, in cui si deve distinguere la notizia di Lercio da quella della stampa – per dire – “seria”. Ci stanno chiamando in molti, quindi sta andando bene».

Francesco Cangemi
Francesco Cangemi
Settembre21/ 2016

Mente, non mente e chi lo sa e forse poco importa. Non è pigro di testa, non lo è stato mai. Forse oggi è più ben vestito che anni addietro. Giovanni Lindo Ferretti inizia il check sound della sua tappa calabra del tour “A cuor contento” portando con sé una specie di tavoletta avvolta da un panno. Al suo fianco, nel check come nel concerto, ci sono i musicisti Ezio Bonicelli e Luca A. Rossi. Da quella tavoletta non toglie fuori un temibile iPad ma dei fogli di carta con testi e salmodie. Cambia il tempo, cambiano le sue opinioni ma continua a mantenersi distante dalla tecnologia se eccessiva. La data del concerto è suggestiva: 11 settembre. Quindici anni prima, dopo l’attacco alle Torri Gemelli e dopo le sue dichiarazioni su Occidente, Oriente, Cristianesimo e mondo musulmano, tanti dei suoi fan lo hanno additato come un traditore.

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Giovanni Lindo Ferretti a La Sila Suona Bee ’16 (FOTO Domenico Orfeo Zauber)

Archimedia lo voleva portare in cima alla Sila, sul Monte Curcio dove già suonò Capossela, ma «qui comanda l’acqua, qui comanda il vento», si rassegna Ferretti e si canta in una palestra di Camigliatello. Come fossero gli anni Ottanta perché, in trittico con Bonicelli e Rossi, in fondo sembra di assistere ad un concerto dei Cccp senza Annarella e Fatur ma suonato molto, molto meglio di chi partecipava a quei mistici spettacoli. Fuori c’è il temporale, dentro un po’ di diffidenza, anche fra i fan più fedeli alla linea. La linea c’è. Eccome se c’è. La si vede chiara quando Giovanni Lindo intona Tomorrow, Mi ami?, o Tu menti. Il tour di A cuor contento racconta anche i Csi. Brani come Cupe vampe, Del mondo o Occidente fanno smettere a quel fesso in prima fila di alzare il terzo dito verso il cantante. Ferretti conquista e riconquista gli scettici convincendoli che il vero punk è ancora lui che continua a far parlare di sé da 30 anni. Si rinnova nella sua tradizione e il pubblico, racconta lui a fine concerto, «non lo ingannerebbe mai con qualche furbata» perché «io dico sempre e solo quello che penso anche quando salgo sul palco». Fra And the radio plays e Battagliero c’è spazio per la rivisitazione di Radio Kabul che diventa, oggi che la guerra è diversa da quella della fine degli anni Ottanta, Radio Mosul dove le grida e il sangue però si assomigliano sempre. La terra, la guerra sono sempre una pubblica questione privata che Giovanni Lindo Ferretti continua a portare dentro il suo animo e fuori dalla sua voce. E grida, grida e non vuole finire nemmeno quando insieme a lui il pubblico intona che «La terra è pesante, pesante da portare» o quando dalle vette della piovosa Sila, Emilia paranoica riecheggia come una canzone di casa. S’è fatto pensiero del Consorzio suonatori indipendenti, protagonista del cambiamento dei Per grazia ricevuto, s’è preso le critiche per i suoi progetti da solista ma con A cuor contento, Giovanni Lindo Ferretti permette di capire che l’anima che resta dentro di lui è quella che andava da «Carpi al Tuwat». Applausi e zero critiche. Sorridete, Cccp è (ancora), con voi.

alfredo sprovieri
alfredo sprovieri
Settembre15/ 2016

 

Alessandro Bozzo (FOTO guru)
Alessandro Bozzo (FOTO guru)

Ammazzare la vita o farsi ammazzare dalla vita. Sanno tutti qual è stata la scelta di Alessandro Bozzo, 40 anni, giornalista come sanno esserlo pochi. Alle Idi di Marzo dell’anno numero 2013 ha preso congedo dalla redazione centrale di Calabria Ora come non faceva mai, si è chiuso in casa sua a Marano Marchesato e si è sparato un colpo a bruciapelo con la beretta semiautomatica 98fs calibro 9×21 legalmente detenuta. Ha lasciato tre pagine ai suoi cari per spiegare il gesto. Sul corpo, come da prassi, è stato disposto l’esame autoptico.

Lui, rapace cronista di Donnici, le scriveva esattamente così. E così voleva che le scrivessimo. Poche storie, ti faceva sedere accanto a lui e falcidiava senza remore, con tocchi sulla tastiera pronunciati come echi di guerra, tutta quella roba da mammolette che non aveva a che fare con la notizia. Diceva proprio così.

– “Frasi corte e pochi aggettivi, cazzo”.

Il silenzio era interrotto solo da commenti capaci di farti sprofondare un metro ad ogni risatina dei colleghi. Poi si alzava per andare a fumare, soddisfatto. Aveva praticamente riscritto di sana pianta la cosa. Infine si girava già con la sigaretta pendula dalla bocca, ti dava una pacca e diceva:

– “Hai fatto un buon lavoro”.

Gridava come un pazzo se ti scappava il racconto in prima persona e forse perché ora vorrei che lo facesse per coprire questo silenzio che scrivo così. Che io scrivo. Perché di noi restano le parole. Questo di una lunga serie è il suo ultimo insegnamento. Le strampalate espressioni da film western continuano a rimbombare su quei pezzi di carta, come se quella voce inconfondibile nel nulla dei perché riuscisse a ricoprire anche il sordo rumore dello sparo. Le parole sono forti. Estranee all’anagrafe quelle con cui chiamava le vite degli altri; nomignoli capaci di reinventare il ruolo svolto da ognuno nella farsa dell’esistenza. A ripassarli ti pare di essere nell’ambientazione di uno dei romanzi che adorava citare. Per le qualità che dimostrava ogni fottuto giorno al lavoro Alessandro avrebbe meritato di commentare le semifinali di Wimbledon, o comunque di ricoprire i più alti ruoli all’interno dei giornali in cui ha lavorato con abnegazione unica, ma – lo sanno tutti – non è andata così.

L’impatto del giornalismo sulla società, soprattutto a latitudini meridiane, è in profonda crisi perché i molti pavidi si sono imposti sui pochi Bozzo. Lui sapeva benissimo che non esistono poteri buoni e sapeva anche che la libertà di stampa è un gioco lento e buio, fatto di partite perse, di censure d’ogni tipo. Ogni giorno, santo o dannato che fosse, lasciava agli altri le luci della ribalta e si dedicava con una concentrazione bizzarra quanto inviolabile a quelle del suo monitor. Questo fino a quando non mandava alle stampe le sue pagine, che a volte lo tradivano e si chiudevano da sole, facendolo smadonnare contro i tecnici. Quando finiva, a tarda sera, soddisfatto alzava a palla il volume di una videoclip musicale di Youtube per poi bitumare il primo che gli capitasse a tiro. Odio e amore, l’oscura passione per il suo lavoro lo faceva sentire come l’Andrè Agassi di Open, l’ultimo libro di cui abbiamo discusso.

Ha sempre lottato per essere libero nella stampa. In anni lunghissimi. Nei giorni dell’ennesimo disastro, dopo una grossa notizia che provarono a censurare dalla Regione e un susseguente truculento braccio di ferro con l’editore, la spina dorsale della redazione, direttore compreso, si era liquefatta in una lettera di dimissioni. Per i colleghi più giovani in quelle ore di ammaraggio impersonò l’uomo della salvezza; ma lui subito si affrettò a spiegarci che era ormai tramontata un’epoca di lotta collettiva, che da quel momento in poi saremmo stati ognuno da solo contro i mercanti di tappeti. Come sigarette che bruciano, pendevamo dalle sue labbra e, nel caso a qualcuno fosse lo stesso sfuggito il concetto, fu pronto a rimarcarlo: quei tappeti eravamo noi e il mercante era il più tremendo che potesse capitarci.

Amava la politica, ma odiava potenti e arroganti. Aveva l’amicizia e la stima di molti politici, ma il suo lavoro non è stato amico di nessuno di loro. Il giorno che morì prematuramente il già presidente della Provincia di Cosenza Antonio Acri, raccontò di quando davanti a tutti venne da lui indicato prima di queste parole:

– “Attenti a questo qui, lo considero un amico, ma per dare una notizia non guarderebbe in faccia nemmeno alla madre”.

Alessandro Bozzo rispose a voce alta che quello era il più bel complimento che gli avessero mai fatto. Teneva le sue idee politiche lontane dal suo lavoro, ma la sua coscienza civile c’era sempre. Sapeva farsi rispettare e quando non poteva scrivere una notizia in un pezzo cercava di infilarcela diversamente, con un ghigno beffardo di soddisfazione. Un esempio ne sia la sera in cui fece quella matta copertina, sapendo che non l’avrebbero mai fatta passare. Si era organizzata in Comune la visione collettiva dell’insediamento di Obama, una cosa obiettivamente pleonastica. Mise a tutta pagina l’ottima foto che ritraeva il primo cittadino seduto di spalle nella sala deserta, mentre sullo sfondo compariva il maxischermo con l’immagine di Barack. In basso il titolone, in carattere Georgia, cubitale sullo stile de Il Manifesto:

CAZZONE AMERICANO”.

Bozzo era capace di far cadere una giunta con una didascalia ironica, diceva:

–  “Prendili per il culo i potenti, falli incazzare e litigare fra loro così domani abbiamo un ritorno, e se ti rompono il cazzo dai sempre la colpa a me. Poi se mi chiamano chiaramente gli dico che sei un coglione”.

Poliziotto buono poliziotto cattivo, ci giocava anche con se stesso. Nelle maglie della Procura di Castrovillari era stato messo alle strette da uno scorbutico magistrato insieme a Luigi Brindisi, suo giovanissimo pupillo. Doveva dare conto di una telefonata fatta sul cellulare del piemme per verificare una notizia, erano gli anni de La Provincia Cosentina dei record, quando lo mandarono per un praticantato nella città dormiente. Era un’opportunità che viveva come un esilio, visto quante volte aveva pestato i piedi ai potenti animali politici della infida foresta bruzia. Quella sera disse male. Sbagliarono numero, beccando il Procuratore della Repubblica sbagliato:

– “Chi parla? Questo è un numero di servizio di conoscenza esclusiva alle forze dell’ordine in servizio, voglio sapere come l’avete avuto, altrimenti sappiate che su questa storia apriremo un fascicolo”.

Così gridò ai due ragazzi di stampa l’uomo di legge, chiedendo le loro generalità.

– “Bbi, bbi, o, zeta, zeta, o. Bo-zzo. Buonanotte”.

E chiuse il telefono senza scomporsi. Proprio come quell’altra volta in cui il cazziatone dovettero sorbirlo da un altro Procuratore nei corridoi del Palazzo di Giustizia. Finalmente interrotto il diluvio verbale, con il giudice convocato nella stanza del suo superiore, Luigiuzzu indirizzò le antenne, pronto a recepire il commento dell’amico e maestro sul da farsi:

– “Che cazzo fai lì impalato, entra e fatti uno squillo dal suo telefono così ci prendiamo anche questo numero. Io ti faccio il palo e ti avverto se torna!”.

Inarrivabile. In quindici anni di carriera circa venti fra querele e citazioni. Che io sappia non è mai stato condannato, neanche quella volta che un politico gli chiese 250mila euro per un suo pezzo su finanziamenti illeciti. Me lo raccontò quando gli dissi che l’assessore che aveva fatto avere lo stipendio da vigile urbano al nipote meccanico me ne chiese 180mila per un titolo che lo accostava alla parola Parentopoli. In caso di condanna avremmo saldato il conto in dodici vite di lavoro, al patto di sommare gli stipendi, dicevamo stemperando.

Se era in vena iniziava a parlare di vino, razze di uccelli e distese del Canada per moltissimo tempo, senza farti fiatare. Quando invece c’era da andare sul posto il silenzio della battaglia attanagliava il suo spirito guerriero. Era il primo ad alzarsi dalla scrivania, veniva posseduto da un demone. Come quella volta che si fiondò nelle campagne di Morano intontite dalla neve, o quell’altra volta alla partita di calcio con ammazzatina.

Ogni sconfitta lo feriva, ma ogni vittoria lo esaltava. Quando leggeva su altri giornali le notizie che non ci avevano fatto scrivere faceva un plateale gesto di disappunto, ma in fondo si vedeva che era contento lo stesso; lo riteneva un pareggio, perché il suo unico padrone era la notizia. Ricordo che andò così quando arrivò l’ordine di lasciar stare la storia della Curva Nord dello stadio di Cosenza interamente dedicata al boss uscito dal 41bis. Dopo l’esame da professionista lo cacciarono, ma poi arrivò il nuovo giornale, e nei primi tempi, molto prima di quella domenica di mafia e di sport, di vittoria ne ottenemmo qualcuna.

Un pomeriggio arrivai in redazione con i documenti che dimostravano stranezze negli appalti di funerali e tumulazioni dei defunti ospiti di una clinica privata della Sibaritide convenzionata con la Regione Calabria. Non mi era ancora concesso di partecipare alle riunioni, così aspettai su uno squallido divanetto rosso e nero il responso. Uscì per primo, mi diede un calcio e mi schernì, contento perché il fottuto presilano aveva spaccato con una notizia cazzuta. Disse proprio così.

– “Comunque il tuo pezzo migliore resterà sempre quello del prete che se l’è svignata”.

L’occhiolino diceva tutto. La notizia del racket del caro estinto non sarebbe mai uscita, mentre quella della misteriosa fuga del parroco era la prima vittoria che riuscimmo a fare insieme. Era un’altra domenica pomeriggio, lo telefonai direttamente dalla casa del prelato che non si presentò a messa, prima ancora che arrivassero i carabinieri per le verifiche. Mi parve di capire che era a pranzo con ospiti e che si chiuse in bagno ad esultare perché quella notizia l’avremmo avuta solo noi. In redazione chiamarono in tanti fino alla notte, dalla sede vescovile e altro ancora. Per qualche motivo che non capivo bene, volevano a tutti i costi che non la pubblicassimo e provarono in ogni modo a fermarci. Al cellulare un funzionario delle forze dell’ordine mi minacciò in modo nemmeno tanto velato, mi disse che mi avrebbe reso la vita impossibile – e così per qualche settimana fece – ma il direttore intervenne a nostra difesa, dandoci la forza di andare fino in fondo. Il giorno dopo venne giù l’arco celeste. Pietrificato, senza riuscire a dire una parola per ore, mi trascinai tremolante in redazione. Poi arrivò Bozzo, che come un gringo già dal parcheggio gridava parolacce di giubilo con il giornale in mano come fosse un Winchester. Scoppiammo tutti a ridere.

I giorni continuano a sovrapporsi nel ricordo, confusi e infelici. In uno c’è la Digos in redazione a cercare nei cassetti per censurare la pubblicazione della relazione d’accesso di un prefetto al Asl di Locri, in un altro c’è la lettera gialla sulla sua tastiera bianca. Se non la smetteva con la politica e con Cassano, gli avrebbero fatto saltare la testa, a lui e all’editore. Così c’era scritto. Si girò, ce la fece leggere, ci scherzò su e continuò a lavorare. Il giorno dopo tornò preoccupato, ma mentre i colleghi perdevano delle ore a rimpastare le dichiarazioni di solidarietà che arrivavano alla redazione, lui in un attimo le sostituiva con una riga:

Diffusa solidarietà dal mondo della politica”.

Oggi farebbe lo stesso, non accetterebbe ipocrisie da parte di nessuno. Questa sua visione del mestiere emerge già dagli scritti giovanili su un giornale di quartiere che si chiamava Risvegli. C’è un articolo particolare del 1993, brillante quanto sconosciuto, su Kafka, nel quale Bozzo usando la prima persona (tiè!) analizza il rapporto fra le parole e il lettore. Inizia così:

Io somiglio a quei selvaggi di cui si dice che non desiderino altro che morire, o meglio, non hanno nemmeno più questo desiderio, ma è la morte che ha desiderio di loro e loro le si abbandonano, anzi non le si abbandonano nemmeno, ma cadono semplicemente nelle sabbie e non si rialzano più”.

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Sosteneva quindi che gli scritti non si muovono verso il lettore per comunicargli un messaggio o imporgli un senso, ma esistono nella ricerca della propria “morte”, che significa azione. Quando trovano un lettore che ha “desiderio” verso di loro, semplicemente gli si abbandonano, come in un sogno, o qualcosa del genere. Scrisse proprio così. Basterebbe questo stralcio a spiegare perché il suo esempio è da collocare accanto a quello dei migliori nel giornalismo meridionale, ma odiava i complimenti retorici, figuriamoci postumi. Se te ne voleva fare uno, al massimo ti diceva che eri un duro. Altrimenti eri un filisteo. Del resto i capelli lunghi che Alessandro Bozzo amava intrecciare fra le dita erano un segno distintivo al pari del mito di Sansone. L’imbattibile eroe dalla forza prodigiosa, astuto con gli uomini quanto ingenuo con le donne, che comprese come quello di far crollare il tempio fosse l’unico modo per vendicarsi dei nemici, anche a costo della propria vita.

Sansone è morto, a morte i filistei.

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Tratto da “Sacro Fuoco, storie di libertà di stampa”

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il reportage | MOTEL MIGRANTE

Francesco Cangemi
Francesco Cangemi
Agosto31/ 2016

Non è l’albergo a cinque stelle citato dai razzisti, ma non è nemmeno una bettola. Il Centro di accoglienza straordinaria di Conflenti, nel catanzarese, è migliorato molto dall’ultima visita della rete LasciateCIEntrare. Lo gestiva una cooperativa che oggi non ha più la possibilità di chiedere al prefetto l’attivazione di un Cas. Tre lettere che in questa estate calabrese sono diventate “magiche” per alcuni. I centri di Accoglienza Straordinaria (CAS) sono stati immaginati per sopperire alla mancanza di posti nelle strutture ordinarie di accoglienza. La permanenza dovrebbe essere limitata a poco tempo, ma ormai tutto questo è diventato la norma. Di colpo i migranti non sono più un problema ma sono diventati una risorsa (economica), grazie alla facile possibilità di aprire un Cas con un’associazione, una cooperativa o un’azienda. Basta andare in una Prefettura, dimostrare di avere una struttura e si ottiene il permesso. Facile. Fin troppo: è il Motel Migrante.

In Calabria, questa estate, sono sbarcati quasi tremila migranti. Molti di loro sono dei rifugiati politici e chiedono di accedere al programma Sprar che dovrebbe consentire allo Stato italiano di metterli al sicuro dalle guerre e dalle violenze da cui sono costretti a scappare. Nella gran parte dei casi, se non fosse per le associazioni a cui vengono affidati i progetti dello Sprar, queste persone sarebbero totalmente allo sbando. Yasmine Accardo è la responsabile territoriale di LasciateCIEntrare, vive fra la Basilicata (“la Lucania”, come dice spesso lei), e la Calabria. In Calabria questa estate è venuta molte volte. O lei o qualcuno dei suoi colleghi, perché i Cas nella regione sono diventati molto appetibili: sono finiti nei business di alcune delle famiglie della politica o di quelle che si occupano di sanità privata; sono entrati un po’ nel mirino di tutti, persino nel mirino di chi possiede un hotel. Accade a Rende, a un passo da Cosenza (città in cui passano molti migranti perché, fra loro, si è sparsa la voce di come il sistema accoglienza alternativo a quello della burocrazia funzioni molto bene), per esempio dove un residence è diventato prigione dorata per 20 persone, tutte richiedenti asilo provenienti dal Togo, dalla Nigeria, dalla Guinea, dall’Eritrea. Con Yasmine a far visita a questi centri ci sono Emilia Corea dell’associazione La Kasbah di Cosenza e l’attivista Francesco Formisani.

 

A Conflenti, qualche mese fa, la situazione era molto critica: uomini e donne vivevano tutti negli stessi spazi, problemi con il cibo e con i pocket money. Già i pocket money: lo Stato paga, per ogni migrante presente in un Cas, 35 euro, questi soldi dovrebbero servire per “gestire” le esigenze degli ospiti come telefono o all’acquisto di beni primari. Ad ogni migrante del Centro vanno 2.50 euro giornaliere che però vedranno solo a fine mese. Molte volte questi spiccioli vengono pagati in ritardo oppure non vengono spesi realmente per le esigenze dei migranti, ma in una parte dell’opinione pubblica ormai “loro” vengono qui a rubarci i nostri soldi, a rubare le tende ai terremotati. In questi giorni però il razzismo da bar ha subìto un duro colpo: i settantacinque migranti delle strutture Sprar di Gioisa Ionica hanno deciso di donare i 2.50 euro giornalieri del loro pocket money alle popolazioni terremotate di Lazio, Umbria e Marche. Hanno voluto aiutarci a casa nostra. Tanti i migranti che sono andati a spalare macerie nelle zone del terremoto. Ma queste sono cose che ai Bertolaso da bar non interessano. A Conflenti scopriamo che i Cas gestiti da Erima sono due: uno per donne e uno per uomini. A separarli, in questi giorni, c’è la festa patronale che impedisce alle auto l’ingresso in paese. Le donne sono 13 e c’è lì una bambina che ha meno di due anni. Non c’è nessun operatore quando arriva la delegazione. Le donne vengono quasi tutte dalla Nigeria e una dal Mali, sul volto qualcuna porta i segni dell’etnia d’appartenenza, altre della violenza. Due delle ragazze dicono di avere “eighteen years” ma abbassano lo sguardo quando lo dicono. Meglio stare con i maggiorenni che essere sbattute in centro per minori avranno pensato. Quattro donne sono incinta, una di loro ha la pancia così bassa che hai come l’impressione che ti partorisca davanti agli occhi. Il medico non lo vedono da tempo e quelle arrivate da pochissimo non hanno fatto ancora nessuna visita, non hanno iscrizione al Servizio sanitario nazionale e lamentano che l’acqua arrivi solo dal cassone. Aprono il rubinetto e si sente l’autoclave partire. La tv è accesa sul canale della Paramount perché ha il doppio audio e la si ascolta in inglese. Tredici donne africane guardano le storie dei protagonisti del cinema americano sognando di stare altrove e non in quella struttura. Arriva uno dei responsabili della cooperativa e gli attivisti raccontano delle istanze che hanno sentito. Lui garantisce che tutto è ok: c’è lo psicologo, il medico, l’avvocato e tutto quello che serve ma, quando Emilia, Yasmine e Francesco insistono dice che accontenterà le altre richieste delle ragazze anche se «c’è sempre qualcosa per cui lamentarsi».

Al Cas degli uomini, come dalle donne, i migranti possono cucinare da soli ciò che mangiano. E’ un fatto eccezionale perché quasi sempre viene imposto un servizio di catering che non tiene conto di gusti o esigenze religiose. Gli attivisti vedono che le cose sono migliorate rispetto alla precedente gestione. Ci sono diciannove uomini nella nuova struttura (una ex casa famiglia), e undici che stanno nel mattonificio lì vicino presto dormiranno sotto lo stesso tetto degli altri. Qui gli ospiti arrivano anche dall’Iraq, dal Camerun oltre che Nigeria e Mali. Ci sono anche una donna che sta aspettando di andare a Foggia dove il marito ha trovato lavoro e due minori affidati ad uno zio.

Tutti però raccontano di come il posto sia isolato e questo riporta al tema principale: mettere in piedi un Cas oggi è fin troppo facile e questo fa in modo che vengano aperti in località molto periferiche. Nella turistica Camigliatello, trenta chilometri da Cosenza, la prefettura ha fatto chiudere un Cas dopo che le associazioni hanno denunciato la situazione in cui i migranti vivevano. Una situazione di degrado. Una foto vista troppe volte in questa calda estate italiana.

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Agosto24/ 2016

di Andrea Bevacqua

Il Cleto Festival ci lascia in eredità un fiume di pensieri sparsi e uno zaino zeppo di impegni sociali e civili che andrà ben utilizzato in questo anno che ci apprestiamo a vivere prima di ritornarci. Chi vede in questo festival solo un’occasione per rivedersi con gli amici alla fine della stagione estiva, oppure esclusivamente una piazza festante a botte di musica e bicchieri di vino sbaglia, e di grosso. Cleto è un festival auto prodotto, con pochi sponsor, ricercati tra le aziende più oneste, attente al sociale e all’ambiente sul territorio. Un laboratorio umano alimentato dal lavoro certosino e silenzioso di un gruppo di ragazzi, quello dell’associazione La Piazza e di tutti gli altri collettivi che riescono a coinvolgere, che ha deciso di non abbandonare il proprio paese, ma di viverlo e vivacizzarlo in tutto l’arco dell’anno. Cleto è il luogo della Resistenza umana, della creatività e della fantasia, della ricerca di un modo diverso di vivere la nostra terra sganciandosi dalle solite dinamiche clientelari. Cleto è il posto dove la mediocrità non è di casa, dove qualsiasi forma di arte trova spazio tra i vicoli del borgo ad esclusione dell’atavica arte di sopravvivere accettando le briciole dei potenti di turno. Cleto è il posto della discussione libera, della riflessione nella musica, nel teatro, nell’arte, nella gastronomia.

(fotoservizio di Marco De Laurentis)

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Qui infatti si può bere e mangiare sano rispettando l’ambiente e contrastando le logiche dello sfruttamento delle multinazionali, stabilendo un contatto diretto con le piccole cooperative di contadini dell’America Latina e dell’Asia attraverso i prodotti del commercio equo e solidale. Anche solo per questo Cleto nei giorni del Festival diventa uno dei tanti momenti in cui si è orgogliosi di appartenere a questa terra; non ci sono “posti riservati” e gli unici politici che si intravedono nel borgo sono i piccoli amministratori dei comuni più virtuosi, quelli che hanno saputo valorizzare i beni comuni e dare dignità e forme umane all’accoglienza. Anche i giornalisti si distinguono, difficile trovare testate nazionali, e invece facile rintracciare in dibattiti e momenti di discussione quelli che amano raccontare le sacche di resistenza, non importa che abitino a Cosenza, a Roma o a Milano.

Così, ogni volta che si ritorna da Cleto ci si ritrova con un fardello pesante e pensante da portare a casa, una piacevole botta di energia che disorienta, che va metabolizzata, interiorizzata affinché possa essere spesa al massimo nella nostra quotidianità. Dalle piazzette tematiche dove si tengono gli incontri, si esibiscono gli artisti, si fa da mangiare, gli input lentamente si propagano scendendo a valle lungo il Savuto e raggiungendo la Salerno-Reggio Calabria. Scorrono nelle nostre vite diventando linfa vitale per i nostri futuri impegni civili, sociali e politici.

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Il Cleto Festival ormai rappresenta una droga di cui davvero non possiamo fare a meno, una rigenerazione per una generazione intera, soprattutto per chi ha deciso di restare tra mille ostacoli e mille peripezie. Risalire il borgo fino al castello diroccato rappresenta un momento catartico, quasi una metafora della nostra difficoltà a resistere in Calabria, eppure arrivati sopra basta un niente per rigenerarsi, basta guardare il mare e il sole che lentamente ci tramonta dentro, basta abbandonarsi collettivamente alla musica e alle parole e quel luogo che potrebbe benissimo rappresentare la nostra Fortezza Bastiani e farci diventare tanti sottotenente Giovanni Drogo in attesa dell’invasione dei Tartari ci rigetta a valle ricordandoci che la nostra vita adesso continua giù, dove c’è un nemico forte da combattere: la mediocrità, quella alimentata dai nostri padri, da chi ha pensato bene che abbassare la testa e accontentarsi degli spiccioli potesse essere l’unico modo per vivere tranquilli e sereni.

A noi spetta il compito di continuare ad incendiare il presente della nostra terra, in fondo nel nostro zaino portiamo dietro un libro chiamato NO LOGO che alla prima pagina recita un proverbio dei nativi americani:

“Puoi non vedere ancora nulla in superficie, ma sottoterra il fuoco già divampa”.

BACKSTAGE | Birre fresche e foto rubate al Color Fest 2016

Carmen Baffi
Carmen Baffi
Agosto24/ 2016

Una foto rubata, una birra fresca e poi tutti a saltare sotto al palco. È stata molte altre e tutte queste cose insieme la IV Edizione del Color Fest. Penso sia partito tutto verso le 18 del 12 agosto, quando la famiglia Color ha ufficialmente aperto le porte dell’Abbazia Benedettina di Lamezia Terme. Dopo mesi di duro lavoro, anche quest’anno, 50 ragazzi che anni fa hanno deciso di dare fiducia alla loro terra sono riusciti a far vibrare i cuori di circa 2500 giovani che in due giorni hanno dimostrato la loro voglia di ascoltare musica diversa da quella che propongono da queste parti e di incontrare occhi diversi da quelli che si vedono tutti i giorni. Lasci i brutti pensieri fuori dalle mura dell’abbazia e accetti di vivere per molte ore all’insegna della cultura e della condivisione, fai la fila e poi sei dentro. Dopo poco parte la musica.

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I primi a salire sul palco sono i Parkwave, quattro ragazzi cosentini che con il loro sound hanno deciso di andare a cercare fortuna in America come tanti, solo che loro ci sono riusciti. Al Color hanno suonato e cantato qualche pezzo, fra questi anche “Wave“, singolo scelto come colonna sonora di un film indipendente britannico. Insieme a loro molti altri artisti emergenti, Scarda, Yosonu, Pop X, Wrongonyou, Carmine Torchia, L’Officina Della Camomilla, Captain Quentin. Tutti con qualcosa di unico e personale, uno stile che è riuscito a inchiodare i presenti sotto il palco. Beh inchiodati non proprio, diciamo che la noia era vietata: uccisa da un suono elettronico, un assolo di chitarra, un rullo di tamburi alla batteria, una frase d’amore urlata al cielo.

Ma fra gli antichi ruderi benedettini non ci sono stati solo concerti.

Lo Stato Sociale ha presentato un libro, “Il movimento è fermo – un romanzo d’amore e libertà ma non troppo“, scritto da due dei componenti della band elettro pop bolognese, Alberto “Bebo” Guidetti e Alberto “Albi” Cazzola.

“Faccio parte di quella generazione allargata, che va dai 30 ai 40, che ha vissuto in prima persona e ha accusato più di tutti l’arrivo “della crisi della crisi”, in cui non si è parlato più di futuro. Non c’era lavoro e dovevi fotterti con uno stage non pagato, perché “comunque fa curriculum”. E ci siamo trovati a non poter raccontare questa situazione, perché troppo indaffarati nel riuscire a capire cosa fare di noi come persone. Questo libro nasce dall’esigenza di spiegare cosa accade nella vita e nelle teste di noi trentenni che, probabilmente abbiamo perso il treno in quel momento, ma adesso stiamo sicuramente facendo una rincorsa“.

Con queste parole Bebo ha spiegato il perché di questo romanzo. Infine, Albi ha letto un capitolo del libro e si è aperto un piccolo dibattito con il pubblico. Io dopo ho provato a fare qualche domanda a entrambi:

E poi musica, musica e ancora musica.

Lo Stato Sociale ancora protagonista: sul palco tocca a Lodo Guenzi, cantante della band che, con in mano la sua chitarra, è entrato in scena con un live esclusivo, cantando brani del suo stesso gruppo e facendo omaggi ai più grandi, ricordando per esempio “L’avvelenata” di Francesco Guccini. In realtà non era da solo, sotto di lui c’era un gran coro che lo accompagnava. E non potevano mancare i ringraziamenti ai suoi compagni di vita, il resto della band. Così, quando lo ha raggiunto Albi ha dimostrato tutto il suo “amore” per lui con un bel bacio a stampo e una cantata insieme.

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E Calcutta? Lui è una romantica promessa della musica italiana, entrato da poco in scena (l’abbiamo intervistato qui). Dalla sua Latina, pure a Lamezia ha trovato il giusto sostegno. Anche perché quando non avrà più l’età diventerà un “Albero”, nel frattempo ascolta i consigli di “Gaetano” e magari un giorno capirà cosa le manca a fare e andranno insieme a Peschiera del Garda a fare un bagno.

Dopo una serata sentimentale, fatta anche di qualche sogno, è sempre utile quella successiva. Quella forte, fatta di ricordi un po’ meno “belli”. Altro momento carico di emozioni durante il festival, infatti, è stata la presentazione del secondo libro, “Ho un complesso rock“. Una raccolta di 200 articoli scritti dal giornalista, prematuramente scomparso, Stefano Cuzzocrea (ne parliamo qui)

Stefano era una penna unica, fantasiosa e talentuosa. Si era inventato un blog, 2 Be Pop, quando aveva iniziato ad avere dei limiti con le grandi testate, per poter dire liberamente tutto ciò che a lui non piaceva dell’editoria musicale. Aveva creato un linguaggio suo, fatto di slang e termini dialettali che aveva reso quasi internazionali“.

Così, Francesco Sapone, ci presenta Cuzzocrea e non è l’unico. Anche Luigi Politano, della Round Robin, che ha edito il libro, ha molte cose da dire in merito. “In questo libro c’è l’universo della storia musicale italiana degli ultimi anni, raccontata da quello che noi amiamo definire il “funambolo delle parole”, colui che riusciva a parlare di musica usando anche parallelismi assurdi e alla fine ti rendevi conto che aveva ragione“. Fabio Nirta, al centro fra i due, ha avuto “la fortuna di conoscerlo personalmente”; spesso prende la parola. Si commuove, ma ci tiene a sottolineare che “gli stage dei festival non sono temporanei, sono definitivi” e che “finché festival come questo avranno vita, porteranno il nome di Stefano Cuzzocrea”.

E di brutti momenti ne sanno qualcosa gli Afterhours, quelli che urlano nel cuore della notte, accompagnandosi ai potenti suoni del rock. Sono tutti lì, che aspettano Manuel Agnelli per la sua unica data al sud e lui li accontenta. Sale sul palco, travolgendoli fino all’anima di “Folfiri e Folfox”, l’ultimo album. L’album che gli ha dato la forza di ripartire dopo la perdita del padre. Poi alcuni pezzi storici, come “Male di Miele”. In ogni caso cantate tutte allo stesso modo a memoria dai fan. Agnelli ha speso anche qualche parola rispetto a chi lo ha criticato per la scelta di fare il giudice a X-Factor, poco prima di intonare un pezzo scritto 20 anni fa, “Pop (Una canzone pop)”.

E con “Bye Bye Bombay”, gli Afterhours salutano e vanno via come cavalieri dell’oscurità.

mmasciata
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Agosto18/ 2016

di Greta Bisello

La notizia più attesa degli ultimi due mesi e mezzo arriva nel tardo pomeriggio di un mercoledì di metà estate. Mauro Lucini, sindaco della città di Como, convoca una conferenza stampa congiunta col prefetto Bruno Corda e annuncia di voler smantellare la tendopoli antistante alla Stazione San Giovanni per allestire, un chilometro più avanti, un’area in grado di ospitare 300 migranti. Una soluzione finalmente strutturale, insomma. Nel parco però, senza docce e con quattro bagni chimici, vivono attualmente in numero di 500, tra bambini, donne e uomini. Qualcuno rimarrà escluso ed è necessario stabilire chi e quali saranno i criteri selettivi.

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È una giornata concitata, fatta di attese spalmate in ore e giorni, sospensioni tipiche di un non-luogo. Ragazzi e ragazze giovanissimi ai quali con difficoltà si riesce ad attribuire un’età precisa, rimangono distesi a terra debilitati dal caldo e dalla mal nutrizione. Un canestro da basket attaccato ad un ramo e un pallone di pezza scucita permettono ai più attivi ed entusiasti di improvvisare una Rio in salsa comasca. Ritorna in maniera ossessiva e in un inglese zoppicante la stessa domanda, figlia di una narrazione menzognera: “news from Switzerland”? Ma dal confine, che dista pochi chilometri, non è in viaggio alcuna risposta. Il silenzio che rimbalza da quel muro di gomma sembra pregno di speranze mal riposte. Una distanza ironicamente breve e un percorso che i migranti conoscono ormai alla perfezione. Infatti da giorni ogni giorno tentano di superare la frontiera e puntualmente vengono respinti dalle forze dell’ordine che nelle migliori ipotesi li respinge a Como, oppure li trascina ancor più a sud, in territorio tarantino.

Non c’è nemmeno il tempo per acquisire i riferimenti spaziali indicati sulle cartine distribuite al campo che è subito necessario dimenticarle in favore di un imprecisato altrove nel quale coattamente verranno condotti.

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Le ore si fanno sempre più calde, riusciamo ad avvicinare un ragazzo che non vuole farsi riprendere il volto, richiesta di tutti. Così come indicano i cartelli che a fatica si reggono ai tronchi e che recitano no foto ai volti! – no face pictures! I fotografi che si aggirano famelici per il campo non percepiscono l’esclamazione, tanto che anche i volti dei numerosi minori presenti finiranno per essere impressi su pellicola.

Stop interview if you don’t help us – ci dice un altro ragazzo -,  non sono più gradite nemmeno le domande, la pazienza è al collasso. Lapidarie queste parole arrivano scardinando l’idea che interessarsi sia talvolta l’unico strumento disponibile per un aiuto concreto. Le parole però iniziano ad uscire senza pause, la forza dell’ingiustizia rompe il muro di reticenza iniziale e tutto prende forma: un viaggio affrontato in solitaria poiché troppo costoso, diciotto anni, la speranza di un futuro migliore, il sogno di una Germania salvifica, una famiglia abbandonata e dalla quale non è possibile tornare. Nessun ricongiungimento da portare a compimento, non ci sono braccia aperta o mani tese ad attenderli al confine.

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Sono soli al mondo.

Passeggiando per il campo diversi dialetti si intrecciano. Gli interpreti fanno fatica a soddisfare le richieste di ognuno, non solo non hanno risposte, ma talvolta non capiscono le domande. L’inglese perde il suo potere aggregante e non sembra poter far da panacea, non qui almeno. Ci si intende poco e allora ci si limita a guardarsi. Da un’automobile tuona un sonoro “tornatevene a casa vostra!”, canzone che noi conosciamo confidando rimanga solo una nota stonata alle orecchie dei ragazzi.

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Deve per forza esistere un orario per sentirsi male; questo non è quello giusto. Una bambina, avrà avuto 10 anni, si accascia a terra come un corpo morto. Alcuni uomini creano una barella improvvisata con le proprie braccia scalando due a due la gradinata per raggiungere il presidio disposto in cima, di fronte la stazione: è chiuso. I poliziotti chiamano il soccorso, che arriva dopo venti minuti di gambe alzate e sventolii che non riescono a rianimare la piccola. Non accenna al movimento e non riapre i suoi piccoli occhi, è immobile, sfinita e arresa. “Diteci almeno dove la trasportate!”, prega i paramedici un volontario che già prevede cosa sta per succedere. Gli immigrati non comprendono cosa sta accadendo, non accettano il distacco, inseguono l’ambulanza, l’accerchiano.

Il padre come tutti i padri del mondo, non vuole separarsi da sua figlia.

La sirena sfreccia imboccando la via panoramica di Como. Portandosi via ogni notizia. Una giovane volontaria tiene un sacco nero e provvede a pulire il campo, a mani nude. Camminando sul prato dispensa sorrisi ogni qualvolta alza la testa, per addolcire l’amarezza accumulata insieme ai rifiuti di fine giornata.

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Agosto08/ 2016

di Elisa Stefania Tropea

Sono da poco più di un mese a Rio de Janeiro e la prima cosa che ho imparato è: primeiramente fora Temer (prima di tutto fuori Temer). Questo soggetto, alquanto losco, è subentrato a Dilma dopo l’avvio del suo processo di impeachment, formando un governo provvisorio di soli uomini bianchi, razzisti, omofobi e fascisti, che persino ha soppresso il ministero della cultura. Il popolo in strada parla di “golpe”, non vuole un governo non eletto e urla democrazia, cercando di attirare l’attenzione della comunità internazionale su quanto sta accadendo in Brasile. La giornata di apertura è stata altamente rappresentativa di un paese profondamente diviso: venite, gringos, ma sappiate che qui c’è un governo fascista e illegittimo che il popolo non riconosce.

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Foto: Hermes de Paula / Agência O Globo

Facistas, golpistas não passarão” si grida per le strade di Copacabana, secondo le stime ufficiali invasa da più di trentamila persone. Una manifestazione colorata, piena di musica e tamburi, circondata da tanti poliziotti di corpi diversi e, soprattutto, pacifica. Del resto, non poteva essere altrimenti: troppi “gringos” sull’Avenida Atlantica per sparare idranti e dare sfogo alla loro consueta violenza, Copacabana è un vetrina troppo chic per un certo tipo di disordini.

La cosa che più mi ha colpito nella manifestazione è la rilevante presenza, partecipazione e protagonismo delle donne. Sono loro al microfono, alla sicurezza, nude a sfilare perché “o corpo é meu”, il corpo è mio, in un paese dove l’aborto è illegale, il maschilismo è profondamente radicato, non c’è educazione sessuale né sentimentale e la violenza è cosa quotidiana.

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Foto: Leo Martins / Agência O Globo .

La torcia olimpica, che doveva passare per Copacabana, è stata sviata, obiettivo raggiunto, ma non quello della visibilità nazionale e internazionale: non ci sono notizie, nessun giornale, nessuna tv.

Nel primo pomeriggio il movimento si è spostato nella zona Nord, nel barrio della Tijuca, vicino allo stadio Maracana, dov’era il nucleo più arrabbiato, più povero, più aggressivo. Lì sono state lanciate bombe di gas, sparate pallottole di gomma e ci sono stati vari arresti. Ma su questo il silenzio più totale, solo dai media indipendenti si riesce a trovare qualche informazione.

Nel frattempo lo stadio Maracana, completamente militarizzato, si riempiva per il meraviglioso spettacolo visto in tutto il mondo: uno spettacolo voluto e preparato sotto il governo di Dilma e Lula, ma a presidenziare è stato Temer, che dopo neppure dieci secondi è stato sommerso dai fischi: nelle scorse settimane ha ricevuto la visita istituzionale del Parlamento italiano con la quale delegazione (presieduta dal vicepresidente del Senato Marina Sereni, Pd) ha aperto una mostra sul contributo brasiliano alla liberazione del nostro paese dal nazifascismo, ma stasera pare essere l’uomo più impopolare del mondo.

Qui la lotta continua, migliaia di gruppi diversi, collettivi, sindacati, partiti, artisti, sparpagliati in tutti i quartieri della città sono uniti, animati da un unico obiettivo: restituire al Brasile la sua democrazia.

L’INESPRESSO | Il mai abbastanza di Vincenzo Nibali

Francesco Veltri
Francesco Veltri
Agosto07/ 2016

Mancano 12 chilometri al traguardo. E la strada ora scende violentemente, imboccando curve improvvise che sai bene che ti faranno perdere il sonno anche quando tutto quel caos sarà passato. Mancano 12 lenti passi che hanno l’odore dell’eternità, verso un traguardo che cancella ogni ferita, ogni paura, ogni sfortuna. L’uomo col numero 38 sulla schiena non vuole distrarsi. Non volta mai lo sguardo indietro, sguscia via tra tornanti privi di senso senza porsi troppe domande. Vuole vincere quella corsa, più d’ogni altra cosa. Ha messo tutti alle spalle, quasi tutti. Gli manca un ultimo scatto e poi sarà fatta. Gli è rimasta una discesa per andarsene tutto solo verso la gloria. E allora insiste, spinge al massimo i suoi pedali e alza le dita dai suoi freni. Tutti sanno che sarà lui, alla fine, ad alzare le braccia verso il cielo. Perché lo merita, è il più forte. Aspettava Rio come si aspetta l’occasione di una vita, come se tutto quello che ha conquistato fino a quel momento non basti a farlo sentire grande. Deve fare di più, deve sconfiggere i suoi tormenti.

Mancano 12 chilometri e in quel tratto di discesa sarebbe il caso di andare piano. Si rischia l’osso del collo, si rischia la carriera. Ma Vincenzo ha un obiettivo da portare a termine. Ha vinto due Giri d’Italia, una Vuelta, un Tour de France pur essendo perseguitato dalla cattiva sorte, eppure non gli basta. Non sente l’amore della gente, pensa che il popolo diffidi di lui, non considerando speciali le sue fatiche. Ogni suo sguardo è triste, ogni sua vittoria passata è stata un pianto liberatorio che è riuscito a scacciare l’angoscia solo per qualche ora. Tutti sanno che sarà lui, alla fine, a vincere. Perché su quello strano e insolito percorso sudamericano, sa cosa fare più di ogni altro. Ha fame, fiato e più gambe di tutti Vincenzo, e spinge follemente la sua bici tremante. Ancora poche curve e poi il rettilineo finale di Copacabana. Deve lasciarsi dietro assolutamente i suoi rivali. Non vuole volate, sogna un arrivo solitario.

Mancano poco meno di 12 insignificanti chilometri e le telecamere ora staccano sugli inseguitori. Sono dietro, troppo dietro, non possono più creare problemi al trio di testa guidato dal siciliano che tutti chiamano “Lo Squalo”. Poi il ritorno in testa, ma la testa, improvvisamente, non sembra esserci più. In pochi secondi è saltato tutto. La moto che manda le immagini a casa, corre verso l’ignoto alla ricerca di qualcuno, del punto di riferimento che aveva fino a poco fa, senza però scovarlo mai. A terra, si è lasciata due uomini doloranti, schiantatisi contro una curva assurda che tutti sapevano di trovare lì. Si fatica a comprendere, poi è tutto chiaro: sull’asfalto c’è Vincenzo Nibali. E’ ferito, non riesce ad alzarsi. Prova ad avvicinarsi alla sua bicicletta, ma non ce la fa. Riesce a strisciare verso il marciapiede e a sedersi come può. Il suo sguardo è perso nel vuoto, le sue mani raggiungono a fatica la testa e il silenzio si è impadronito dei suoi pensieri, imprigionandoli ancora una volta. Ha quasi 32 anni e quella doveva essere la sua storia, il suo giorno, la sua Olimpiade. Aveva preparato tutto nei minimi dettagli: salite, sudore, gambe, attacchi, discese. Ma non aveva fatto i conti con la sfortuna di sempre. Quella sfortuna che colpisce solo certi campioni. Quelli che quando vincono, sanno solo versare lacrime interminabili prima di salire sul podio. E mentre vengono portati in trionfo, stanno già pensando che non è ancora abbastanza.

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In copertina | Nibali visto da Gabriele Benvenuti

mmasciata
mmasciata
Agosto05/ 2016

di Ivan Grozny Compasso

La torcia è arrivata a Copacabana. Se nella periferia Nord la fiamma olimpica è passata di tutta fretta, per le strade di Copacabana tutta un’altra musica. Qualche attimo di tensione arrivati alla fine di Nossa Senhora di Copacabana dove la polizia è stata fischiata. Qualche piccola scaramuccia e poco più. Arrivata a Leme la torcia è stata spenta e la fiamma messa a … riposare. Le Olimpiadi abbiano inizio.

4 AGOSTO “Di già passo?”, ironizzano nelle strade di Rio Nord. E’ passata, la torcia, su un mezzo talmente veloce che è un caso che non ha investito il pubblico. Ma in questo episodio ci sono gli artisti, inteso nel senso più lato più lato del termine, luoghi storie diverse, ma tutte nella stessa città, tutte nello stesso momento.

3 AGOSTO Il racconto in tempo reale di donna Irone. Da una favela del compleixo da Maré, chiusa in un negozio non può uscire perché il Bope è nella favela e stanno sparando. Moriranno più di dieci persone quella notte del 25 luglio 2016.

2 AGOSTO In questo decimo episodio, il “ripulisti” del lungomare, soprattutto, ma anche di tutte quelle zone che sono potenzialmente più turistiche. Spariti, come d’incanto, centinaia di senza dimora. Così, in una notte. Problemi anche per gli artigiani che vendono i loro prodotti sulle spiagge. Sequestrata la merce, manufatti, denunciati i lavoratori. Questa è gente che vive sulla spiaggia, ci lavora da anni ed è la loro unica forma di rendita con la quale mantengono le famiglie. La colonna sonora ci conferma che i musicisti brasiliani possono suonare davvero qualsiasi cosa.

26 LUGLIO Nell’aprile del 1996 un bambino di 2 anni, Maicon, è rimasto ucciso mentre giocava fuori dalla porta di casa, in un vicolo. La storia si svolge ad Acari, uno di quei posti che neppure la gente di qui frequenta. Per arrivarci bisogna camminare attraverso un altra comunità, dove anche per transitare bisogna chiedere il permesso. Amarelinho – Irajà termina e ci si trova al compleixo de Acari. Qui le strade non sono asfaltate, non sempre c’è la luce elettrica, figuriamoci le scuole o altri servizi. Anche qui per transitare bisogna chiedere il permesso, farsi amici chi controlla il territorio. E qui che incontro Zè Luis. Nei quinto episodio abbiamo conosciuto Aida, sua moglie, madre di Maicon. Quest’anno la loro causa contro i responsabili andrà in pensione. Gli agenti che hanno sparato a Maicon decorati. Ze Luis ha deciso di mettere a disposizione la propria casa e farne un laboratorio artistico e un teatro per i ragazzi.  E’ il 26 luglio. Non una data qualsiasi per Acari. Sono esatti 26 dalla strage della Cachina di Acari.

Viola Brancatella
Viola Brancatella
Luglio30/ 2016

No, non è la Bbc, questa è la Rai, la Rai-tv!” è stato uno dei motivetti immortali del noto programma radiofonico Alto Gradimento, tenuto sul secondo canale radio della Rai da Renzo Arbore, Gianni Boncompagni, Giorgio Bracardi e Mario Marenco ogni lunedì e venerdì dal ‘70 al ‘76.

Ogni puntata del programma era gremita di sketch demenziali, irriverenti e senza un apparente filo logico, in cui si alternavano imitazioni, interventi di personaggi inventati e musica, in controtendenza rispetto alla sobrietà della Rai di Ettore Bernabei. Erano gli anni ‘70, la Rai deteneva ancora il monopolio sulla rete televisiva e risplendeva dei successi del decennio precedente, che trasmissioni come “Non è mai troppo tardi” del maestro Alberto Manzi, andata in onda dal ‘60 al ‘68, avevano innalzato a strumento imprescindibile di insegnamento della lingua e della cultura agli italiani. Erano gli anni in cui la Rai poteva ancora “guardare negli occhi” e prendere bonariamente in giro le altre emittenti di Servizio Pubblico storiche, come la Bbc, il Servizio Pubblico di diffusione radiotelevisiva più antico d’Europa, all’insegna di un indiscusso monopolio nel campo dell’informazione televisiva.

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non è la bbc
No, non è la Bbc… di Luca Baldazzi, edizione Minerva

E’ proprio da Alto Gradimento che comincia il libro del giovane ricercatore di Eurispes Luca Baldazzi dall’ingegnoso titolo “No, non è la Bbc. Rai e Servizio Pubblico britannico a confronto (in attesa della riforma)”, edito da Minerva e di recente presentato e discusso alla Federazione Nazionale Stampa Italiana alla presenza di Di Trapani, Parascandolo, Vita, Gamaleri, De Chiara e Pamparana.

Il libro prende spunto dall’osservazione sul campo dell’operato di Bbc e Rai, nelle cui sedi di Londra e Roma dove l’autore ha avuto modo di trascorrere svariati mesi grazie ad una borsa di studio emessa dalla Regione Lazio. La ricerca sul campo e lo studio dei flussi di comunicazione che Luca Baldazzi svolge da anni nell’Osservatorio Tg, di cui è co-animatore, hanno risposto a un quesito che l‘autore si è posto in vista del rinnovo della concessione Stato-Rai sulla mission del Servizio Pubblico, a dispetto delle spropositate attenzioni rivolte al tema della governance, che dalla riforma del ‘75 fa discutere oscurando altri aspetti ragguardevoli della questione.

L’autore ricostruisce la storia del Servizio Pubblico britannico e italiano dai loro inizi, con particolare attenzione alle attività legate alla sua mission educativa, convinto della necessità di una riforma progettuale dell’azienda, e ne discute con alcuni dei massimi esperti di giornalismo e di servizio pubblico italiano.

Il confronto con la Bbc ne esce svilente, quantomeno se si pensa all’impatto che il Servizio Pubblico ha ancora oggi sulla società britannica, partendo dagli indici di gradimento per arrivare all’impatto reale sui costumi sociali, tramite proficue collaborazioni con il sistema scolastico che producono format televisivi di successo come “Make It Digital” del 2015, finalizzato all’alfabetizzazione digitale nel paese. La Bbc, vista da qui, sembra trainare i cambiamenti della società invece che limitarsi ad accompagnarli, facendosi promotrice di campagne annuali e di proficue collaborazioni con i Ministeri, contrariamente a quanto avviene all’interno della nostra Rai, che più che prendere accordi è spesso emanazione di linee politiche in contrasto tra loro. L’assenza di ruolo trainante, negli anni, ha reso la Rai un attore debole, manipolabile e arretrato, a scapito della qualità e della varietà, e lo ha fatto scivolare nella logica commerciale della pubblicità.

Ma il confronto con la realtà britannica, per l’autore, è una provocazione: serve a smentire il falso mito che sia impossibile per il Servizio Pubblico sostenersi economicamente solo con il canone pagato dai cittadini – una volta debellata l’evasione – visto che l’azienda britannica si avvale solo di quello, e serve a ridimensionare l’importanza dello share rispetto alle sorti dell’azienda, dal momento che la Bbc registra dati di share inferiori alla Rai, pur svolgendo le sue funzioni in modo più efficace.

Mission, governance, educazione, lottizzazione e web sono i temi di discussione attorno ai quali si articola il dibattito sulla imminente concessione Stato-Rai, cui Luca Baldazzi fa riferimento continuamente ponendo domande, anche provocatorie, ai suoi intervistati.

Vediamone una schematica rassegna:

  • NEO-ANALFABETISMO Secondo Tullio De Mauro la crisi del Servizio Pubblico va a braccetto con la crisi della scuola, l’altra grande agenzia culturale, che soffre della stessa perdita di consapevolezza rispetto al suo ruolo di “agenzia di senso” necessaria e in prima linea. Agli esordi del Servizio Pubblico – continua De Mauro -, invece, la televisione è stata il traino della lotta all’analfabetismo a favore dell’unificazione linguistica nazionale, tanto che “l’ascolto abituale della prima televisione” – quella del monopolio, tra il ‘55 e il ‘75, – “valeva, ai fini della padronanza dell’italiano, cinque anni di scolarizzazione”. Oggi, invece, avviene il contrario: secondo il Professore, infatti, la commercializzazione della tv pubblica e la dipendenza dallo share hanno diseducato il pubblico ad alcune norme di civiltà e democrazia, proponendo dibattiti-spettacolo pervasi da un’atmosfera da “arena gladiatoria”, in cui ci si parla sopra ad alta voce.
  • RETROVIA DEL CAMBIAMENTO La Rai, secondo il Professor Mario Morcellini, da 10-15 anni è la “retrovia del cambiamento”, perché, tra le altre cose, si è tirata indietro rispetto alla costante innovazione che per sua natura dovrebbe offrire come servizio televisivo: “la ripetizione” – sostiene nel libro “L’obbligo del nuovo” – “uccide la novità, inibisce il cambiamento e, in sintesi, non è più televisione”. La Rai, così, si trova a vivere una drammatica crisi di reputazione, dal momento che il suo pubblico, pur essendo numeroso, nei sondaggi si dichiara annoiato e stanco dell’offerta del Servizio Pubblico. Se di missione culturale si deve parlare – conclude Morcellini –  bisogna farlo innanzitutto alla base, nella formazione e nella condotta degli operatori di cultura, dei dirigenti d’azienda e dei professionisti che animano la Rai, che devono tornare ad essere preparati e motivati, ispirandosi ai grandi della televisione educativa, come Alberto Manzi e Pietro Prini.
  • DITTATURA AUDITEL La mission della Rai, commenta Renato Parascandolo, è rimasta implicita fin dalla sua nascita e avrebbe bisogno di essere definita una volta per tutte, prendendo esempio dalla Bbc magari, che, forse un po’ retoricamente, segue ancora oggi gli obiettivi del suo fondatore John Reith “to inform, educate and intertain” e sembra non sbagliare un colpo. L’identità della Rai, dopo un incipit glorioso, ha cominciato ad indebolirsi negli anni ‘80 con l’introduzione della tv commerciale all’interno del duopolio Rai-Fininvest e con il fenomeno della lottizzazione dovuto alla riforma della governance che ha imposto all’azienda un’instabilità autoriale cronica. Ma la vera ragione della perdita di mission del Servizio Pubblico secondo Parascandolo è la “dittatura dell’auditel” – introdotta nel 1984 – che ha reso il telespettatore la principale merce di scambio tra le agenzie pubblicitarie e le entità televisive, all’interno di un circolo vizioso per cui l’assenza di un progetto pedagogico crea un pubblico di livello culturale basso, “che corrisponde al livello di pubblico inquadrato dall’auditel e corteggiato dalla pubblicità”. La Rai, rispetto agli imperativi della televisione commerciale, di cui l’auditel è il massimo rappresentante, non è stata in grado di opporre un’adeguata resistenza, e contemporaneamente ha ceduto ai colpi delle riforme politiche, che la hanno esposta all’inquinamento dei partiti e alla perdita di autonomia dal potere, in mancanza di una “cintura sanitaria” all’interno della Rai che impedisca i rapporti diretti tra il Consiglio di amministrazione e chi lo nomina.
  • ASSENTE DIGITALE Secondo Giampietro Gamaleri, il grande assente nell’operato della Rai oggi è il digitale, nel segno di una profonda disattenzione rispetto agli imput della società in cui viviamo: il sito internet della Rai è all’86esimo posto in Italia, superato di gran lunga dai siti web dei quotidiani nazionali come Repubblica, e dalla Bbc, che in Gran Bretagna sta al sesto posto, con un’attività destinata per un terzo all’educational. Di “alfabetizzazione digitale” parla anche Vincenzo Vita, che mette al centro dei suoi discorsi il pubblico come nuovo punto di riferimento, cui bisogna destinare programmi gratuiti, all’insegna della democrazia e della riconquista dell’informazione come “bene comune” e democratico.

In definitiva sintesi, ristabilire una mission civica e pedagogica, adeguarsi alla digitalizzazione dei contenuti, alzare il livello culturale dei programmi televisivi, puntare sulla cultura e sulla formazione per differenziarsi dalla televisione commerciale, rinunciare alla pubblicità: questa sembra essere la ricetta per una nuova Rai proposta dagli esperti intervistati da Luca Baldazzi, in una raccolta di riflessioni utile ai giornalisti di oggi e di ieri per orientarsi e per interrogarsi sul futuro del Servizio Pubblico.

mmasciata
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Luglio30/ 2016

di Andrea Bevacqua

Se esistesse una parola alla base del Cleto Festival sarebbe di certo condivisione. Condivisione dal basso di esperienze, saperi, conoscenze, tradizioni in grado di coinvolgere un territorio, le strade e le piazze di un borgo solo apparentemente privo di vita. Il Cleto Festival ha raggiunto la sua sesta edizione, che quest’anno prenderà vita il 19 20 e 21 agosto. Dal 2011 l’associazione culturale La Piazza riesce a compiere senza ricevere volutamente un euro di finanziamento pubblico un vero e proprio miracolo culturale: tre giorni di dibattiti, aggregazione, solidarietà, musica, arte, teatro, cibo locale e dal mondo rigorosamente etico e solidale. Tutto nella splendida cornice di un posto magico, dimenticato forse dalle istituzioni, ma non da chi da piccolo ha sempre giocato nei vicoletti e nelle piazzette. Un luogo appeso sulle colline che dividono la valle del Savuto dal basso Tirreno cosentino.

I ragazzi de La Piazza sono ormai cresciuti nell’esperienza ma hanno dimostrato uno spirito intatto, raccontando l’edizione numero sei davanti ad un ottimo aperitivo a base di prodotti locali di Cleto all’Otra Vez fair cafè – Acquario Bistrot di Cosenza. Franco Roppo Valente e Ivan Arella dell’associazione La Piazza si sono alternati nella narrazione; questa edizione avrà come titolo principale nonché tema di discussione-filo conduttore dei vari dibattiti una parola: Luoghi. Un tema a cui gli organizzatori del Festival credono e tengono fortemente avendo da sempre scelto di discutere nei loro dibattiti di territorio, di impegno civico in Calabria, di futuro della nostra terra, di denuncia dei disastri ambientali. Subito torna alla mente a proposito l’affollatissimo dibattito di un anno fa con Claudio DionesalviFrancesco Cirillo  sul libro Calabria ti odio di quest’ultimo, cinquanta storie che narrano la nostra terra dai disastri ambientali delle nostre coste ai piccoli borghi ripopolati grazie all’arrivo dei migranti.

Gli organizzatori hanno trasmesso ai presenti tutto l’impegno che sta dietro l’organizzazione di un festival unico, diventato una specie di casa dove incontrarsi ogni anno per i tanti che non si ritrovano mai ai posti del potere. Il Cleto Festival si muove sull’idea di dare un senso ad un luogo, il luogo della memoria e nello stesso tempo del presente e del futuro, l’idea di non volersi arrendere all’idea di abbandono, di non abbassare la testa di fronte agli scempi di una classe politica in grado soltanto di finanziare mega eventi estivi che poco o nulla lasciano in termini di contenuti e crescita sul territorio. Il Cleto Festival è invece un cantiere dal basso, lavoro quotidiano di un anno, capacità di fare rete con il territorio, di cercare sintonie e condivisioni. Sì, perché il Cleto Festival, e si intuisce benissimo dalla parole di Franco e Ivan, non esisterebbe senza il senso di condivisione che lentamente si è instaurato tra i pochi abitanti del borgo antico e gli organizzatori; ciò significa che non si deturpa e depreda un centro storico per pochi giorni dimenticandosene nei mesi seguenti anzi, si condivide facendo diventare il festival un’idea collettiva, un momento di tutti: di chi ci abita e di chi arriva da fuori ad abitarci. Straordinaria infatti anche quest’anno la capacità di Cleto di ospitare i visitatori, grazie ai posti letto messi a disposizione dagli abitanti e ad un ampio spazio camping in pieno centro (qui le info).

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Il tentativo di proporre esperienze di socialità in grado vive durante tutto l’anno e nei tre giorni del festival danno modo di esprimersi ad una rete che ogni anno si allarga nel Cosentino e non solo. Per citare alcune realtà: La Guarimba Film Festival di Amantea, il Teatro della Maruca e Radio Barrio di Crotone, Il Filo di Sophia e Otra Vez di Cosenza e tanti tanti altri, anche la comunità di Mmasciata cercherà di fare la sua parte con tutti coloro che trovano un pezzo di strada da compiere insieme durante l’anno. Cleto diventa così un punto di incontro, crocevia di esperienze e collaborazioni: il nostro luogo.
Infine qualche anticipazione sul programma è approdata al Bistrot di via Galluppi con Dj Pas(c)quetta e Giuseppe Bornino del collettivo Il Filo di Sophia che hanno presentato in anteprima ciò che porteranno in scena nei palchi allestiti nel centro storico. Merita una piccola menzione l’opera inedita di Bornino dal titolo No Pasaran incentrata sul conflitto israelo-palestinese. Il programma tutto da leggere e da studiare con matite blu e rosse per sottolineare gli appuntamenti a cui si è più interessanti vedrà la presenza tra gli altri di Al The Coordinator il 19 agosto, de I Villa Zuk il 20 e di Peppe Voltarelli il 21. In mezzo tanta buona musica, tanto buon teatro, suggestive mostre fotografiche e tante riflessioni, tra queste sottolineiamo con un colore particolare la discussione a più voci su Idomeni dal titolo I’M NOTHING L’Europa nel fango di Idomeni a cura degli attivisti e free lance Dante Prato e Laura Danzi, che su Mmasciata hanno raccontato in presa diretta la loro esperienza nel campo profughi di cui tutto il mondo ha parlato.
A questo punto non rimane che incontrarsi a Cleto.

mmasciata
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Luglio26/ 2016

a cura di Ivan Grozny Compasso

A ritmo di samba per le strade di Rio di Janeiro a pochi giorni dall’inaugurazione dei XXI Giochi Olimpici, che per la prima volta nella storia si disputeranno in una capitale dell’America Latina. I giochi si disputeranno del 5 al 21 agosto, ma quanto è davvero pronta questa città ad ospitarli nel migliore dei modi?

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EPISODIO DUE 

Quando manca sempre meno all’inaugurazione dei Giochi Olimpici, Rio non ha ancora visto ultimati i cantieri aperti ormai da anni. Ecco alcuni esempi in quello che è il trionfo di gazebo e tubi innocenti.

EPISODIO TRE

Il Brasile e i diritti umani. Il Paese che ospiterà i Giochi detiene tristi primati. E’ il Paese con il maggior numero di omicidi e il Paese con il maggior numero di morti a seguito di operazioni di polizia. La maggior parte di queste sono vere e proprie esecuzioni per lo più perpetrate contro neri.

 

EPISODIO QUATTRO

Uno dei problemi di Rio de Janeiro è legato alla mobilità. Non è un problema di oggi, si intende. La città non è affatto ben servita, soprattutto nelle zone più periferiche, dove si compiono i crimini di cui abbiamo parlato nella precedente puntata. Per muoversi a Rio Norte, sull’avenida Brasil, l’unica possibilità per non rimanere imbottigliati, è il moto-taxi. Anche se sarebbe il caso di portarsi un casco proprio…

GUERRE SANTE | Noi, rifugiati per un giorno

Giovanni Culmone
Giovanni Culmone
Luglio25/ 2016

Molti cittadini europei hanno capito cosa si prova a vivere da rifugiati. A Monaco di Baviera come a Nizza, quello che fino ad ora era solamente uno status (gentilmente concesso dal diritto internazionale) si è concretizzato improvvisamente sulle vite dei cittadini comuni. La polizia che scende in strada e gli elicotteri che pattugliano la città dall’alto sono scene di guerra che sconvolgono. Sono uno shock perché (fortunatamente) finora non hanno fatto parte del nostro vissuto. Sono il pane quotidiano invece per i 2,1 milioni di migranti che hanno raggiunto la Germania lo scorso anno. Sono scappati proprio da quello, facendo della Germania il loro rifugio, proprio come in questi giorni la nostra gente cercava riparo nei negozi, sotto un bancone o nella casa di uno sconosciuto. Rifugiati per un giorno.

Terrorista è chi crea terrore. Così come per l’attentato del 14 luglio a Nizza, anche per quello di Monaco non si è molto atteso (e molto riflettuto) prima di gridare all’attentato jihadista. Associazione istintiva, considerando il periodo, ma non giustificabile nel giornalismo, dove la lanterna è in mano ai fatti: la stampa e tutti i media in generale influiscono in modo sostanziale nell’opinione pubblica. Della paura pubblica. E quando accadrà, come già accaduto, che la paura si trasformerà in violenza, le responsabilità della stampa e della politica non dovranno essere sottovalutare. L’attacco al centro commerciale Olympia Einkaufszentrum a nord di Monaco di Baviera è stato opera di un 18enne vittima di bullismo che ha voluto regolare i conti con la società uccidendo 9 persone e ferendone 16. Pur non essendoci legami con l’Isis, questi non hanno esitato a rivendicarlo. Nella lotteria del “è dei nostri oppure no?”, ’sta volta gli ha detto male.

Se l’obiettivo di politica estera di Daesh (o Isis) è destabilizzare la società e terrorizzare la quotidianità dell’Occidente, infatti, non importa se l’attentatore sia davvero un “soldato di Dio” oppure no. Non importa se l’attentatore di Nizza non conosceva il Corano, beveva e (per giunta) era bisessuale. E qui (e, se vogliamo, ad Orlando) che la tesi della guerra di religione, dell’Islam cioè come unico fattore alla base del terrorismo, traballa. Un soldato di Allah bisessuale convince poco, ad attenderlo in paradiso ci sarebbero solamente vergini. Se la strategia del terrore ha un fine specifico, bisogna chiedersi qual è, invece, quello dei molti che (proprio come i terroristi) mettono insieme le cause dei vari attacchi che stanno sconvolgendo la scena internazionale senza fare distinguo, ma creando lo stesso effetto dei terroristi: terrorizzare, appunto.

Vediamone un esempio fra tanti. Il 2 luglio, subito dopo l’attentato al ristorante di Dacca, Pierluigi Battista sulle colonne del Corriere della Sera ha scritto un editoriale in cui tracciava la storia degli attentati degli ultimi tre anni, trovando il nesso in un mandante impersonale (“hanno appena massacrato, hanno manipolato povere bambine“, ecc.) che, anche se non lo dice, parla arabo e prega il venerdì. Da Dacca a Boston, da Parigi a Istanbul, passando per Orlando, Colonia, Tunisi, Bruxelles, poi ancora la Nigeria, Tel Aviv e Hebron. Un legame tra Boko Haram e la situazione in Israele: roba da equilibristi intellettuali, il cui scontro di civiltà, nella situazione di una Europa sempre più multietnica e rifugio per milioni di migranti, non crea effetti dissimili dalla loro guerra santa.

Michele Presta
Michele Presta
Luglio15/ 2016

(dal nostro inviato)

La vicina Russia è l’osservato speciale. Più di 6mila agenti setacciano ogni angolo di Varsavia e controllano con scrupolo ogni stazione e fermata di metro e tram. Gli uffici chiedono ai loro dipendenti di prendersi un giorno di ferie o lavorare da casa, i divieti sono molti. Vietato scattare foto, vietato correre, vietato lasciare i propri bagagli o le proprie borse incustodite. Uno speaker nelle due linee di metro cittadina annuncia i divieti in più lingue.

Tutte le riunioni del vertice Nato si svolgono allo stadio Nazionale costruito in occasione dell’edizione dei Campionati Europei in Polonia e Ucraina, il centro cittadino dove sorge il maestoso Novotel è presidiato da centinaia di agenti; turisti e cittadini passeggiano in direzione Old Town quando tra le sirene che annunciano l’arrivo dei delegati Nato Obama sfreccia con la sua auto facilmente identificabile dalle bandierine stelle e strisce posizionate sul cofano anteriore e con al seguito agenti che imbracciano fucili ostentati senza alcuna remora.

La prassi è questa, in una sola città ci sono i leader più potenti del mondo, il rischio attentato è elevatissimo. Allo stesso tempo, l’occasione per far sentire la propria voce non potrebbe essere migliore: in diverse piazze della città gruppi spontanei di cittadini si riuniscono, sono nell’occhio del ciclone e tentano di attrarre verso di loro i venti dei media. Per qualche ora l’accordo NATO-UE sulle misure preventive militari da adottare nei confronti della Russia passa in secondo piano. Le strade sono bi-colore rosso e bianco come qualche sera prima per la partita contro il Portogallo campione d’Europa. Adesso non c’è da difendere l’orgoglio calcistico ma quello nazionale.

In Piazza Martin Luter King si è radunato il Kod. La piattaforma di cittadini capeggiata dal leader Mateusz Kijowski che si oppone al partito di governo Diritto e Giustizia (Pis), nell’ultimo anno protagonista di provvedimenti molto discussi. Inizialmente con la legge sul controllo dei mezzi di informazione, votata il 31 dicembre 2015 e che depone nelle mani del ministero del Tesoro, quindi il governo, il potere di nomina dei dirigenti della tv pubblica e della radio pubblica, che prima erano scelti invece da uno speciale consiglio, una riforma che riguarda 4 canali Tv e oltre 200 stazioni radio. Adesso la questione ben più delicata che riguarda il Tribunale Costituzionale che in Polonia è un organo giudiziario competente in materia di conformità delle leggi con la Costituzione, conflitti di competenze e ricorsi promossi dai cittadini.

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Nell’appassionato discorso di Piazza M.L. King, Kijowsky ha più volte sottolineato che il Tribunale è controllato e condizionato dai conservatori venendo meno in questo modo le garanzie di aderenza alla Costituzione polacca delle nuove leggi. Lo scorso anno il parlamento polacco prima delle elezioni aveva nominato 5 giudici ma il presidente polacco Andrzej Duda, vicino al Pis, ne aveva bloccato il giuramento sollevando delle questioni di legalità circa il procedimento di selezione. Nonostante la decisione nel mese di novembre della Corte Suprema di ammettere al giuramento 3 dei 5 giudici selezionali, Duda ne ha impedito l’insediamento, salvo poi procedere alla conferma di nuovi cinque giudici scelti dal governo a guida PIS. E intanto in Polonia si invoca il sogno americano, non tanto quello della generazione self made man ma quello di Martin Luter King, di una società libera e democratica capace di mettere al centro la persona e non il potere. Sebbene Barak Obama nel corso della sua conferenza durante il summit Nato non ha espresso grandi preoccupazioni in merito alla vicenda del Tribunale Costituzionale, i cittadini continuano la loro attività di protesta. Nel mese di maggio 240mila persone hanno marciato per le strade di Varsavia in segno di protesta alla deriva autarchica intrapresa dal nuovo governo e manifestando pieno appoggio all’Unione Europea e ai suoi valori costitutivi. La più grande protesta dal 1989, dalla caduta del muro di Berlino quando la Polonia sperava di aver trovato la libertà. E invece tanto ancora c’è da fare.

LE NOSTRE INTERVISTE:

Gianluca Palma
Gianluca Palma
Giugno18/ 2016

Faremmo bene a stamparci in mente i numeri che seguono. Cinquecentocinquanta mila bambini vivono in comuni sciolti per mafia, 90mila subiscono maltrattamenti e un bambino su tre subisce la violenza di vedere la mamma picchiata davanti ai suoi occhi. Non solo. Un minore su dieci è condannato a vivere in condizioni di povertà assoluta, in contesti di illegalità e corruzione. Dietro queste cifre vi è la drammatica condizione dei bambini che vivono, anzi, sopravvivono in Italia in contesti di evidente marginalità sociale, specie nelle regioni del Sud. Il quadro emerge dal sesto Atlante dell’infanzia “Bambini Senza”, presentato dalla Organizzazione non governativa “Save the children” all’interno di “Trame 6” il festival dedicato ai libri sulle mafie in corso a Lamezia Terme (Cz).

trame6
Il rapporto di Save The Chlidren presentato a Lamezia Terme

L’idea dell’Atlante è nata nel 2010 quando, ancora all’inizio della crisi economica abbiamo deciso di analizzare i contesti di maggiore povertà per capire come e dove intervenire – ha spiegato Giulio Cederna, giornalista e autore del testo –. Monitorando i dati pubblicati dall’Istat e dai ministeri nel corso degli anni, tra il 2005 e il 2009 abbiamo registrato un’impennata dell’indice di povertà assoluta: oggi un milione di bambini vive senza servizi di prima necessità, le stesse mense scolastiche in molti casi non sono più gratuite e accessibili a tutti”.

L’allarme che lancia Save the children è soprattutto quello sulla crescente povertà educativa oltre che economica. “Vi sono quartieri in alcune città del sud come Napoli o Locri dove i bambini sono tagliati fuori da tutto, senza opportunità o stimoli – ha sottolineato Diletta Pistono, economista, tra i rappresentanti della Ong –. Un tempo quando si parlava di povertà e degrado ci si riferiva al cosiddetto Terzo Mondo, ma oggi alcuni territori del nostro Paese vivono in condizioni simili”. Ciò non solo a causa della mancanza di risorse. Come ricorda Pistono, infatti la programmazione europea 2007-2013 aveva destinato circa 500 milioni del PON sicurezza per progetti volti alla diffusione della legalità, di cui 107 milioni destinati ad attività di aggregazione e socialità. “Di quella cifra – ha aggiunto – circa 6 milioni erano stati assegnati ad associazioni della Locride che hanno inaugurato un centro per la legalità ma, da quello che sappiamo, ad oggi non è in funzione”.

figlia di ciro
La scena shock del finale di Gomorra2 in cui viene uccisa il personaggio di Maria Rita, figlia del boss Ciro di Marzio

Ogni edizione dell’Atlante presenta diagrammi, schemi e mappe, e in quest’ultima si possono trovare anche le foto scattate dal fotoreporter Riccardo Venturi che descrivono, territorio per territorio, la complessa e critica condizione dei minori. Ci sono bambini che sono nati e cresciuti in contesti in cui le mafie regnano incontrastate che non sanno né immaginano che esiste un’alternativa. C’è di più. Tra le vittime della criminalità organizzata, come riportato anche nel dossier, si contano 85 bambini uccisi dai clan, che vanno ad aggiungersi all’elenco in continuo aggiornamento curato dall’associazione antimafia Libera.

La Ong, in prima linea nella difesa dei diritti dei minori, è impegnata tutto l’anno in percorsi di educazione e formazione con i ragazzi nelle scuole in tutta Italia e, grazie a queste iniziative, entra costantemente a contatto con le difficoltà e i bisogni dei giovani.

Tempo fa abbiamo coinvolto proprio alcuni ragazzi di Locri in un progetto multimediale”, ha detto Cristina Gasperin, tra gli educatori di Save the children intervenuti a Lamezia, “dovevano raccontare la loro terra attraverso un video per come la percepivano loro stessi. Quando gli chiesi quale era secondo loro una grave mancanza nella loro città mi hanno risposto senza pensarci troppo, l’assenza dei trasporti, perché si sentivano abbandonati e lontani dal resto del mondo”.

Ma ci sono anche realtà attive sui territori, che mettono in atto buone pratiche. Tra queste come ha ricordato Cederna, “vi è Carmela Manco una suora laica che, a San Giovanni a Teduccio, problematico quartiere di Napoli, ha creato su basi volontarie, senza alcun finanziamento, un centro dove dà spazio ai giovani, coinvolgendoli anche in attività teatrali”.

 

MAPPA INTERATTIVA:

minori uccisi

mmasciata
mmasciata
Giugno11/ 2016

di Carla Monteforte

La vita riserva sorprese che in fondo al vuoto in cui eravamo annegate non ci aspettavamo di trovare. La mia si chiama Tunisia, un luogo disperso tra deserto, spezie, azzurro e nero kajal e dei grandi occhi dei nativi puntati con curiosità su noi straniere che, spudorate e col capo scoperto, attraversiamo questa parte di mondo situato ad un’unica ora di volo dall’Europa. Forse può sembrare un mondo più lontano, ma non a chi come me partorita dal Mediterraneo nei volti celati dal velo e dalla pudicizia non può non riconoscere i propri tratti e riconoscere chi eravamo negli sguardi insistenti dei giovanotti che sembrano passar la vita fissando i viandanti nelle sale da tè (dove non si vede una femmina).

Più che un viaggio nello spazio, infatti, quello nello splendido Stato del Nordafrica, gelsomino incastonato tra Libia e Algeria, è un viaggio nel tempo. Un’affascinante attraversata lungo i decenni che, tra panorami aspri, insegne d’altra epoca e sigarette fumanti, conduce a certe istantanee di Pietro Germi e Mario Monicelli, dove maschi dalla pelle imbrunita dal sole di quello stesso parallelo si annidavano in stormi nei bar di piazza per scrutare le passanti camuffate in grandi scialli scuri.

Tutto questo e pure altro è la Tunisia, terra inquieta che da Oriente freme verso Ovest. Troppo vicina al Vecchio Continente per non mirarvi col voyeurismo d’un confinante che scruta tra le siepi del vicino più facoltoso (o semplicemente più strambo).

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LA PAURA

Percorrendo le vie del centro dal nero dei niqab e chador, ci si imbatte in hijab indossati alla moda dalle belle studentesse della capitale che festeggiano la loro personale primavera dentro un paio di jeans. C’è fermento a Tunisi. I mercanti della Medina ti riempiono di lusinghe per piazzarti un pacco. L’unica regola del fight club è contrattare. Tanto l’italiano lo parlano tutti: la lingua romanza è la vera eredità craxiana, una valuta svuotatasi del suo valore in un lampo di mitra.

«La gente ha paura, non viene più» è stato il mantra di questo tour nei contrasti del Maghreb e del mondo dove di noi cugini arricchiti è rimasta solo l’impronta. Ovunque.

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Tunisia sedotta e abbandonata, potrebbe essere la sintesi di questo mio racconto nato dal caso. O forse dall’incoscienza; in tutta franchezza non sarei qui a tradurre sensazioni in parole se avessi avuto libero arbitrio su una meta. Questa mi è stata proposta per cui, dal mio tavolo dell’aperitivo, mi sono ritrovata all’aeroporto di Cartagine con in mano ancora lo spritz. Così, rimbalzata, e senza il tempo di inutili ripensamenti, mi sono ritrovata a vagare in un luogo che era ormai depennato dal mio mappamondo mentale (perché questa maledetta paura ha rimpicciolito il pianeta). La mia (di paura) ha fatto il check-in con me e visitato suq, musei e templi sacri. Solo che ad ogni passo si faceva una compagna di viaggio più debole, sopraffatta da altre vibrazioni e dalla curiosità (che della psicosi è l’unico antidoto).

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LATITANTI

Dopo gli attentati del Bardo e di Sousse i vacanzieri che nel Paese dei Gelsomini cercavano riposo e altri lussi a buon mercato se la sono data a gambe, dicevamo. I latitanti più ricercati sono gli italiani perché – è tangibile ad ogni passo – la nostra dirimpettaia si era fatta bella per piacere innanzitutto a noi, costruendo bistrot e caffetterie (e la reazione del personale degli hotel e dei commercianti che hanno salutato il nostro avvento come un fedele saluta un salvatore, non lasciava dubbi). I nostri sostituti hanno tinto di biondo i villaggi di Djerba: russi e mitteleuropei che si ritemprano dai rigidi inverni tra sole, piscine e balli di gruppo con instancabili giovincelli del luogo ad allietar signore e signorine da mattina a notte, nella speranza che a suon di Macarena queste si moltiplichino, permettendo loro di tenersi stretto il posto.

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Le enormi strutture multistellate, nate come funghi sulle coste dell’isola del golfo di Gabès, hanno braccia grandi abbastanza da accogliere tutte e tre le religioni monoteiste; raccontano di fasti recenti in ogni cosa, di feste, schiamazzi, trenini, massaggi, relax e oli abbronzanti di cui ancora s’avverte la scia fondendosi a quella del narghilè e del tè alla menta. Vietato lasciare il Paese senza berne un ettolitro (ma meglio evitare di farlo nelle ore serali, a meno che non si abbia in programma una festa e un after).

Le forze militari sono dispiegate ad ogni angolo, per garantire la sicurezza dei visitatori, ma la musica non si è ancora fermata del tutto. Anzi, qualcosa si muove – ha assicurato il ministro del turismo tunisino (che è una donna!) Selma Elloumi Rekik, a Djerba per il tradizionale pellegrinaggio ebraico della Ghriba. Entro la fine dell’anno potrebbe essere siglato l’accordo “Open skies” tra Europa e Tunisia che dovrebbe fare da volano per il rilancio del turismo messo a dura prova dagli attentati del 2015. Il ministro ha parlato di segnali positivi di ripresa del settore anche grazie alle nuove offerte di prodotti come tour culturali, agriturismo, safari nel deserto, turismo medicale ed estetico. Ma la parola più usata in conferenza stampa è stata: «Sicurezza».

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LA FESTA

1100 tra militari e poliziotti vigilavano sulla buona riuscita della festa di Lag Ba’omer, il pellegrinaggio annuale degli ebrei alla sinagoga della Ghriba – la più antica d’Africa (586 a.c.), situata a pochi chilometri da Houmt Souk. Inizia 33 giorni dopo la Pasqua, dura tre giorni e richiama fedeli da Libia, Francia, Israele e Marocco. La sinagoga nel 2002 fu colpita da Al Qaeda con un sacrificio di 21 persone; da allora il flusso dei pellegrini è notevolmente diminuito ma non si è mai arrestato. Quest’anno, nonostante l’allarme lanciato dal Lotar (ente israeliano di monitoraggio del terrorismo nel mondo), 2500 visitatori sono giunti da tutto il mondo per vederla.
Sono 3mila gli ebrei in Tunisia, mille solo a Djerba, dove trovarono riparo dopo la distruzione del grande Tempio di Gerusalemme. Con le rovine, si dice, fu edificata la sinagoga che custodisce tra le sue mura una delle più antiche e preziose copie di Torah nel mondo, scritta su pelli di gazzella.

Che ci faccio io qui? Me lo sono chiesta per tutto il viale che dal parcheggio esterno dove ci ha lasciato il bus (perennemente scortato dalla polizia) conduce al tempio. Che ci faccio io, cristiana, cattolica, consumatrice di alcol e nicotina, blasfema frequentatrice di discoteche e gay pride, bardata in una sciarpa blu, presa in prestito da una gentile sconosciuta per camuffare le mie vergogne in segno di rispetto al luogo di culto (e alle mipsterz osservate con sincera devozione in notti trascorse tra insonnia e tutorial di contouring e hijab su youtube)?
Tutto è a dir poco surreale, mentre avanzo tra uomini in uniforme, camionette dai vetri scuri e mezzi pesanti.

Flusso di pensieri che mi accompagna fin quando, superato il metal detector, sono dentro. Amen. Carica d’adrenalina ho attraversato il varco della sinagoga e dei miei limiti finché d’un tratto non ero più nella mia vita ma in uno di quei servizi che mandano al Tg delle 13, e tu con un occhio alla tv e l’altro al prosciutto crudo pensi:

«Questi sono pazzi!». Tutto sembra lontanissimo dal tuo mondo e dalla tua coca zero, icona del colonialismo occidentale, che è lì che aspetta d’essere versata.

Ora in mezzo a quei “pazzi”, non si sa come, ci sei finita tu. A guardarli da vicino, però, da dietro quella sciarpa che ti fa sentire tanto esotica – e che, nel quartier generale degli ebrei, hai indossato alla musulmana – non ti sembrano poi tanto più folli di te. Se non fosse per il massiccio dispiegamento di forze armate, in effetti, la festa dei giudei di Djerba sarebbe risultata molto meno ansiogena di certe processioni che hanno luogo a pochi metri da noi, nella presunta evoluta Europa. Mi domando ad esempio che direbbe la signora col cappellino verde che tanto avevo temuto mentre leggevo blog e servizi che trasudavano ansia e terrore se, nel suo abito uscito da Burda 1996, si trovasse (come me) catapultata in un’altra dimensione (tipo di Sabato Santo mentre il sangue scorre a fiumi per le strade di Nocera Terinese dopo il passaggio dei Vattienti), e che idea si farebbe il banditore d’asta venuto dalla Francia per lanciare rosmarino e bouganville alle fanciulle se fosse testimone di certe Madonne e di certi inchini.

Ma la festa è un virus contagioso contro il quale il mio organismo, per fortuna, non ha sviluppato difese immunitarie. Quindi d’un colpo, rapita dai canti, dalle acconciature, dalle maioliche, dalle telecamere dei network mondiali, dal gusto retrò delle mises delle pellegrine che per l’occasione hanno indossato l’abito buono (nella speranza di metter su famiglia) sono fuori dal guscio e sono viva.

Rinvenire uno sposo alle non maritate pare sia proprio uno dei moventi che spinge i fedeli a partecipare alla festa di Lag Ba’Omer (che novità!). E poi c’è la ricerca della fertilità attraverso il rituale delle uova. Funziona così: le ragazze scrivono su un uovo un desiderio e il loro nome, lo ripongono vicino ad una candela finché il calore di questa non lo rende sodo. Poi lo mangiano e diventano feconde, il che – più che retrogrado o surreale – mi suona familiare. Mi ricorda infatti un certo santo protettore delle zitelle e delle spose infelici alle quali questi era solito prescrivere una sua ricetta: lo zabaione.

E d’un tratto la mia testa è posseduta da un altro tormentone:

«San Pasquale Baylonne protettore delle donne, fammi trovare marito, bianco, rosso e colorito, come te, tale e quale, o glorioso san Pasquale!».

Tutto il mondo è paese.

E l’unico rimedio a un’ossessione è trovarne un’altra.

Non ho più paura.

 

(repost vrinzula.it)

alfredo sprovieri
alfredo sprovieri
Maggio31/ 2016

Certi pezzi di nera ormai dovrebbero pagarli al barile, tanto sono redditizi. Per questa nobile e antica branca della cronaca è stato sempre così, ma forse lo è ancor di più nel periodo di più disperata crisi (di contenuti prima che economica) conosciuta dal giornalismo.

Lo sanno tutti, la nera vende anche perché possiamo immedesimarci e giudicare, guardare uno specchio e decidere se riconoscerci. In queste ore abbiamo visto e rivisto come se fosse una puntata di Gomorra (magari proprio quella in cui Ciruzzo uccide l’amata Debora) che questo meccanismo funziona perfettamente quando una coppia di giovani trasforma la fine del proprio amore in un orribile delitto. Scatta questo strano fenomeno – a metà fra potevo essere io e io non sono così – che ci fa giudici senza mai condannarci, che ci rende passivi divoratori di dettagli inutili per il racconto della storia in sé. Siccome il mostro in prima pagina deve pur sempre sbattercelo qualcuno, fare un viaggio nella mente del caporedattore così come lui cerca di farcelo fare in quella dell’assassino potrebbe rivelarsi piuttosto interessante.

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La celebre lezione di giornalismo nel film “Sbatti il mostro in prima pagina”

Giovane uomo brucia giovane donna. Il lettore tende a dimenticarsene, ma succede spesso, troppo*. Tanto che lo schema del Caporedattore di un grande giornale (che per comodità immagineremo con la faccia di Gianmaria Volontè), si è dimostrato più o meno questo:

Se succede sulla Magliana (Sara Di Pietrantonio, 22 anni, ndr) approfondiamo con un bell’articolo che spiega i pericoli della tecnologia per i giovani d’oggi, a Corigliano (Fabiana Luzzi, 17 anni, ndr) scriviamo una spalla sul retroterra culturale della Calabria, nella bassa Bresciana (Pinki Kaur Aulak, 26 anni, ndr)  è chiaro che lì dovete darmi una spruzzata di fondamentalismo religioso“.

Si chiamano pezzi di appoggio, che si sommano al profilo (“Era una secchiona sorridente“, Corriere della Sera), all’analisi, alla scheda. Per quanto bene e in modo onesto possono essere fatti non sono altro che un modo per infarcire il male, per renderlo merce da vendere al pubblico bue. Non sono nemmeno il peggiore ingradiente se pensiamo che ci sono i plastici e le interviste ai criminologi, il dibattito e la moderazione dei commenti, ma quello semplicemente non è giornalismo quindi qui facciamo finta che non esista.

Il grande scrittore e giornalista Tom Wolfe ne “Le ragioni del sangue” (Mondadori, 2012) scrive:

«Non avevo mai capito bene che cosa intendesse dire Marshall McLuhan quando scrisse che la televisione avrebbe riportato le nazioni al tribalismo e al primitivismo sociale, ma ora, con l’avvento di internet, lo si vede. È cambiata la percezione della realtà. Quando un giornale riportava una notizia, il lettore era scettico, come l’indiano al quale era mostrato un pezzo di carta dall’uomo bianco, e non se ne fidava. Ora le tv, ma soprattutto i blog, i siti, sono come sciamani sulla piazza del villaggio che sussurrano qualcosa all’orecchio e per questo sembra vero».

La sua narrazione da 710 pagine è intrisa di nostalgia per quell’old journalism che in Italia proprio non ce la fa ad essere ripescato con i nuovi strumenti. In America, e di rimbalzo in tutta la cultura anglosassone di cui il giornalismo occidentale è intrisa, non è successo anche per il longevo apporto di tanti protagonisti della scrittura, ma da noi è andata diversamente. Un processo lento e inesorabile, iniziato tanti anni fa. Basta dare un’occhiata alle enciclopedie di giornalismo per vedere come le grandi cronache di nera (forse le ultime sono di Giuseppe D’Avanzo) siano state spazzate dall’ossessivo racconto della banana republic; come se i giornalisti italiani ad un certo punto si siano resi conto di non saper più capire e raccontare i drammi della società italiana se non attraverso le contumelie della sua classe dirigente. Dalla narrazione, insomma, è sparita la piccola borghesia italiana, nello stesso tempo la maggiore consumatrice di giornalismo. Da qui l’inizio della fine, altro che Internet.

A farla ricomparire in un ruolo da convitato di pietra è spesso un’accidentale collisione di eventi, come nel caso di questa ultima povera giovane ragazza romana. Nella sua tragica storia il pubblico ce l’ha messo il magistrato in conferenza stampa, quando ha raccontato come diversi passanti avrebbero potuto salvarla ma non l’hanno fatto. L’indifferenza, la solitudine, la miseria morale di una società come quella dell’Italia contemporanea accusata di concorso in omicidio. Sarà lo spunto che verrà a qualche caporedattore seriale in queste ore, vedrete. Un uomo che ha rinunciato a fare il suo lavoro, che è raccontare i fatti, perché non ha più cronisti sul posto, perché non può più impiegare risorse a curare i talenti e la sua giornata inizia insieme a mille concorrenti dai dettagli contenuti in un dispaccio di agenzia o in una affollata conferenza stampa. Un lavoratore annoiato che ha bisogno di pescare nella fantasia sua e in quella del suo pubblico elementi per infarcire il male, per renderlo merce. Ma il male è banale, e più di uno spettatore ormai si è reso conto del trucco.

 

 

_____________

*Minorenni uccise e bruciate in Italia | (maggio 1992) Gisella Treglia 17 anni, viene uccisa a coltellate a Formia (Latina) dall’ex fidanzato della cugina, che poi le dà fuoco. (dicembre 1991) Katiuscia Razio, 16 anni uccisa a Calcinatello (Brescia) dal fidanzato di 19 anni che le spacca la testa con un tubo e poi le dà fuoco. (maggio 1992) Donatella Salari di soli 14 anni viene uccisa e bruciata a Roseto degli Abruzzi (Teramo) dal fratello di una sua amica. (agosto 1993) Manuela Petilli, 15 anni, il suo corpo bruciato viene trovato a Ivrea (Torino) 17 giorni dopo la sua scomparsa; un nomade di 28 anni verrà condannato all’ergastolo. (agosto 2000) Gabriella Mansi di soli 8 anni viene bruciata ancora viva ad Andria (Bari) dopo un tentativo di violenza di un gruppo di cinque ragazzi fra i 18 e i 20 anni.

mmasciata
mmasciata
Maggio26/ 2016

di Ettore De Franco e Matteo Dalena

Il 1986 si aprì con l’uscita di “It” di Stephen King. Al pari di Derry, la cittadina del Maine in cui il romanzo horror è ambientato, Cosenza si sforzava di coprire il proprio lato più oscuro e decadente con una patina d’irridente spensieratezza. Eppure le fonti giornalistiche parlano di una città sull’orlo di una crisi di nervi.

La locandina di "It", capolavoro dell'horror
La locandina di “It”, capolavoro dell’horror

Gli ospedali cittadini dell’Annunziata e del Mariano Santo venivano scossi dagli scioperi del personale; la motorizzazione civile, che oggi giace esiliata lungo la SS. 107, vedeva i propri immobili di Via Popilia occupati dai dipendenti; l’erogazione dell’acqua funzionava con un’intermittenza desolante per un centro urbano situato ai piedi di due catene montuose. Il benessere dell’azienda di trasporto pubblico urbano, l’Atac, era minacciato dal fatto che solo un passeggero su due pagasse il biglietto, mentre le Ferrovie della Calabria registravano un preoccupante decremento dei viaggiatori. I bar del capoluogo di provincia si cimentavano in esercizi di disobbedienza civile mantenendo il costo della tazzina di caffè a 500 lire nonostante il nuovo listino dei pubblici esercizi stabiliva che un espresso dovesse costarne 600. La scena internazionale era egemonizzata dalla lotta al terrorismo arabo (Reagan minacciava azioni belliche contro la Libia e l’Europa decideva di concertare all’Aja una strategia comune contro la minaccia islamista). Un quadro, in fin dei conti, non molto diverso da quello attuale: allora come oggi, le produzioni televisive s’incentravano sul fenomeno-mafia (La Piovra 2 usciva proprio nell’86) mentre adesso sono Gomorra e la camorra a far da padrone.

Piena confusione anche in casa Cosenza Calcio, con una rosa scossa dai “casi d’insubordinazione” di Morra e Petrella e una parte della tifoseria che diceva di “sentirsi ridicola davanti a tutti i gruppi di tifosi le cui squadre si trovano sopra di noi in classifica”. La terza serie nazionale non regalava particolari entusiasmi e la pattuglia di giovani di belle speranze messa su dal direttore sportivo Roberto Ranzani, compreso l’inesperto coach Montefusco, stentavano a imboccare l’andazzo che soltanto un anno e mezzo dopo, con innesti mirati, li avrebbe portati al miracolo della B. Ma sul fronte societario il presidente Parise si barcamenava ancora nella ricerca di soci e, dunque, liquidità per garantire alla truppa rossoblù un’esistenza meno travagliata.

2 - Copia

Una fascinosa rassegna di amichevoli internazionali da disputare dinanzi al pubblico amico del San Vito venne propinata alla stampa come panacea di tutti i mali. Entusiasmo, pienone e casse traboccanti: la “ricetta” passava dalla scelta oculata di avversari internazionalmente riconosciuti ma, soprattutto, disponibili a esibirsi in terra calabra in pieno gennaio. Ranzani alla fine strappò il “sì” di due squadre blasonate e di tutto rispetto, in pausa nei rispettivi campionati. La prima scelta cadde sullo Stoccarda guidato dal croato plurititolato Otto Barić che decise di far svernare i propri ragazzi, saldamente assestati al quinto posto della 1. Fußball-Bundesliga, in una tournée nei teporosi lidi del sud Italia, quali Castellammare di Stabia e, appunto, Cosenza.

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Il portierone Gigi Simoni in una mitica formazione del Cosenza

Ma quel quindici gennaio ottantasei, i tedeschi trovarono a Cosenza un clima polare. Dinanzi a millecinquecento spettatori strafatti di Caffè Borghetti andò in scena il personalissimo show del baby portiere rossoblù Gigi Simoni, titolare dal primo minuto per via dell’infortunio occorso all’attempato Delli Pizzi. Per mezz’ora buona Simoni riuscì a neutralizzare le bordate dei vari Foerster, Allgoewer, Pasic ma soprattutto di un giovanissimo Jurgen Klinsmann. Terreno di conquista per lui il San Vito: vestito del nerazzurro Internazionale, tre anni dopo, in un match di Coppa Italia, scaricherà alle spalle dell’incolpevole Di Leo il due a zero definitivo al secondo supplementare guadagnandosi, a firma Santi Trimboli, l’appellativo di “ira di Dio”. Ma quella sera Jurgen aveva le polveri bagnate e nonostante il rocambolesco 2-6 finale per effetto delle reti di Mueller, Petrella, Allgoewer, Tivelli, Buchwald, Foerster, Buchwald e Pasic, il vero protagonista fu Gigi Simoni che ipnotizzando anche Zietsch su calcio di rigore, diede un senso a un match che la stampa definì «inutile dispendio di soldi ed energie».

Un match per pochi intimi, insomma, costato alla società di Parise un passivo di dieci milioni di lire, “neanche si trattasse di Coppa dei Campioni”. Ma dietro l’angolo attendeva sornione Mircea Lucescu. Nel tascone del suo pesante paletot verdastro stringeva in pugno un contratto già firmato per far scorazzare i “cani rossi” della società polisportiva di Bucarest, la titolata Dinamo, sul pesante terreno di gioco di una città sull’orlo di una crisi di nervi.

…continua….

 

 

Per approfondire:

Archivio storico Gazzetta del Sud (Cronaca di Cosenza), edizioni del 14, 15 e 16 gennaio 1986.

mmasciata
mmasciata
Maggio13/ 2016

Si può ancora scrivere di un concerto senza usare la parola “poliedrico” per l’artista? Con Daniele Silvestri è operazione da Acrobati, come il titolo del disco (dedicato a Lucio Dalla) lanciato con il Megafono tour ieri sera approdato al Teatro di tradizione Alfonso Rendano di Cosenza. Se è la prima volta nella ventennale carriera dell’artista romano un suo album si posiziona in testa alle classifiche di vendita, lo stesso non si può dire della dimestichezza con la quale calca palcoscenici così antichi e prestigiosi. Il teatro Silvestri lo conosce bene, non solo perché è figlio di Alberto Silvestri, geniale sceneggiatore (Sandokan e il Ritorno di Zanna Bianca, per citarne due) e autore televisivo che ha portato il proscenio del Costanzo Show nelle case degli italiani, ma anche perché già a metà anni novanta lo calcava al fianco di Rocco Papaleo nello spettacolo Rosso fiammante bloccato neve dubbi vetro tesi infinito. Erano gli anni in cui saliva anche sul palco de L’Havana al Festival della Gioventù Comunista. Anni lontani ma non troppo da quello che il 47enne ancora propone in tutte le sue tappe, concluse sempre con la canzone Cohiba, dedicata alla figura di Ernesto Che Guevara, datata ottobre 1996. E di revival non ne mancano nelle abbondanti tre ore di spettacolo orchestrate da Silvestri, che divide la serata in tre scenari e tre canovacci.

Il primo casalingo, dedicato all’album in uscita si presenta con una scenografia che richiama una città vagamente britannica, con Silvestri adagiato al pianoforte dietro una cortina di mattoni che somiglia ad un pozzo dei desideri. Nove minuti di pausa dopo la prima abbondante ora di musica e si passa al circo e alle Monetine; Silvestri nei panni del circense si lascia già andare a fuori programma e a brani fuori scaletta, accompagnato da un superbo gioco di luci, protagonista di tutto il concerto, fino alla parte open della serata, quella dedicata alle richieste del pubblico e della rete dei fan. Se proprio nella città dei bruzi non poteva mancare La Paranza, canzone portata a Sanremo nel 2007 in cui è contenuta una citazione (“Così da Genova puoi scendere a Cosenza“, semplice assonanza o richiamo alle due città simbolo della rivolta noglobal?), stupiscono brani più sentimentali e datati, in cui emerge l’atmosfera romanesca scanzonata e romantica del cantautore, che dedica fra gli applausi scroscianti del teatro Occhi da orientale a Filomena, una giovane ragazza di San Lucido vittima di un incidente stradale in cui sono state recise tre vite ma in cui grazie alla donazione degli organi hanno potuto trovare speranza otto persone.

La serata finisce con una mezzora buona di balli in platea, scene usuali alla Sila Suona Bee, la fortunata rassegna naturalistica della Archimedia produzioni che con il sold out allo show di Daniele Silvestri mette a segno un altro colpo vincente nella sua collezione. Per carpirne il segreto basta dare un’occhiata al backstage dove, prima durante e dopo il concerto, tecnici e musicisti sono messi in condizione di potersi divertire da matti.

Per far divertire anche il pubblico non c’è strada migliore di questa.

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Ettore De Franco
Ettore De Franco
Maggio12/ 2016

Praia a Mare era bella martedì scorso, discretamente vestita con abiti primaverili sui quali facevano capolino sprazzi di rosa. Sarebbe un’esagerazione dire che era tappezzata in onore del passaggio del Giro, da queste parti la gente è abituata a stare all’erta e di conseguenza stenta abbandonarsi spensierata tra le braccia del passante di turno, fosse anche un gentiluomo esperto, abbronzato e socievole come il Serpentone Rosa.

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L’isola di Cirella accompagna il Serpentone Rosa verso l’arrivo di tappa (foto ufficiale Giro d’Italia)

Le scolaresche scorrazzavano presso l’Alto Tirreno cosentino munite di zainetto, panino e maglietta dai colori sgargianti, mentre il corpo insegnante che le accompagnava si godeva la giornata flirtando con un paese riversato per strada sin dalle prime ore della giornata. I baristi, i ristoratori ed i venditori di protezioni solari per i giornalisti nord europei si sfregavano le mani al pensiero degli ingenti incassi fuori stagione. Le coppie del luogo, tirate a lucido per l’occasione, condividevano le terrazze dei bar del corso con membri dello staff della corsa rosa che vedevano in Praia un arrivo ancora troppo lontano dalla conclusione del Giro. Gli addetti al montaggio delle transenne portavano un tocco di varietà, sfoderando pantaloncini corti con tasche piene di cacciaviti e nastro isolante ed acconciature rasta raccolte in toupet che ricordavano le Miss degli anni ’60. Mentre era facile riconoscere gli operatori della Rai grazie al fatto che assediavano le tavole calde del centro alla ricerca di pesce locale prima dell’inizio della diretta televisiva.

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L’isola di Dino spettatore degli ultimi chilometri di tappa (foto ufficiale Giro d’Italia)

Il tratto finale era uno spettacolo con l’Isola Dino a fare da arbitro sul versante occidentale e la salita di Via Fortino ad oriente; tale preziosità paesaggistica diventava, però, scenario di uno dei momenti più pop della giornata grazie al passaggio della carovana pubblicitaria: un esercito di ragazze e ragazzi che regalavano gadget ed esibizioni danzerecce degne di una prima serata di Rai Uno. Il Giro è anche questo, talvolta sembra di partecipare ad un concerto dei Pooh. In questa zona, vicina ai siti archeologici di Blanda Julia e Laos, era inevitabile che vincesse Ulissi che di nome fa Diego, come il Maradona che trent’anni fa avrebbe inaugurato nella vicina Scalea un villaggio turistico dopo un viaggio in Uno Turbo da Napoli.

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Diego Ulissi vince la tappa di Praia a Mare (foto Ufficiale Giro d’Italia)

La conclusione di una tappa del Giro è come quando si raccolgono i pezzi di un gioco da tavola a fine serata, l’ascesi nella competizione, l’esilio dalla quotidianità ed i vestiti buoni vengono riposti nello scatolone da portare in soffitta ed a noi rimangono solo posaceneri pieni e macchie untuose dei bicchieri di vino che ad inizio serata erano traboccanti. C’era il rischio che il passaggio di migliaia di autovetture e di almeno duecento catene ben oliate, che gli schizzi delle borracce gettate dai corridori ed i sudori di campioni e gregari avessero lavato via il sangue delle persone che hanno perso la vita sulla Statale 18, ma gli organi delle vittime di incidenti stradali che ora vivono in altre persone ci aiuteranno a ricordare i volti di Ida, Filomena e Sara ora che la festa è passata.

 

LA PETIZIONE | Basta vittime sulla Statale 18: qui

Giuseppe Putignano
Giuseppe Putignano
Maggio11/ 2016

È come passeggiare nel futuro più temuto. Vito, studente di Agraria all’Università di Bari, vaga avvilito tra ulivi mutilati, secchi e morti; il lembo di terra che ora dovrebbe essere verde è grigio.

Accarezza le foglie e spiega:

Questa pianta potrebbe essere sana, ma il mandorlo è una specie ospite, se succede qualcosa di imprevedibile negli sterminati passaggi del ciclo biologico, ad esempio un cambiamento climatico favorevole al batterio, può fare la fine degli ulivi”.

Contrada Li Sauli, tra Gallipoli e Taviano, una fetta di Salento che si fa arida e piena di vita d’estate e che invece adesso annaspa immobile nella solitudine di un inizio primavera mite, come ogni anno, ma presago di tormenti come mai prima. Siamo a due passi dal Samsara, la discoteca della movida salentina con il nome di una dottrina buddhista che si potrebbe tradurre volgarmente in caos irrefrenabile.

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È qui che per la prima volta, nell’autunno 2013, è stata riscontrata la presenza di Xylella fastidiosa, un batterio delle piante esotico mai osservato prima in Europa. Si tratta di un killer piuttosto subdolo, difficile da identificare, che altera gravemente le piante ospiti fino a provocarne la morte. Il tramite del contagio è invece un piccolo insetto vettore, la sputacchina (al secolo Philaenius spumarius), non contaminato di per sé, che è invece diffusamente presente nel nostro territorio.

Secondo molti la xylella è stato il detonatore nel complesso di cause che hanno portato ad un essicamento rapido dell’ulivo, il Co.di.Ro., un acronimo che indica la malattia che sta uccidendo lentamente gli ulivi secolari del Salento, in quella che è stata definita come “la peggior emergenza fitosanitaria al mondo“, perché minaccia il paesaggio e l’economia di un’intera regione e rischia di diffondersi in tutto il continente.

Se esiste un punto di partenza possibile per districarsi nella matassa imbarbarita dell’emergenza xylella in Puglia, è indubbiamente questo campo di ulivi arresi alla vita.

C’è solo un punto da tenere sempre bene a mente – ci spiega ancora Vito passeggiando calmo in mezzo alle piante – l’uomo è lontano dal conoscere tutti i fenomeni e le interazioni biologiche possibili”.

Il tentativo di questo articolo è quindi solamente quello di individuare un punto di partenza per comprendere una questione complessa e rispondere ad una domanda essenziale: gli alberi stanno morendo?

1.

Scienza e giustizia

Esistono molte divergenze nella comunità scientifica, impossibili da catalogare in un singolo articolo, ma almeno sul fatto che il batterio Xylella fastidiosa sia arrivato in Puglia (e tra l’altro anche in Corsica), sono tutti d’accordo.

Secondo i ricercatori del CNR di Bari e dell’Istituto Basile – Caramia di Locorotondo, xylella è stata introdotta in Puglia in un “evento unico”, forse una partita di oleandri ornamentali proveniente da Costa Rica, transitata dall’Olanda senza i controlli necessari. Xylella fastidiosa è inoltre provatamente un patogeno da quarantena (come da certificazione europea Eppo) e il rischio contaminazione, oltre la zona già dichiarata infetta della provincia di Lecce e parte di quella di Brindisi, è concreto. C’è anche una nuova ricerca dell’Efsa, pubblicata lo scorso 29 marzo, che conferma la tesi della xylella causa esclusiva della malattia degli ulivi.

Inoltre, ed è un punto chiave per comprendere l’intera questione, anche se xylella non avesse alcun ruolo nella malattia che porta all’essicamento rapido gli ulivi salentini, e gli ulivi ne fossero “portatori sani”, andrebbe combattuta ed estirpata ugualmente, poiché si tratta di un batterio pericoloso, in grado di contaminare e devastare diverse specie di piante. Non lo dicono gli scienziati italiani, ma lo dimostrano le evidenze storiche: gli agrumeti brasiliani sono stati devastati a partire dal 1994 e ancora oggi dalla CVC, la clorosi variegata degli agrumi, di cui Xylella fastidiosa è stata provatamente causa.

Ma se cosi fosse, quale sarebbe la soluzione proposta dagli scienziati baresi? Per impedire che si diffonda in tutto il Salento e oltre, bisognerebbe abbattere tutti gli alberi infetti e potare radicalmente tutti quelli limitrofi. E non è detto che questo basti a fermare la contaminazione. Una posizione dura, ma orientata al recupero delle piante. Gli olivi ricrescono in fretta, fra tre-quattro anni gli olivicoltori colpiti dalle potature potrebbero tornare ad ottenere il frutto. Certo, sarebbero tre quattro anni difficili, molto difficili.

Qui la questione si infittisce. Il discorso dei cattedratici parrebbe filare, se non fosse che alcuni dei ricercatori che sostengono queste tesi (sette per la precisione, appartenenti al Cnr di Bari e agli istituti di Locorotondo e Valenzano) sono indagati dalla Procura di Lecce per aver violato dolosamente norme in materia ambientale e addirittura diffuso volutamente il batterio. Un’accusa infamante, se falsa, disarmante se vera. Va detto che la Procura di Lecce al momento del via alle indagini, fino allo scorso marzo, era guidata da un magistrato stimato, Cataldo Motta, pubblico ministero nei due maxi processi che hanno affossato la Sacra Corona Unita salentina negli anni novanta. E il procuratore ha annunciato di essere in possesso di controanalisi capaci di confutare gli esiti baresi. A sua volta, la comunità scientifica (qui un appello de Le Scienze) contesta al procuratore Motta la decisione di non aver mai reso pubbliche queste analisi.

 

 2. 

Le teorie del complotto

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A chi credere? È forse impossibile prendere una posizione con i mezzi e i fatti attualmente disponibili alla pubblica opinione, ma questo non ha impedito il proliferare nel Salento, e non solo, di movimenti ambientalisti o di protesta che potrebbero contestare anche tutto quello che avete letto finora. Lo slogan che rappresenta le loro posizioni va per la maggiore nel leccese di questi tempi: “la Xylella n’capu la tiniti”. La xylella l’avete nel cervello.

Oltre alla grave accusa formulata dalla Procura, a istigare i dubbi su una presunta macchinazione occulta dell’intera emergenza xylella ha contribuito soprattutto un episodio ripescato dalle cronache scientifiche, un convegno organizzato da Cost873, un network europeo di scienziati, industrie e specialisti della protezione delle piante, tenutosi nell’ottobre 2010 all’Istituto Agronomico Mediterraneo (IAM) di Valenzano (Bari). Qui i ricercatori convenuti hanno dichiaratamente sperimentato il batterio Xylella fastidiosa, originario del Sud America, sulle piante locali, introducendolo di fatto nel territorio pugliese per motivi di studio e prevenzione.

Di questo meeting si trova traccia sul web, dove è presentato con questa introduzione: “Attualmente, questo patogeno devastante (Xylella fastidiosa, ndr) non è mai stato riscontrato in Europa. Tuttavia, un vero e proprio rischio di invasione latente esiste perché questo parassita obbligato può infettare una gamma straordinariamente ampia di piante ospiti (vite, agrumi, drupacee, piante ornamentali), molti dei quali non sono normalmente esaminati per Xylella”.

Considerato ciò che sé successo in Puglia nei successivi sei anni, si tratta di una preveggenza quantomeno sinistra. Per dovere di cronaca, bisogna tuttavia costatare che a Valenzano e dintorni non vi è mai stato alcun caso di pianta infetta e che tra Valenzano e il focolaio più vicino di xylella, Oria nel brindisino, corrono circa 90km in linea d’aria.

Questo episodio ha, lui sì fuori da ogni dubbio, generato la diffusione di numerose teorie del complotto. In dubbio è stata messa la stessa presenza del batterio Xylella fastidiosa in Puglia. Uno dei più agguerriti movimenti ambientalisti, Spazi Popolari, sostiene addirittura che l’essiccamento degli ulivi dipenda da funghi tracheomicotici, storicamente presenti nel Salento, e che tutto il caso sia stato montato ad arte.

Come accusa la Procura, il batterio sarebbe stato introdotto in maniera fraudolenta dai ricercatori, o comunque una volta riscontrato sarebbe stato combattuto con mezzi inappropriati e deleteri, estirpazioni e fitofarmaci, che comporterebbero la distruzione di buona parte del patrimonio olivicolo salentino. Tutto sarebbe stato manovrato da indefiniti attori occulti, interessati per diverse ragioni alla distruzione delle piante: se per mezzo del batterio o tramite l’estirpazione selvaggia giustificata dalla sua presunta presenza, poco importa. Ma chi sarebbero questi manovratori?

Vi sono diverse teorie. Eccone una breve summa:

  • c’è la mano delle multinazionali dell’olio (Monsanto su tutte);
  • c’è la regia occulta dei costruttori del gasdotto Tap, che vogliono rovinare il paesaggio salentino;
  • c’è l’interesse dei grossi palazzinari a liberarsi degli ulivi secolari, per legge inestirpabili, per costruire alberghi e complessi turistici;
  • al contrario, c’è un interesse diffuso a danneggiare l’immagine del Salento, unica zona turistica d’Italia in costante crescita.

Tutte queste teorie presuppongono la malafede dei ricercatori che si sarebbero prestati alla noncuranza o alla contaminazione volontaria delle piante, e che oggi mentirebbero sui risultati delle ricerche, per avidità di finanziamenti e per indicibili dinamiche interne alle guerre tra bande della comunità scientifica.

Bisogna tenere conto di tutto questo, senza pregiudizi, e allo stesso tempo osservare lo sguardo di Vito mentre scruta gli alberi più lontani e immagina un futuro prossimo in cui potrebbero non essercene più. Perché al di là di ogni causa, colpa, sospetto e guru improvvisati che pubblicano sul web foto di piante miracolosamente resuscitate, gli alberi stanno morendo e non si può non vederlo.

 

3.

Tanti piccoli Pirro

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Figuriamoci se questo samsara (nell’accezione di irrefrenabile caos, dicevamo) poteva essere governato e non aggravato dalla politica. All’inizio del problema, nel 2013, la Regione e lo Stato hanno delegato le decisioni all’Unione Europea e questa ha imposto brutalmente quanto previsto dalla normativa Eppo: eradicazioni e trattamenti con fitofarmaci (quelli composti da agenti chimici) per contenere l’infezione in una zona di quarantena. Il governo Renzi ha quindi nominato un commissario speciale per l’emergenza, il capo della Guardia Forestale regionale Giuseppe Silletti, che ha imbastito in fretta un piano d’emergenza che applicasse le direttive europee. A Silletti è stato contestato di non aver cercato un confronto con la popolazione e i proprietari degli ulivi, né fatto chiarezza sulla giustificazione scientifica delle proprie azioni. Associazioni e singoli cittadini hanno quindi inondato di ricorsi il Tar e il Consiglio di Stato. Nel frattempo il Piano è stato modificato in base a nuove risultanze scientifiche e infine sospeso quando la Procura di Lecce ha posto sotto sequestro tutte le aree interessate dai provvedimenti e indagato, tra gli altri, lo stesso Silletti. L’esito paradossale è che oggi ogni azione di contenimento del batterio è ferma, in attesa del pronunciamento della Procura, e molti ne gioiscono, circondati dalle carcasse degli alberi.

A queste condizioni, in cui nulla appare certo e nessuno si preoccupa di spararla troppo grossa, nella ricerca scientifica pugliese inizia a farsi strada (senza tuttavia ancora esporsi ufficialmente) l’indiscrezione di un allarme chiaro. A prescindere dalle cause, se non facciamo nulla, il 70% degli ulivi pugliesi rischia di morire. Vito ascolta questa ipotesi e guarda un’ultima volta gli alberi mozzi e piagati. Non se la sente di negare, né di annuire.

Carmen Baffi
Carmen Baffi
Aprile29/ 2016

È stata inaugurata al Museo del Fumetto di Cosenza la prima mostra italiana su Charlie Hebdo, il giornale satirico francese colpito dal devastante attacco terroristico del 7 gennaio 2015 costato la vita a 17 persone. La mostra è visitabile fino all’8 maggio ed è stata inaugurata un mese prima con un intero pomeriggio, quello di sabato 9 aprile, dedicato al tema della satira politica, con incontri molto partecipati con vari artisti e musicisti. Un omaggio alla libertà di espressione e all’informazione più che mai attuale che arriva da una città del Sud sempre più eretica.

L’informazione interessa ai cittadini solo se è libera“, ha affermato in apertura della mostra Paolo Butturini, membro della segreteria delle Federazione Nazionale della Stampa e convenuto alla presentazione del libro del compianto direttore di Charlie Hebdo Stéphane Charbonier, in arte Charb, dal titolo “Ridete, per Dio”.

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Per avere giornali indipendenti però servono i lettori“. Bisogna leggere, pretendere la verità su ciò che accade ogni giorno, perché i giudici di chi informa sono i cittadini. Ma allora perché sono sempre di più i casi di giornalisti che hanno paura di mettere nero su bianco quello che sanno? Che temono di andare oltre i limiti del conformismo e che quando lo fanno, si ritrovano costretti a spostarsi accompagnati da una scorta? Michele Inserra, oggi capo servizio del “Quotidiano del Sud” a Cosenza, presente in sala nella giornata di inaugurazione, ha spiegato che determinate informazioni sono scomode per chi ha troppo potere in mano e un giornalista in questo modo viene privato della libertà di “essere limpido nel raccontare i fatti senza omettere nomi e soprattutto cognomi” . Era sicuro Michele Inserra, perché certe cose le ha vissute in prima persona e non ha paura di dire (come ha già fatto il Procuratore di Reggio Calabria Cafiero De Rao alle trasmissione “Le Iene”) che “Stato e Chiesa sono il palcoscenico della ’ndrangheta“.

La libertà di informare chi legge sui fatti accaduti è ormai sempre più limitata, anche secondo le redattrici francesi di Charlie Hebdo Marika Bret e Cocó, presenti anche loro in una giornata che Cosenza farebbe bene a ricordare a lungo. E proprio loro ci fanno conoscere quelle che sono spesso le paure di chi, con una matita o una penna, deve raccontare.

cocò mafia

La vita di chi sta in una redazione è complicata, perché “se un giornale è finanziato da capi di banche allora il redattore non sarà mai libero di scrivere ciò che vuole, arrivando ad una censura implicita“, ha spiegato la Bret.

L’attentato del 7 Gennaio compiuto dai fratelli Kouachi, in cui morirono 12 persone, fra cui proprio Charb, ha avuto un impatto enorme sui cittadini francesi e non solo, perché era la prima volta che un gruppo di terroristi entrava nella redazione di un giornale facendo una carneficina, ma persone come Marika e Cocó sono la prova che dal peggio e dal terrore si possono ricavare cose migliori, come disegni che fanno sorridere, ma allo stesso tempo riflettere per cambiare attivamente ciò che non va.

Cocò, la disegnatrice che fu sequestrata e poi rilasciata dagli attentatori, ci racconta la sua esperienza subito dopo l’attentato: “Di fronte ad un attentato non bisogna mai mostrare tristezza, semmai cercare una risposta a quello che è successo attraverso il disegno, perché il compito di un redattore di stampa è quello di suscitare la voglia, l’impegno e la rabbia di chi guarda“, dice Cocò ai tanti appassionati giunti a sentirla.

Dimostrazione che non servono armi e morti innocenti per bloccare la libertà di pensiero anzi, “è l’attualità a fare i disegni” e a dar voce ai pensieri. Per questo Cocò armata di un pennarello non ha perso tempo, proprio in sala, per dimostrarlo, mettendo nero su bianco un disegno satirico contro quella mafia che ancora in troppi, fuori dalle porte dell’arte, non hanno il coraggio di prendere in giro.

 

alfredo sprovieri
alfredo sprovieri
Aprile28/ 2016

roma sagoma

Il Mondo di mezzo non è venuto su in un giorno. C’è un prologo sconosciuto alla storia che ha sconvolto Roma: si svolge all’ora d’aria del carcere di Rebibbia, nel 1982. Siamo ancora lontani dai fatti di “Mafia Capitale”, semmai ci troviamo nel mezzo di quelli che hanno ispirato “Romanzo Criminale”.

Renatino er Bambolotto (Enrico De Pedis, che la finzione letteraria e cinematografica farà ricordare come il Dandi) è fuori da poco; con i 15 milioni del primo bottino della banda della Magliana può iniziare a staccarsi dalle bravate di Trastevere e dai suoi personaggi neri per pian piano diventare il Presidente amico dei servizi e benefattore di Sant’Apollinare. In galera c’era finito per una rapina fatta con Alessandro D’Ortenzi  alias Zanzarone, a quei tempi abituale ospite nelle ville dei principi dell’eversione nera di fine anni ’70.

«Certo non giocavamo a briscola – racconta quest’ultimo al Corsera nel 1996 – si parlava di destabilizzare il paese con la compiacenza di quella gente. Una volta che il paese fosse caduto nel caos, si sarebbe arrivati a prendere il potere e si sa bene che a noi della destra piace il potere».

 

Cap. 1

IL GABBIO

Ma questa è una storia risaputa, e avviene lontana dal rettangolo di cielo sulla Tiburtina chiuso al resto della città. Quì invece, nel proscenio dietro le sbarre caro ai fratelli Taviani, compaiono, in ordine di apparizione, quattro ragazzi: Massimo Carminati, Salvatore Buzzi, Gianni Alemanno e Peppe Dimitri.

carminati
Massimo Carminati ritratto in tre distinte foto segnaletiche

Massimo Carminati, milanese diventato romano in adolescenza, finisce al gabbio a soli 23 anni (con un curriculum criminale già da paura) perché ritenuto reo degli arditi delitti del gruppo terroristico conosciuto come Nuclei Armati Rivoluzionari. Stava scappando, e c’era quasi riuscito. Lo catturarono al valico del Gaggiolo nel tentativo di darsi alla latitanza all’estero; a bordo di una Renault 5 azzurra con lui c’erano i due avanguardisti Domenico Magnetta e Alfredo Graniti, 25 milioni di lire e tre diamanti. La polizia (leggenda mai confermata narra grazie a una soffiata di Cristiano Fioravanti, fresco di pentimento) li aspettava alla frontiera con i fucili spianati. Quando i militi aprono il fuoco sono convinti che nell’auto ci siano i capi superstiti dei NAR: Francesca Mambro, Giorgio Vale e Gilberto Cavallini. Invece l’occhio trapassato dalla pallottola fu quello del futuro numero uno di Mafia Capitale, proprio per questo episodio rinominato er Cecato.

Buzzi, futuro ràs delle cooperative rosse e numero due dell’organizzazione criminale che in questi mesi è a processo proprio nell’aula bunker di Rebibbia, all’epoca della prima detenzione invece ha 26 anni ed è dentro per aver ucciso con 34 coltellate, il 24 giugno del 1980, un complice che lo aveva minacciato di rivelare ai superiori della banca per la quale lavorava il vorticoso giro di assegni falsi che i due solevano spartirsi impuniti e insospettati. Un alibi costruito in fretta e furia grazie alla complicità della fidanzata brasiliana poi la confessione, a cui seguiranno anni da detenuto talmente modello (sarà il primo in Italia a laurearsi in gattabuia, tesi sull’attività giornalistica dell’economista Pareto e 100 con lode in Lettere) da meritare la grazia concessa dal presidente Oscar Luigi Scalfaro e il passepartout per i salotti della Roma solidale.

Alemanno, barese adottato in riva al Tevere, nel 1982 ha 23 anni come Carminati ed è ristretto a Rebibbia per una molotov lanciata contro l’ambasciata dell’Unione Sovietica. Non è la sua prima accusa: un anno prima era stato accusato d’aver preso a sprangate uno studente universitario con l’aiuto di altri tre camerati. In poco tempo sarà prosciolto da ogni accusa e più di qualche anno dopo, quando in molti hanno dimenticato, diventerà primo cittadino della Capitale italiana in quota Alleanza Nazionale, poi candidato al Consiglio Europeo per il partito di quella stessa Giorgia Meloni che oggi ambisce a diventare la prima donna sul Campidoglio e a ereditare la carica di sindaco della destra.

Gianni Alemanno ai tempi del Fronte della gioventù
Gianni Alemanno manifesta ai tempi del Fronte della gioventù

Oggi Gianni ha un po’ di processi di cui occuparsi e tanti seguaci con i quali dialogare su Twitter, ma all’epoca poteva parlare solo con una persona, il suo compagno di cella. Si chiamava Peppe Dimitri, romano de Roma. All’epoca 26enne, Dimitri era in carcere perché il 15 marzo 1979 figurava fra i terroristi che per commemorare la ricorrenza della morte del neofascista Franco Anselmi, ucciso un anno prima nel corso di una rapina in un’armeria, rapinarono vestiti da carabinieri un’altra armeria, la “Omnia Sport“, a due passi dalla Questura di Roma. Bottino niente male: una sessantina di pistole, quindici carabine e munizioni a quantità. L’impresa verrà rivendicata dai Nar ed ebbe infatti tra i partecipanti Giuseppe Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e Alessandro Alibrandi. Il 14 dicembre 1979, in Via Alessandria, sempre a Roma, l’equipaggio di un’auto civetta della Polizia di Stato notò tre ragazzi che trasportavano alcuni scatoloni da un sottoscala ad un’automobile. Uno di loro era ancora Peppe Dimitri, che fu bloccato dagli agenti mentre stava per aprire il fuoco. Negli anni del post-ideologico entrerà in Alleanza Nazionale, ricoprendo il ruolo di consulente del suo vecchio coinquilino Alemanno durante il suo incarico di Ministro alle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali. Poi nel 2006 perde la vita a 49 anni, travolto in un incidente stradale. Al suo funerale una folla di ministri, parlamentari, ex terroristi, giovani militanti e gente comune. La sua memoria è omaggiata da uno spazio verde all’interno del comprensorio di Colle Romito.

In realtà nella cella c’era anche Andrea Munno, all’epoca arrestato per un’aggressione, anch’egli nei Nar. Ovviamente lo ritroviamo nelle carte del processo a Mafia Capitale, nella parte dell’aggiudicazione degli appalti pubblici definiti dal capo dell’anticorruzione Raffaele Cantone:

familiari, per cui si invitano le imprese amiche e non quelle che hanno i requisiti. E delle imprese amiche non ci si cura nemmeno di verificare se effettivamente possono fare i lavori o devono essere escluse perché prive dei requisiti”.

 

Cap. 2

IL BAR

Amicizia vera, insomma, che arriva da un tempo lontano ma da posti sempre vicini. Una rete affaristica (una “mafia”) che spesso si sviluppa nei bar della Capitale. Dallo storico «Fungo», il bar all’Eur ritrovo di neofascisti – ma anche di criminali e malavitosi romani – fino al bar al largo di Vigna Stelluti, quartier generale in cui il Ros ha portato alla luce il sistema del Mondo di mezzo.

vigna stelluti
Le intercettazioni del Ros sotto il gazebo del bar frequentato da Carminati

Ma il bar po’ esse ferro come po’ esse piuma, e sotto i gazebo si gioca una vera e propria guerra d’intelligence fra guardie e ladri. Ogni mattina, ad orario tardo, la grappa è con la mosca e con la cimice, il caffè corretto al gps, il tressette è in diretta streaming e il virus nei telefonini. Microfoni direzionali e intercettazioni ad apparecchi fissi e mobili si bevono prima del cicchetto. Nel dettaglio di Vigna Stelluti, gli investigatori piazzano dieci cimici nascoste tra i tavoli del bar più due microcamere, una puntata verso l’interno del locale e l’altra verso l’esterno. Componenti del grande orecchio del Ros che intercetta ore e ore di conversazioni, fra cui la famosa in cui Carminati espone la teoria dei mondi. In un caso per questi minuscoli apparecchi stava per saltare tutto, quando la soffiata sulle cimici piazzate nello studio dell’avvocato Pierpaolo Dell’Anno – indagato per concorso esterno in associazione mafiosa – ha rischiato di far scoprire il marchingegno e con essa tutta la delicata fase d’inchiesta, ma alla fine, come saprete, il lavoro degli inquirenti è andato in porto nonostante i sospetti e le paure serpeggiassero sempre più frequenti fra gli indagati, in una serie di giornate sull’orlo della crisi di nervi.

Una tragica guerra di spionaggio all’amatriciana che va avanti per mesi e non manca di momenti comici, infatti, come quando uno dei destri di Carminati se la prende con un tecnico Sky scambiandolo per un poliziotto sotto copertura. E invece si trattava di una semplice parabola, come quella conclusa da un’attività di indagine costosissima per lo Stato, che ha dimostrato un danno erariale di milioni di euro e ha prodotto una mole impressionante di documenti in cui sono formulate accuse ora al vaglio del dibattito processuale che, fra le altre cose, è chiamato a dimostrare oltre ogni ragionevole dubbio l’associazione mafiosa e la corruzione in concorso di ben 46 imputati.

Sono bastati gli arresti, basteranno le condanne a fermarli? Se sono riusciti a trasformare le amicizie in un sistema vero e proprio lo dirà infatti la capacità di rigenerarsi tipica delle consorterie mafiose. Ora che un’altra campagna elettorale è avviata bisogna chiedersi se saranno stati capaci di sostituire i rami di comando spezzati dagli arresti per riscoprirsi ancora padroni della strada e dei tavolini dei soliti bar. Rispondere è un compito che spetta anche al giornalismo.

Di certo c’è solo che sarebbe stato più facile per tutti fermarli 34 anni fa, quando erano solo quattro amici al Nar.

 

(1 continua.)

_________

aggiornamento |  In aula bunker a Rebibbia, Luca Odevaine, a Roma vice capogabinetto prima del sindaco Veltroni e poi di Alemanno, ha ammesso di aver preso più di 15mila euro al mese per facilitare i protagonisti di mafia capitale: “Alemanno mi disse che per tutto il periodo della mia permanenza al Comune le due sue persone di assoluta fiducia a cui avrei dovuto far riferimento per qualunque cosa erano Riccardo Mancini e l’onorevole Vincenzo Piso che era stato in carcere con lui negli anni Ottanta e aveva finanziato la sua campagna elettorale. Quando a capo dell’Ufficio Decoro venne nominato Mirko Giannotta, segretario storico del Movimento Sociale di Acca Larentia e responsabile della tentata rapina nel maggio 2006 da Bulgari in via Condotti, e distrusse tutti gli archivi del materiale di pubblica sicurezza da me raccolto, decisi di lasciare Palazzo Senatorio e mi spostai in una stanza a piazza San Marco“. (1feb. 2017)

Giovanni Culmone
Giovanni Culmone
Aprile18/ 2016

Canan Coskun ha negli occhi il timore di un inglese stentato, non vorrebbe stare a Perugia oggi. È la prima volta che fa un’esperienza del genere: parlare di giornalismo fuori dalla sua Turchia. I riflettori sono tutti per lei e per un attimo si potrebbe anche invidiarla, ma va subito al cuore del problema: ha solo 29 anni e rischia di passare i prossimi 23 in prigione. Ma questa non è la storia di Canon, questa è la storia della morte annunciata del giornalismo turco.

Il 19 febbraio 2015 Canon ha scritto un articolo dal titolo “Controversa vendita di abitazioni in magistratura”, che indagava l’acquisto da parte di alcune figure di spicco della politica turca di appartamenti di una società immobiliare pubblica a prezzi stracciati. Per aver precisato i nomi nell’articolo è stata accusata di “insulti a pubblici ufficiali”. La sua storia dovrebbe essere un’anomalia, è invece la normalità dell’informazione turca. È lei stessa a confermarlo alla plateaPoco più di un mese fa del resto fece scandalo la vicenda dello Zaman, principale giornale turco di opposizione: nel giro di due giorni la polizia turca fece irruzione nella sede del giornale, che venne commissariato il giorno successivo e tornò in edicola dopo due giorni con una linea editoriale filogovernativa. Un’azione perfettamente organizzata e nemmeno  un episodio singolo, ma solo quello che ha avuto più risonanza mediatica.

grafico turco

Secondo il Mapping Media Freedom sono 212 i casi di violenza ai danni di giornalisti in Turchia dal 2014 ad oggi. Kadri Grusel è uno di questi: la mattina del 22 luglio 2015 scriveva il tweet “È vergognoso che leader esteri chiamano e consolano la persona che è il principale responsabile del terrore dell’ISIS”. La sera dello stesso giorno veniva licenziato dal suo giornale, il Milliyet. La repressione alla libertà di stampa non è qualcosa di astratto: si basa su numeri degli arresti, dei morti e sulle condizioni con le quali i giornalisti sono costretti a lavorare. Ma sopratutto la repressione ha una causa. Secondo il giornalista di Al Jazeera Peter Greste è una conseguenza che va rintracciata nell’11 settembre 2001 e nella successiva guerra al terrore che Washington ha dichiarato al mondo. In buona sostanza, se prima di allora i giornalisti erano considerati osservatori neutrali degli eventi, sarà George W. Bush ad inaugurare la politica manichea del “sei con noi o contro di noi?”.

Una domanda dalla quale non si torna indietro e alla quale nemmeno i giornalisti hanno potuto astenersi, diventando conseguentemente “soldati di terra involontari” e quindi target. Dopo l’11/9 i giornalisti hanno iniziato a morire non per quello che scrivevano o raccontavano, ma per quello che rappresentavano. E se la guerra al terrorismo non è una guerra tradizionale, perché il terrorismo è qualcosa di astratto, è un’idea, la guerra al terrorismo è una guerra di idee. Le idee costituiscono però il campo dei media ed basta ridefinire la parola terrorismo includendo qualsiasi forma di opposizione per occupare quello spazio che poco tempo fa chiamavamo libertà di stampa.

La Turchia oggi è la Washington di quindici anni fa. Il presidente Recep Tayyip Erdoğan non può far altro che ringraziare l’epifania dell’Isis che ha permesso, anche a lui, di dichiarare una guerra astratta che di concreto ha solamente l’elevato numero di giornalisti che ne sono rimati vittime. La situazione del giornalismo in Turchia non è stata mai facile, ma se prima si poteva parlare di un’indipendenza dei media dalla politica oggi le proprietà dei giornali sono direttamente collegate al potere. 7 titoli di giornale e 16 titoli di editoriale identici lo stesso giorno ne sono la prova più eclatante. “Non ci uccidono apparentemente, ma ci condannano alla fame e ad essere esclusi per sempre dai circuiti mediatici” afferma con rabbia Kadri Gruselper questo non saremo mai grati ad Erdoğan per non uccidere giornalisti”.

Dove muore il giornalismo nasce la propaganda.

(ha collaborato Marco De Laurentis)

#IJF16 | Tre consigli (e una critica) al Festival del giornalismo

alfredo sprovieri
alfredo sprovieri
Aprile12/ 2016

Piazza IV Novembre, Perugia. Mentre siamo in fila per seguire un panel alla decima edizione del Festival internazionale del giornalismo il diabolico algoritmo di Facebook ci ricorda che proprio qui tre anni fa lanciavamo la nuova edizione digitale di questo sito. Significa che per l’ennesimo anno – e abbiamo sinceramente perso il conto – una nutrita masnada di autori di questo esperimento digitale ha partecipato con passione e sacrificio a quello che per noi resta soprattutto un immancabile appuntamento di confronto e di formazione permanente al new journalism.

La coincidenza ci ha convinto di avere null’altro dei titoli affettivi per rispondere all’appello della mamma del Festival Arianna Ciccone che, salutando la prossima edizione (dal 5 al 9 aprile 2017), ha postato così:

Proseguiamo il nostro percorso cercando di fare sempre un po’ meglio dell’anno precedente. A questo proposito, rivolgo il mio ultimo ringraziamento a chi ci dà consigli, suggerimenti, idee per migliorare ancora. Vuol dire che volete bene al Festival, questo è bellissimo e mi emoziona profondamente”.

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In fila per entrare alla Sala dei Notari

Diamo prima un po’ di numeri ufficiali: 55-65mila il numero di presenze stimate. 259 gli eventi, tutti a ingresso libero, dei quali 85 in traduzione simultanea – tra incontri-dibattito, talk, interviste, serate teatrali, premiazioni, presentazioni di libri, case history, startup, nuove realtà e tendenze editoriali – in 17 luoghi del centro storico di Perugia. 549 i relatori provenienti da 34 paesi diversi, più di 2000 i giornalisti accreditati, oltre 170mila le visite al sito internet (il sito in inglese ha registrato un incremento del 20%). 35mila gli accessi per i video del canale youtube; 7mila ore di visualizzazione dal vivo e on demand. 12mila le visualizzazioni in diretta streaming e 23mila visualizzazioni globali on demand. L’hashtag #ijf16 ha prodotto circa 50mila tweet dal 6 al 10 aprile, provenienti da circa 10mila utenti diversi (e da 4 continenti). Picco di tweet raggiunto: 1.724 tweet in un ora alle ore 12.00 di sabato 9 aprile. L’hashtag #ijf16 è entrato tra i trending topics per tutti 5 i giorni in Italia, Svizzera, Germania e Stati Uniti.

Si può provare a migliorare una roba del genere? Perché no, noi abbiamo tre semplici idee da proporre pensando alla marea di free lance e aspiranti giornalisti che frequentano il festival alla ricerca di una possibilità per proporre i propri lavori.

Consiglio 1: microeventi di networking dal basso

Sarebbe bello poter partecipare l’anno prossimo ad un network meeting in cui si può liberamente presentare la propria idea ai grandi del giornalismo internazionale, magari alla ricerca di una rete di contatti o di un finanziamento per la propria inchiesta. Nulla di complicato: un’ora di tempo per presentare – alla platea con una presentazione di cinque minuti (nello stile dei live pitch dedicati alle start up) o all’ospite in modalità one to one – la propria idea o il proprio lavoro. Pensando ad un appuntamento tematico giornaliero a cui potersi iscrivere preventivamente, si potrebbe arrivare a dare questa possibilità in modo trasparente e libero a 20 progetti dal basso al giorno. Le grandi aziende lo fanno da anni (famosi i networking coffee con Tim Cook della Apple), nel giornalismo sarebbe qualcosa di inedito o quasi.

Consiglio 2: dibattito all’americana fra idee

Molto interessante sarebbe vedere, magari con il coinvolgimento degli studenti delle scuole di giornalismo da tutto il mondo, l’effetto sugli spesso soporiferi talk all’italiana delle regole del dibattito all’americana. Non sempre persone sedute sulle poltroncine a discutere di loro stessi, cioè, ma un vero e proprio scontro di idee con un voncitore simbolico, come avviene nei famosi campionati di dibattito delle università anglosassoni, una pratica consolidata al punto che le finali nazionali sono seguite da milioni di spettatori, fanno parte della letteratura del “Debate” e hanno fatto del dibattito una vera arte a livello internazionale.

Consiglio 3: question time per il lettorato

Le persone amano poter fare qualche domanda alle persone che vedono ogni giorno alla tv. e a noi piacerebbe anche poter vedere qualche appuntamento che dedica più tempo al lettorato e meno agli addetti ai lavori. Un question time di un’ora dedicato alle domande a raffica della sala per gli ospiti, momento che viene quasi sempre riservato agli ultimi 10 minuti dell’incontro e troppo spesso viene by-passato per motivi di contingenza. Microfono aperto a una serie di domande secche (attenzione al pippone: vietati i mini comizi del pubblico) che arrivano dalla platea e dalla Rete.

Critica: più “power of now” per tutti

Mentre la novità del on demand è stata accolta con grande soddisfazione, in molti fanno ancora difficoltà a trovare la diretta streaming (di qualità eccelsa, per cronaca) che attualmente è organizzata per sale (Sala dei Notari, del Dottorato, etc.) sul canale youtube del festival. Potenziare il redirect attraverso le dirette social o con delle stanze live più efficaci magari ospitate in evidenza sul sito del festival può rendere tutto più friendly per chi non può esserci ma vuole esserci lo stesso.

ijf16 leosini
Nb. Nelle prossime ore condivideremo i servizi e le interviste che abbiamo realizzato al Festival, per ora è importante sottolineare che nessun capotreno è stato maltrattato per la produzione e la stesura di questi quattro consigli.

mmasciata
mmasciata
Aprile04/ 2016

di Ettore De Franco e Matteo Dalena

Gli ultimi 365 giorni degli anni ottanta sono stati particolarmente densi, in questo lasso di tempo The Cure pubblicarono Disintegration ed i Nirvana uscirono con il loro primo lavoro in studio: Bleach; la Prima Repubblica italiana registrò l’avvicendamento tra Francesco Santo e Giuseppe Carratelli alla carica di Sindaco di Cosenza e quello tra Ciriaco De Mita e Giulio Andreotti, in rappresentanza del Pentapartito, sulla poltrona di Primo Ministro del Belpaese. Nell’aprile del 1989 andò in onda su Rai Tre la prima puntata di Blob, in giugno un uomo armato di buste di plastica piene di chissà cosa bloccò dei carrarmati in Piazza Tienammen e nel mese di novembre le rovine del Muro di Berlino cominciarono a seppellire il mondo dove le nostre madri ed i nostri padri avevano imparato ad odiare e ad amare.