La prima è quella di Giuseppe per Ferruccio, spedita da Roma e in autunno. Giuseppe che parte per un’America di cui non sa niente se non che è ordinata, piena di biblioteche, lontana dalla noia e da suo figlio, da Lucrezia e dai giorni vecchi che hanno passato insieme, dalla stanza ventitre di un albergo di Viterbo.
L’ultima è di Lucrezia per Giuseppe. È marzo e sono passati degli anni. Lucrezia e i figli avuti da Piero, la loro casa a Monte Fermo, ogni tanto il pianto e gli slanci di disprezzo per ciò che la circonda, gli amori che la consumano piano mentre cerca protezione. E Piero, intanto, lavora e si rassegna.
Nel mezzo, le esistenze di Alberico, Albina, Ferruccio, Serena, Egisto, Ignazio Fegiz, Roberta: qualche nascita e qualche morte, i corpi che si appesantiscono e si sciupano, partenze e ritorni.
Ma qual è davvero il posto che si è lasciato? Quale quello in cui si è arrivati un giorno e quale quello a cui si torna?
E ci sono, sui fogli di carta che Natalia Ginzburg immagina nelle caselle postali, le stesse parole e le stesse frasi che si ripetono e si richiamano a vicenda: è il romanzo dei giorni scritti che invece hanno il suono delle voci, e le voci diventano una sola. Si sovrappongono i dolori e le speranze, le miserie casalinghe e le gioie minuscole.
Tra la città, con le sue strade e i suoi angoli familiari o stranieri, e la casa, con le sue stanze piccole e grandi e gli oggetti che abbiamo scelto per riempirle e riconoscerle nostre, non c’è che la vita e tutto quello che di lei sappiamo e non sappiamo.
Dentro e fuori: “La vita dei nostri giorni” che si riflette “come nelle schegge d’uno specchio rotto”; schegge che dobbiamo maneggiare con cura per non ferirci, per non avere paura di un’immagine frammentata e incompleta.
Stamane un amico mi ha consigliato di guardare la replica della tappa Jaca-Val Louron del Tour de France del 19 luglio 1991 e, in contemporanea, un altro mi ha chiesto se avessi voglia di scrivere qualcosa su Gianni Mura. Tale sincronismo si è tradotto in un momento di piacere nel leggere l’attacco dell’articolo che Repubblica mandò alle stampe il 20 di luglio:
“Bull mette le ali e vola alto nel cielo di questo Tour. Non è Pegaso, è uno strano animale che morde la strada come fosse un osso. La strada è sempre più piccola, un corridoio in mezzo a gente bollita scuoiata sbronza e forse anche felice” .
Avevo quasi 10 anni all’epoca e il nonno non aveva ancora preso a leggermi gli articoli del Muragianni cronista d’oltralpe; ma, come il giornalista, amava le parole crociate. Dopo pranzo, in estate, siedeva in poltrona, estraeva dal taschino della camicia la sua Parker a scatto e sintonizzava il televisore su Rai Tre. Di lì a pochi anni Gianni Mura si sarebbe diventato compagno silente ma prolifico di parole delle mie quarantene volontarie.
Mentre le mie coetanee e coetanei adolescenti pensavano alle bionde trecce, gli occhi azzurri e poi le tue calzette rosse, vivevo le estati in funzione del Tour de France. Mi svegliavo con l’obiettivo di leggere l’articolo in cui Mura avrebbe tratto un bilancio della tappa del giorno prima, parlando, con la scusa della competizione, di tutto ciò che stimolava il suo intelletto. Con la sua sintassi dimostrava che per arrivare da un punto A a un punto B il percorso era tutt’altro che lineare. Nel tragitto che portava dalla bandiera a scacchi della partenza allo striscione dell’arrivo lo scrittore ci obbligava a delle soste forzate per osservare i paesaggi, per provare vini e formaggi locali e per scrutare le espressioni di quelle persone che Eugene Weber aveva definito ‘contadini diventati francesi’.
Grazie a Mura ho sviluppato la dipendenza verso l’amore platonico più struggente della mia vita, Marco Pantani, e quella verso il genere letterario che preferisco sopra ogni altro, il giallo. Giallo come la maglia che indossa il campione de La Grande Boucle sui Campi Elisi, Giallo su Giallo, come il titolo del suo thriller ambientato nella carovana che vaga per le strade transalpine. Le citazioni di Mura sono state il combustibile dell’amicizia con persone che vivono lontano e le sue recensioni di ristoranti l’inesauribile fonte di acquolina in bocca.
“Natale Nappa, reggino di nascita, ha lavorato molti anni nelle isole siciliane, Salina in particolare, come cuoco, poi è tornato a casa. A Pellaro ha aperto nel 2007. Curiosità: Pellaro è attraversata dal 38’ parallelo, come Seul, Smirne, San Francisco e nella sua baia sostarono le navi dirette alla battaglia di Lepanto”.
Mura era il fattucchiere capace in cinque righe di evocare l’imperialismo statunitense e la città più alternativa a stelle e strisce, di rimandare al punk italiano e citare una delle battaglie navali più importanti della storia, quella in cui Venezia e Istanbul si affrontarono senza sconti. Gianni Mura, con la sua Olivetti, non prescriveva, non imponeva la propria visione, ma aiutava a mettere in moto i neuroni di lettori e lettrici, era maieutico come Socrate e onesto come l’Apollo che attraverso dell’Oracolo di Delfi imponeva di conoscere se stessi.
Mura è seminale, lascia sulla terra che da qualche giorno grava con leggerezza sulle sue spoglie, schiere di appassionati che ci allieteranno le letture future strizzando l’occhio al mio compagno di quarantena.
Raccontare una strada vuota, da un balcone affacciato sul Po, è quasi una follia. Anche quando quella strada stretta è parte integrante del posto che sta pagando più di chiunque altro la peste del nuovo millennio. La Lombardia è il freddo ritrovato di questi primi giorni di primavera, ma questo sole gelido e insistente non riesce a riscaldare il silenzio quanto quel +361 di ieri sul numero delle vittime.
La centrale termoelettrica di Ostiglia di giorno e di notte (foto: Stefania Lecce)
C’è il sole, c’è il silenzio e ci sono gli esperti a tenere a bada la noia e le domande, a cui rispondono sicuri senza essere sicuri di niente. Lo nascondono con disinvoltura, perché ormai hanno imparato a conoscere il meccanismo rapido della comunicazione televisiva. Davanti non hanno singoli pazienti intimoriti da una diagnosi negativa, ma migliaia di giudici in pigiama, spettinati e sull’orlo di una crisi di nervi per un posto di lavoro congelato o scaduto prima del tempo.
I virologi, gli infettivologi e i cardiologi sono diventati gli ospiti più attesi della giornata: forse è un male, ripercorrendo la quantità di informazioni utili e contraddizioni che esprimono, forse è un bene se si pensa che, senza questo virus, al posto loro, ci sarebbe solo la politica italiana.
E qui, davanti a questo show imprevedibile, c’è il mio divano a doppia vista – finestra e tv – , a ottanta passi precisi dal Po. Sì, ottanta, li ho contati quattro mesi fa, quando, invece del picco, si attendeva la piena come una liberazione.
La piena, il picco e la liberazione.
Nelle case decadenti che ho di fronte tutto tace, ed è una banalità che mi colpisce. Ogni tanto si accende una luce, passa un’automobile sospetta, un gatto in calore, un cane che lo fa fuggire. Poi quel gatto ritorna circospetto, quasi sempre intorno alle 18, quando il bollettino della Protezione civile conferma puntuale l’apocalisse giornaliera. Che uccide, illude o supera se stessa.
Oggi, in questo paesino della padania non libera, i contagiati sono 19, chi vorrà potrà seguire la messa di Don Renato su Facebook e per la spesa bisognerà accontentarsi dell’unico discount presente sulla via principale. Ha nutella, frutta fresca e non il vino, ma è troppo piccolo e indifeso. Come le fabbriche non essenziali, chiuse e già in crisi. Resta aperta la centrale termoelettrica che spunta dal tetto che ho davanti agli occhi, dall’altra parte del fiume. Sono altissimi i suoi camini, stretti, biancorossi e lasciano nell’atmosfera i fumi della combustione. Una combustione totale, della mente e di un corpo ingrassato che in questa terra straniera e ammalata, si muove a fatica.
So che pare abbiano tutto per assomigliargli, ma questi non sono tempi di guerra. Sono tempi di malattia, tempi di sgomento, tempi di fragilità. Tempi da vivere: perché la vita che non è fragile non è vita. Abbiamo tutti bisogno di una cura a questi nostri giorni, ma cos’è la cura?
La cura (TRECCANI | cura s. f. [lat. cūra]. – 1. a. Interessamento solerte e premuroso che impegna sia il nostro animo sia la nostra attività) è tutto ciò che è utile a convivere in dignità con la malattia, fino alla guarigione oppure fino alla morte.
Curare quindi non significa vincere o perdere una guerra, non significa combattere contro qualcosa, curare significa amare qualcuno.
Il 5 marzo, il Dr. Liu Kai, dell’ospedale del popolo dell’Università di Wuhan guarda il tramonto insieme a un paziente di 87 anni ricoverato da un mese per complicazioni da Corona Virus.
È tutta qui la sfida per l’umanità: finché saremo senza medicine efficaci per questo virus, saremo impegnati a non rimanere senza altre cure per contenere i suoi effetti sulla salute dei più deboli. Chi non è impegnato fuori di casa in questa emergenza, deve rimanere a casa sua il più possibile proprio per questo motivo, per prendersi cura di sé stesso e degli altri, e per permettere a chi ha bisogno di cure ospedaliere di ottenerle. Per questo vanno evitati il più possibile gli assembramenti e le occasioni di contagio, per questo dobbiamo decelerare, cercare di appiattire la gobba di quella pericolosa curva, per non perdere il controllo e andare a sbattere a tutta velocità.
Le cronache manzoniane dalla Lombardia raccontano al mondo di centinaia di persone che ogni giorno muoiono da sole, cercando sprazzo di tutto l’amore di una vita negli occhi di uno sconosciuto palombaro che a un metro di distanza prova a galleggiare negli abissi di questo male.
È tremendo, inaccettabile per la nostra civiltà. Per reagire tutti e ognuno dobbiamo farci carico della cura dei deboli e degli ammalati, il sistema sanitario non può farcela da solo. Come farlo? Come essere utili dalle proprie case nel tempo in cui intere comunità per la prima volta dopo secoli sono costrette anche a rinunciare al rito dei funerali, del conforto con la vicinanza e con la presenza? Effettuando donazioni e esaltando il potere della parola.
Ormai siamo tutti protagonisti della comunicazione, quindi siamo chiamati a fare al meglio la nostra parte, che significa anche depotenziare il contagio delle parole tossiche. I malati sono i più deboli della società, hanno già tanti problemi, non meritano di doversi sentire anche in colpa per la propria debolezza. Ancor di più oggi che, senza distinzioni, malati lo siamo potenzialmente tutti (WIKIPEDIA | dal greco pan-demos, “tutto il popolo”) non cadiamo nella caccia verbale agli untori, non chiediamo nel modo sbagliato ai cittadini di combattere contro un nemico invisibile, altrimenti otterremo solo l’effetto contrario, e li vedremo combattersi uno contro l’altro.
Non tutti hanno gli stessi mezzi per affrontare questi tempi, non è vero che il virus è democratico. Proviamo a essere veicolo per tutti delle spiegazioni nel modo corretto, senza eccessi e distorsioni (TRECCANI infodemia s. f. Circolazione di una quantità eccessiva di informazioni, talvolta non vagliate con accuratezza, che rendono difficile orientarsi su un determinato argomento per la difficoltà di individuare fonti affidabili).
Abbiamo bisogno di parole adeguate, che facciano comprendere a tutti che non stiamo combattendo una guerra, ma che stiamo vivendo un’emergenza sanitaria, cioè un complesso sistema di problemi. Sono importanti le parole. Non ci sono “trincee” nei supermercati, nelle farmacie o negli ospedali, coloro che non possono stare a casa perché chiamati ad affrontare la parte più acuta del problema non sono kamikaze “in prima linea”, sono professionisti che devono poter fare il proprio lavoro con più serenità possibile, sentendosi sicuri di quello che sono, di quello che sanno fare.
I medici, per esempio, devono poter fare i medici e basta, non possono avere anche il carico emotivo degli eroi in battaglia, non può gravare solo su di loro il destino di questa emergenza.
Nel personale sanitario ci sono tanti troppi contagi e anche troppi decessi, e non meritano i medici e gli infermieri morti in questa epidemia di essere rubricati come dei caduti di guerra, come dei sacrifici necessari. Perché i medici che hanno perso la vita durante questa emergenza sono morti sul lavoro. Non sono vittime di un virus, ma di una società che non li ha protetti nello svolgimento del loro compito, che non li ha equipaggiati adeguatamente, che non ha investito su di loro. Una società di evasori fiscali che ha parlato per decenni di emergenza alle frontiere facendo finta di non sapere che la sicurezza di un paese è data dai fondi investiti nel sistema sanitario pubblico, nell’istruzione pubblica, nella ricerca.
Questa è la grande sfida dei giorni che viviamo e vivremo convivendo con la malattia, mettere in condizione i medici di curare e gli scienziati di imparare da lei. Sono in corsia per curare e capire, mentre tutti noi siamo qui per sperare, come scriveva il grande Gianni Mura, e aveva ragione.
Christine ha gli occhi grigi come nuvole di temporale. Sembrano specchiare l’eco di un tumulto di voci, voci che parlano di un viaggio attraverso l’inferno. Sono le cosiddette migrazioni irregolari attraverso il Mediterraneo – spesso accolte con discriminazione e pregiudizio dall’Europa – il traffico di esseri umani sfruttati dalla criminalità organizzata, anni di giovinezza persi che raccontano delle manifestazioni più viscide della violenza razzista nelle sfere della nostra quotidianità.
Quella di Christine è solo una delle tante storie di vittime di sfruttamento, storie che arrivano in Italia, ma il cui destino appare spesso segnato fin dal paese d’origine. Da qualche mese è beneficiaria del progetto S.p.ra.r. (sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati) per adulti, gestito dal Centro di solidarietà “Il Delfino”. Io qui lavoro come operatore legale, siamo nel piccolo comune di Domanico, alle porte di Cosenza, in Calabria.
Dal primo incontro mi colpisce la sua bellezza discreta e il suo sguardo luminoso, carico di dignità, solo un po’ indurito. Fin da subito comprendo quanto sia difficile per lei parlare, narrare l’indicibile: sembra voglia rivendicare il suo diritto all’opacità su ciò che ha vissuto veramente. È la manifestazione del suo diritto al non voler essere compresa e che resiste alla volontà di meglio “conoscere” la verità.
Mi sono sempre chiesto quale debba essere lo sguardo di chi opera nel campo dell’accoglienza e quale sia il suo ruolo rispetto alla violenza subìta nel corso del viaggio verso l’Europa da questi esseri umani. Domande che tirano in ballo la mia posizione di apparente potere e privilegio: dal fatto di essere un occidentale, un cittadino italiano, alla mia condizione esistenziale e alla mia classe sociale. Cerco di offrirle degli spazi di ascolto in cui esprimersi e parlare con la propria voce, raccontando la propria esperienza. Darle visibilità rispettando i suoi silenzi, il suo senso del pudore, la sua dignità. Questo è il mio tentativo.
Capisco bene che mentre la intervisto, Christine ricostruisce la memoria di ciò che ha vissuto, di quello che per lei è stato. Mettere insieme i ricordi e ricostruirli vuol dire rivivere momenti tragici. La sua storia è la cronaca di qualcosa che non ho mai conosciuto e ascoltato, ma soltanto letto nei rapporti ufficiali stilati dall’Unhcr e dall’Oim che analizzano il fenomeno della tratta di esseri umani sulla rotta del Mediterraneo. Sentirli dalla sua voce e rivederli nei suoi occhi è tutta un’altra cosa.
Christine ha appena compiuto trent’anni e viene da Yamoussoukro, in Costa D’Avorio. Come migliaia di ragazze, è caduta ingenuamente nella rete dei trafficanti che, promettendole di trovare un lavoro dignitoso in Europa, si sono appropriati della sua stessa vita.
“In verità la mia vita è stata segnata fin da bambina- racconta con occhi lucidi -. Mio padre morì prima che io nascessi e trascorsi l’adolescenza a prendermi cura di mia madre gravemente malata”.
Nonostante le mille difficoltà, però, non abbandonò mai gli studi: “Volevo iscrivermi all’università e diventare medico – continua -, ma un giorno un uomo ricco e anziano mi ha costretto a sposarlo. Altrimenti era il massacro. Non avevo scelta e nessun familiare ad aiutarmi”. Da quel momento Christine ha perso ogni diritto e la sua vita è diventata una costellazione di abusi e violenze.
“Mi picchiava continuamente, – dice – enon c’è stato un giorno in cui non subissi punizioni di ogni tipo. Convivevo con le altre due mogli e condividevo con loro soltanto macabri sentimenti di terrore. Un giorno provai a scappare ma riuscì a trovarmi. Fu così che mi rassegnai pensando che Dio avesse scelto questa vita per me”.
Il suo racconto è intervallato spesso da silenzi e mi rendo conto che dai suoi occhi traspare una realtà di dignità umiliata, di desideri inespressi e speranze disattese. Interpreto i suoi silenzi come una forma possente di resistenza nei confronti di un’immagine vittimizzante di sé. Non è soltanto la sua storia personale: l’atto di ricordare e di raccontare assume un profondo significato sociale. La vita di Christine, però, cambia radicalmente quando nel 2011 la Costa D’Avorio piomba nella guerra civile che, successivamente, ha devastato il Paese:
“Mio marito scappò – racconta – e non seppi più nulla di lui. Un giorno, le sue due mogli mi presentarono una signora. Mi disse che l’organizzazione per cui lavorava mi avrebbe portato in Europa e che mi avrebbe dato un’occasione. Ma non mi disse mai cosa voleva in cambio”.
Iniziò a viaggiare per giorni interi a bordo di un pick-up insieme con altre persone. Alcune di loro morirono durante il tragitto nel deserto, altre furono lasciate morire di fame. “Non preoccuparti – mi dicevano -, tu andrai in Europa. Ma non potevo immaginare. Ho capito tutto quando siamo arrivati in Burkina Faso e ho visto tante compagne di viaggio piangere”.
La cronaca della violenza, nuda e oscena, inizia in Libia. Ed è una violenza senza sconti: “La signora mi chiese cosa volessi fare per pagarle il viaggio, se la badante o la prostituta. Ma, in realtà, non c’era distinzione”. L’illusione della nuova vita in Europa dura lo spazio dei pochi minuti necessari per sistemare i bagagli nella sua nuova casa: “Ho vissuto in una stanza per cinque anni interi – mi confessa – senza avere nemmeno il tempo di piangere. Passavano sopra di me anche venti uomini al giorno”. Seguo la sua storia con attenzione, ma non riesco a farle più domande. In mio soccorso, giunge il suo racconto puntuale e ordinato: “Dividevo l’appartamento con un signore che mi picchiava se non obbedivo e se non portavo i vestiti adatti. Ogni mese la mia maman si presentava per riscuotere il dovuto, soldi che non ho mai visto e non potrei quantificare, e poi spariva. Per cinque anni interi questa è stata la mia vita. Non sono mai uscita di casa. Poi, un giorno, si presentò dicendomi che ero libera, che il “contratto” era finito, ero vecchia e adesso potevo raggiungere le coste libiche dove sarei approdata in Europa. Il mare fu la mia salvezza”.
Decido di non approfondire sulla permanenza in Libia perché la sua voce tremolante mi restituisce il suo senso di profonda vergogna e umiliazione provati per cinque lunghi anni. La nuova vita di Christine inizia in Sila nel 2016. Uno psicologo si prende cura di lei e pian piano inizia a ritrovare nuova linfa vitale. La sua domanda di protezione internazionale è stata accolta dalla Commissione territoriale di Reggio Calabria e ora è inserita in uno dei progetti Sprar gestiti della Cooperativa “Il Delfino” nella provincia di Cosenza. Non ha abbandonato il suo desiderio originario di diventare medico. A settembre continuerà a frequentare il Cpia di Cosenza e seguirà i percorsi di istruzione superiore per adulti. Non ha nessuna intenzione di ritornare in Costa D’Avorio: “Lì, ormai, non ho più nessuno, nemmeno mia madre. Sono grande lo so – mi sorride – ma ora mi aspetta questa nuova avventura e mi sento pronta”. Spengo il registratore, l’incontro è finito. Lei mi sorride con gli occhi vivaci: “Voi siete tutto quello che ho”.
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*Operatore legale Sprar ordinario “La Terra di Mezzo” Domanico.
A Casa Nostra, dati e numeri locali di un fenomeno globale e senza tempo come le migrazioni, è un progetto che prende vita a Crotone e si pone l’obiettivo di aprire un punto di vista più umano sui dati locali e globali delle migrazioni dall’Africa all’Europa.
Quello a cui stiamo assistendo negli ultimi anni è un chiaro imbarbarimento della società all’interno della quale viviamo. Muri, fili spinato, respingimenti, daspo urbani: stiamo creando città sempre più chiuse trincerandoci dietro il pericoloso scudo della paura. La politica (dalla destra alla sinistra, dal giallo al verde) ha enormi responsabilità nella creazione di una narrazione tossica che acquisisce consensi giocando solo sui temi del degrado e della sicurezza. Stiamo diventando insensibili nei confronti del dolore e della morte e non ci accorgiamo della nostra complicità nelle tragedie che stanno insanguinando il Mediterraneo.
Scardinare questa narrazione non è certo semplice ma, a volte, risulta necessario provarci, ripartendo proprio da Casa Nostra. Parlare di migrazioni significa anche parlare di Crotone, perché la città pitagorica costituisce un caso esemplare di tutti gli aspetti del fenomeno migratorio: il confine e gli sbarchi, la cattiva accoglienza, le mafie e l’emarginazione sociale, ma anche la buona accoglienza e i virtuosi percorsi di integrazione e infine la popolazione straniera che contribuisce alla costruzione del tessuto sociale mentre i giovani calabresi continuano ad abbandonare il territorio. Affrontare questi temi con dati precisi sul territorio può darci una mano a rileggere l’intero fenomeno, magari con un punto di vista diverso.
Il progetto culminerà con una installazione sulla Lega Navale di Crotone, all’interno della quale con una rappresentazione visiva e con una mostra verrano rappresentati tutti i dati che ricostruiscono una narrazione del fenomeno migratorio contestualizzati al territorio di Crotone.
L’installazione sarà collegata poi a un breve video che attraverso infografica e brevi interviste riproporrà i dati cercando di approfondirli online e offline, portando le persone a confrontarsi nella sfera pubblica contemporanea a un tema che viene spesso usato come specchio per le allodole e che invece rappresenta un terreno fondamentale per decidere in quale tipo di società stiamo andando a condurre le nostre esistenze.
(NB. Questo articolo contiene spoiler, anticipazioni che potrebbero svelare alcuni tratti salienti della trama del film Lazzaro Felice, di Alice Rorhwacher, nelle sale italiane dal 31maggio)
Lazzaro felice non è un film per tutti i gusti. All’estero è stato trattato da capolavoro mentre l’intellighenzia protosovranista che va forte dalle nostre parti l’ha recepito come una cartolina sbagliata dell’Italia, un pamphlet di luoghi comuni che piacciono alla sinistra italiana e agli stranieri in cerca di stereotipi esotici, che riportano l’ordine del discorso alla lotta di classe e al vocabolario caro al pensiero gramsciano.
In effetti il film di Alice Rohrwacher che ha vinto il premio per la miglior sceneggiatura a Cannes è un film antico – nella scelta del full frame e dei personaggi – che ricorda i primi capolavori di Ermanno Olmi, recentemente scomparso, a cui la regista ha dedicato un pensiero nel ritirare il premio. Di quell’autore “santo” che raccontava gli ultimi per vocazione, si ritrova molto nel Lazzaro contemporaneo, che, come nei Vangeli, resuscita, e senza volerlo vive un presente che lo respinge e infine lo uccide di nuovo, del tutto. Una storia amara e triste, che racconta, ai giorni nostri, la vita da mezzadri (pratica abolita nell’82) di 54 contadini, stipati da decenni in tre casupole in una piantagione di tabacco, tenuti in schiavitù da una marchesa cinica e opportunista, che sfrutta la loro ignoranza e il loro isolamento dal mondo. Un gruppo di primitivi in via di estinzione, sopravvivenze di un tempo che – almeno al primo sguardo – sembra finito da un pezzo: non ricevono soldi in cambio della loro fatica, accumulano debiti con la padrona, sono analfabeti, educati solo alla religione cattolica, di cui la marchesa si fa sacerdotessa, non hanno accesso ad alcun tipo di tecnologia e vivono in una comune promiscua, anti-igienica e immorale. Intorno a loro, soltanto l’orizzonte dei campi, immersi nel silenzio severo della terra e delle sue creature che conoscono la storia e ricordano sempre.
Il “grande inganno” della mezzadria “legale” improvvisamente crolla, sotto i colpi di un capriccio mascherato da battaglia ideologica del figlio viziato della marchesa, e i contadini si ritrovano improvvisamente in città, dove, traditi dalla Giustizia che aveva promesso loro case sicure (in una dinamica che ricorda la gestione dei terremotati), si rifugiano nelle baracche improvvisate vicino ai binari del treno. Abbandonato il loro mestiere secolare e con esso la loro identità, i braccianti si ritrovano a vivere di espedienti, rubando di qua e di là, in una condizione di disagio maggiore rispetto a quello vissuto in campagna, dove almeno mangiavano (poco), dormivano al sicuro e avevano un nemico certo: la “serpe velenosa” che li teneva a stecchetto e li comandava.
Adriano Tardiolo interpreta il protagonista Lazzaro
Il giovane Lazzaro, per un incidente fatale, non partecipa all’esodo e raggiunge la sua comunità, ormai cittadina, al risveglio da un letargo durato 20 anni. Oggi come allora si fida ciecamente del prossimo, è sempre disponibile e accogliente, non si stanca, non mangia, non ha bisogno di riposare: è ancora lo schiavo perfetto; non come gli altri, che si sono adeguati alle leggi della città, in un processo di imbarbarimento al contrario, che li ha resi liberi, ma li fa sentire a loro agio con la ferocia urbana.
L’arrivo in città del giovane santo, scambiato dai suoi per un fantasma, è funzionale al recupero delle radici per la sua comunità, in preda a quella che Ernesto De Martino chiamava la perdita della presenza. E racconta, anche in modo didascalico, uno dei mali del nostro tempo, le banche, contro le quali Lazzaro si oppone con l’arma della parola, ben più pericolosa della presunta pistola che nasconde in tasca.
Lazzaro, che è anche il principe Myskin di Dostoevskij e il San Francesco del Cantico dei Cantici, travalica lo spazio e il tempo, portando con sé la musica dei giusti – quella della zampogna – degli ingenui, degli ultimi della fila, di quelli che sono rimasti nell’anticamera della storia, che si sono ribellati al male per sbaglio e non per ideologia.
La sua fine e la corsa in salita del lupo per le vie trafficate di una città industriale è la morte rituale di alcune parti di noi, sotto i colpi di un’età postmoderna che ci uccide ogni giorno e ci impone il ritorno brusco alla guerra di sopravvivenza di tutti contro tutti.
Il film, che non scade in un atteggiamento passatista e primitivista verso il passato mitico, anzi gioca con gli stereotipi, mescolando gli archetipi (religiosi, mitologici e letterari), riprende con delicatezza la tradizione demologica e meridionalista italiana, portando sullo schermo i temi cari al già citato Olmi, Pasolini, Bertolucci e soprattutto alle penne di Antonio Gramsci, Carlo Levi, Corrado Alvaro, Ernesto De Martino, Alberto Mario Cirese, Diego Carpitella, Luigi Lombardi Satriani, Vito Teti e tanti altri che hanno raccontato, spesso da meridionali, il mondo contadino in lungo e in largo.
Oltre all’amarcord storico-antropologico di come eravamo nel passato prossimo, il film fotografa il presente degli sradicati, in cui l’identità si fa mobile ed è pronta a tutto pur di adattarsi al nuovo ordine delle cose. L’ingresso brusco di Lazzaro nella modernità, così, ci conduce alla ri-scoperta della città e dell’alienazione urbana, che è complementare a quella provocata dall’isolamento in campagna, così come la servitù dei mezzadri corrisponde alle prestazioni lavorative odierne gratuite o semi gratuite di nuove vittime del lavoro che, diversamente da Lazzaro, sono consapevoli della loro schiavitù moderna.
Da quel che resta del pertugio in pietra di una finestra in alto, senza neanche più le ante, sporgono due ruote azzurre di un triciclo, incastrato tra i rami e le foglie di un albero. Pare un’istallazione artistica creata per emulare il grattacielo “orto verticale” del centro di Milano. Invece ci troviamo più di mille chilometri a sud, nel centro storico di Cosenza, nel quartiere di Santa Lucia, uno dei più degradati strutturalmente e socialmente più complicati della città che fu di Bernardino Telesio e dei bruzi.
Nell’ultimo anno si sono verificati tre crolli gravi. Molti sono gli edifici a rischio, transennati eppure a quanto pare facilmente accessibili. Non si contano le buste dell’immondizia deposte agli angoli tra i vicoli – sulle mura dei palazzi qualcuno ha stampato un cartello che recita, a caratteri cubitali, “questa non è una discarica” – e poi i motorini e le biciclette abbandonate e accatastate ai muri. Gli stendi panni che campeggiano tra un palazzo e un altro, con il bucato regolarmente steso.
Santa Lucia, che ti accoglie con il suo inconfondibile odore di muffa sprigionato da pareti antiche e fognature colabrodo, appare come un non-luogo spacciato, irrecuperabile, condannato alla povertà, all’isolamento, alla disperazione. Sembra dover crollare tutto da un momento all’altro. Eppure anche qui c’è una speranza. Ne è convinta Suor Floriana Raga, che da un anno ha fondato l’Associazione dei volontari di Santa Lucia e per due giorni a settimana organizza il doposcuola gratuito ai bambini del quartiere.
“Operiamo in un posto dove si incontrano bellezza e bruttezza”, ammette, accettando di chiacchierare con noi seduta nella stanzetta che funge da sede dell’associazione.
Fino a poco più di un anno fa – come ci spiegano altre due volontarie, Laura Calderaro e Suor Chiara Labasin – era un magazzino usato come deposito delle candele accese il 13 dicembre, la festa della Santa Lucia. Solo grazie a un finanziamento della Caritas questa saletta è diventata un posto abitabile e confortevole.
Nonostante tutte le criticità di questo angolo di mondo, abbandonato anche dal sole del buon Dio, però Suor Floriana non ha dubbi: “Qui siamo molto ricchi perché tanta è la voglia di vivere che hanno le persone che abitano a Santa Lucia“. Sia Rom sia italiani. “I primi, dopo lo sgombero del campo di Vaglio Lise, vicino alla stazione ferroviaria, si sono stabiliti anni fa negli edifici abbandonati – ricorda la Sorella, appartenente alla comunità delle Suore Ausiliatrici – Erano una sessantina di famiglie, di cui alcune hanno trovato casa a Santa Lucia, altre nella zona del Duomo. Hanno un grande spirito di adattamento e si sono arrangiati alla meno peggio in case vecchie”.
Suor Floriana che è arrivata in Calabria da Roma nel 2010, ha iniziato a occuparsi di questo territorio da quando si era trasferita a Porta Piana, in cima al colle Pancrazio, dove sorge il borgo antico, “che rispetto al resto del centro storico è la parte tenuta meglio”, commenta. Presto con le sue consorelle ha percepito l’urlo disperato di Santa Lucia, che invocava aiuto con tutto il fiato nei polmoni.
Con il supporto del parroco del Duomo di Cosenza, Don Luca Perri, ha deciso di intervenire usando la stanzetta di fronte alla Chiesa di Santa Lucia come quartier generale e da novembre 2017 ha dato vita all’associazione dei volontari, i quali, però, non sono abbastanza. “Abbiamo costantemente bisogno di aiuto – ribadisce senza giri di parole Suor Floriana – per adesso operiamo solo due pomeriggi a settimana e siamo sempre alla ricerca di nuove disponibilità. Ci sono persone chi si avvicinano ma ci servono presenze fisse e qualificate. Le famiglie che seguiamo sono complesse e con i bambini occorre molto lavoro e perseveranza”. I piccoli che si rivolgono al loro centro non sono un numero esorbitante, “in tutto 12 bambini – precisa Laura Calderaro – e l’età varia dai 4 ai 12 anni. Noi siamo aperti i pomeriggi di martedì e giovedì”. Ma su 15 soci, quelli realmente operativi nel doposcuola si contano sui polpastrelli di una mano, “purtroppo solo 5 o 6 – lamentano le volontarie – per questo chiediamo più aiuto e partecipazione, in fondo si tratta solo di due ore a settimana”.
Dai diamanti non nasce mai niente, ma anche nella sterpaglia a volte possono spuntare dei fiori. Questo quartiere così dimenticato e degradato, infatti, nei giorni scorsi si è trasformato in un set fotografico semi-professionale, grazie alla magia dei bambini. Armati di fotocamere e spontaneità hanno immortalato la loro quotidianità, senza filtri e artifici (né tanto meno eliminando le storture con photoshop). Guidati da un osservatore esperto della realtà come il fotografo Ciro Battiloro, hanno tradotto in immagini e scatti di vita la loro casa, offrendo un altro sguardo, la loro prospettiva. “Quella più vera e senza filtri”, ha sottolineato lo stesso Battiloro, che da Napoli è stato invitato apposta a Cosenza per insegnare la fotografia ai piccoli reporter.
“Sono stato con loro per venti giorni spesso andavamo in giro insieme a scattare foto, altre volte lasciavo loro alcune fotocamere e si sbizzarrivano da soli”, ci ha raccontato il 33enne fotoreporter napoletano, che proprio questa settimana ha pubblicato sull’Espresso un reportage sul Rione Sanità e ha realizzato altri racconti sui Rom in Iran e Romania. “Santa Lucia e il Rione Sanità hanno in comune il fatto di essere città-ghetto, emarginate dal resto del territorio. Nonostante ciò ho conosciuto una straordinaria umanità ed è stato bello vedere i bambini prendere l’iniziativa”.
È vero, vista dalla loro prospettiva Santa Lucia è decisamente più bella. Le foto sono state esposte in una due giorni di festa, appese ovunque tra quei vicoli che per l’occasione si sono ripopolati, con il resto della città che si è ricordata di questo angolo dimenticato del borgo antico. Anche se solo per 48 ore. Gli scatti hanno fatto parte dell’arredo urbano, appesi alle impalcature dei palazzi in rifacimento, fissati con le mollette insieme ai panni stesi per strada e sui piedi stalli di legno, nel grande slargo di Piazzetta Santa Lucia, che per l’occasione è diventato un salottino. Con tanto di divani di vimini.
I vincitori del premio Pulitzer 2018 sono stati annunciati lunedì 16 aprile a New York, le categorie più prestigiose sono state ad appannaggio delle inchieste che hanno disarticolato il potere negli Stati Uniti. Il New York Times e il New Yorker hanno vinto il Premio Pulitzer per il servizio pubblico grazie agli scoop sul caso Harvey Weinstein. I vincitori del più prestigioso premio giornalistico americano sono stati annunciati oggi alla Columbia University e “mostrano la forza giornalismo Usa durante un periodo di crescenti attacchi”, ha detto Dana Harvey, la nuova amministratrice dell’equivalente degli Oscar per il mondo dei media.
I vincitori del premio per quanto riguarda il giornalismo (premiata anche la narrativa, il drama e la musica) sono:
Per un giornalismo esplosivo e di forte impatto che ha esposto predatori sessuali potenti e ricchi, incluse accuse contro uno dei produttori più influenti di Hollywood, portandoli a rendere conto di accuse a lungo soppresse di coercizione, brutalità e silenzio vittimistico, stimolando così una presa di coscienza mondiale sull’abuso sessuale delle donne.
Per una copertura lucida e tenace degli incendi storici che hanno devastato la città di Santa Rosa e Sonoma County, utilizzando abilmente una serie di strumenti, tra cui la fotografia, i video e le piattaforme di social media, per portare chiarezza ai suoi lettori – in tempo reale e in successive reportage approfondito.
Per resoconti mirati e implacabili che hanno cambiato la corsa al Senato in Alabama rivelando la presunta molestia sessuale di adolescenti di un candidato e successivi tentativi di indebolire il giornalismo che lo ha esposto.
Per reportistica chiara e tempestiva che combina magistralmente testo, video, podcast e realtà virtuale per esaminare, da più punti di vista, le difficoltà e le conseguenze involontarie di adempiere all’impegno del Presidente Trump di costruire un muro lungo il confine statunitense con il Messico.
Per una narrativa avvincente e perspicace e video che documentano sette giorni di epidemia di eroina di Cincinnati, rivelando come la mortale dipendenza abbia devastato famiglie e comunità.
Per una copertura di interesse pubblico, riferita in modo inesorabile, che ha drammaticamente favorito la comprensione della nazione dell’interferenza russa nelle elezioni presidenziali del 2016 e dei suoi legami con la campagna di Trump, la squadra di transizione del Presidente eletto e la sua eventuale amministrazione. (La voce del New York Times, presentata in questa categoria, è stata contestata dal Consiglio e poi congiuntamente premiata con il Premio.)
Per un’inarrestabile denuncia che ha esposto la brutale campagna di uccisioni dietro la guerra alle droghe del presidente delle Filippine Rodrigo Duterte.
Per un ritratto indimenticabile dell’assassino Dylann Roof, utilizzando un mix unico e potente di reportage, riflessione in prima persona e analisi delle forze storiche e culturali dietro l’uccisione di nove persone all’interno della Chiesa di Emanuel AME a Charleston, SC
Per un commento lirico e coraggioso che ha le sue radici in Alabama, ma ha una risonanza nazionale nell’esaminare i politici corrotti, sostenere i diritti delle donne e proclamare l’ipocrisia.
Per un solido corpus di opere che trasmetteva una prospettiva astuta e spesso audace sull’arte visiva in America, comprendendo il personale, il politico, il puro e il profano.
Per aver esaminato con voce chiara, indignata, libera da cliché o sentimentalismo, le conseguenze dannose per i poveri residenti in Iowa delle privatizzazioni dell’amministrazione statale di Medicaid.
Per una serie emotivamente potente, raccontata in forma narrativa grafica, che raccontava le lotte quotidiane di una famiglia di rifugiati di vita reale e il suo timore di deportazione.
Per un’immagine agghiacciante che riflette i riflessi e la concentrazione del fotografo nel catturare il momento dell’impatto di un attacco automobilistico durante una protesta a carico di una rissa a Charlottesville, in Virginia.
Per fotografie scioccanti che hanno esposto il mondo alla violenza, i rifugiati Rohingya hanno affrontato la fuga dal Myanmar. (Spostato dal consiglio di amministrazione della categoria Fotografia di Breaking News, dove è stato inserito).
La macchina bianca che la sta riportando alla favela che chiama casa arranca nel traffico: pieno centro di Rio de Janeiro, 21 e 30 circa del 14 marzo 2018.
Quattro chilometri prima, la riunione alla Casas das Pretas a Lapa si era protratta di una mezzoretta più del previsto. Al centro di un candomblè di odori colori e profumi unico al mondo, un capannello di donne nere è ancora davanti la saletta a discuterne quando viene raggiunta dalla notizia più disperata: hanno ammazzato Marielle Franco.
L’auto crivellata di colpi su cui viaggiava Marielle Franco con il suo staff (foto Fohla de São Paulo)
Tredici proiettili calibro nove millimetri sparati da un’auto scura con targa di fuori città (si rivelerà clonata) investono l’utilitaria dal suo lato destro a circa 1300 chilometri all’ora, l’impatto è un incubo istantaneo: quattro colpi sono per la testa di Marielle, uccisa a sangue freddo. Tre pallottole la trapassano e raggiungono ai fianchi, ferendolo a morte, Anderson Gomes, 39 anni, un autista Uber che saltuariamente accompagna la paladina dei diritti umani nei suoi spostamenti. Non viene rubato niente, è un’esecuzione in piena regola, orchestrata da mani professioniste che, lo sveleranno immagini riprese da telecamere di sicurezza, seguivano la vittima da almeno due ore.
Sul sedile posteriore dell’auto, accanto alla giovane consigliera del Partito socialista (Psol) uccisa, c’è anche la sua amica e addetta stampa, unica sopravvissuta all’agguato. Mentre prova a guarire da una ferita che non si può rimarginare, ora collabora a indagini che le piazze di mezzo mondo pretendono siano celeri e certe.
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Sono passati dodici giorni dall’omicidio della 38enne Marielle Francisco Da Silva, e sempre più persone scendono in strada a migliaia di chilometri dal suo Brasile per invocarne il nome e gridare: “Presente!“. Perché? In una Rio de Janeiro in preda a una spirale d’ingiustizia sociale quasi inaudita si muore ogni giorno in questo modo, eppure la notizia che di solito fatica a trovare un trafiletto sui quotidiani internazionali stavolta apre l’edizione del Washington Post, e lo fa perché ai migliori giornalisti del mondo è chiaro fin da subito che non hanno giustiziato una donna qualunque. A caldo infatti il Guardian la definisce un campione della sua generazione, il Time un’icona che ben presto diventerà mondiale; basta pensare alla telefonata di condoglianze fatta alla madre da Papa Francesco per capire quanto entrambi abbiano ragione. Marielle è nata e cresciuta in una delle baraccopoli più povere di Rio (Complexo da Marè) e dopo mille sacrifici si è riscattata prima con una borsa di studio e una laurea in sociologia, poi restituendo alla sua comunità un impegno politico che in breve tempo l’ha portata ad essere uno dei politici più amati del Brasile. Nera, gay e donna: viene eletta al primo turno con molte preferenze come baluardo delle minoranze più oppresse, ed è un simbolo che si rivela fin da subito efficace. Nei discorsi pubblici e negli interventi in aula infatti brilla non solo per la bellezza del suo sorriso ma per coraggio e preparazione rivolti alla difesa degli ultimi.
“Io sono perché noi siamo” era lo slogan che amava ripetere Marielle Franco in ogni incontro pubblico.
Di poche ore prima dell’agguato è una dura presa di posizione contro le violenze delle forze di polizia militari che da gennaio hanno il commissariamento dell’ordine pubblico in città; sarebbe fin troppo facile credere che sia stata questa la sua condanna a morte, ma in Brasile da tanti anni non si vede una cosa facile.
Ripartiamo dall’arma del delitto: una fonte investigativa ha rivelato ai media brasiliani che le munizioni usate per l’agguato provengono da un lotto acquistato dalla polizia federale di Brasilia nel 2006. La stessa partita di proiettili è stata già utilizzata nell’agosto del 2015, per la strage che nello stato di San Paolo è costata la vita a 23 persone e ha portato all’arresto di 4 agenti di diversi corpi militari, accusati di aver ordito la mattanza per vendicare l’assassinio di due colleghi in due tentativi di rapina.
È questa pista che porterà a individuare i killer di Marielle? Difficile dirlo ora, per il riserbo delle indagini e per l’intricato puzzle di tessere impazzite nella guerra al narcotraffico. Si tratta di un conflitto che ogni giorno fa più morti che in Siria e che, come ogni guerra, fatica a distinguere fra i suoi protagonisti il grano dal loglio. È difatti frequente che dotazioni militari finiscano in mano della criminalità brasiliana, il mercato nero delle armi è sempre più florido e lascia cadaveri per strada da entrambe le parti, spesso coinvolgendo gente inerme e innocente, come capitò a uno dei migliori amici di Marielle Franco, un evento che ha segnato il suo impegno futuro in maniera manifesta.
La folla oceanica che ha invaso le strade di Rio de Janeiro all’indomani del delitto di Marielle Franco
Passiamo al movente. Chi parla di delitto politico ha più di un motivo valido per farlo, ma anche questa traccia si presenta ingarbugliata, tanto più per una campagna di bufale ad arte su Marielle che in questi giorni è riuscita, prima di essere completamente smontata, a fare capolino sui media e sui social network. Per esempio, un profilo social molto seguito che tifa per l’intervento diretto dei militari nella vita politica del paese ha diffuso diverse notizie false su Marielle Franco, del tipo che ha avuto una figlia a 15 anni, che è stata sposata con un re delle bande armate e che la sua elezione è stata trainata dai voti del cartello delle narcomafie che infestano la zona da cui proviene.
Tutte fake news, decostruite (leggi qui) solo dopo che hanno fatto il fantomatico giro del Web anche grazie ai tweet (poi rimossi) da alcuni politici di destra molto in vista in Brasile. Di certo cosa resta? Che a novembre si vota per le presidenziali ma che non si sa ancora se Lula, al centro di una serie di indagini per corruzione, sarà candidabile. Intanto l’area di sinistra che con il suo Partito dei lavoratori (Pt) ha guidato fino all’impeachment di Dilma il paese, sembra essere favorito nei sondaggi. “Provando a uccidere lei hanno provato a uccidere 46mila elettori“, ha scritto la figlia 20enne di Marielle, una donna che prima di venire uccisa in modo barbaro in quello schieramento stava crescendo di popolarità in modo vigoroso e rapido. Forse troppo.
Quito è lontano da quello da cui sta fuggendo, ma non abbastanza. Luis David viene dalla Colombia, ha occhi grandi e con parlantina veloce mi chiede se una volta riuscito a mettere i soldi da parte posso aiutarlo a venire in Italia. Gli orrori della narcoguerriglia lo inseguono ancora. Parlandone a volte si tocca il dito medio della mano sinistra, che è rimasto paralizzato in seguito a un accoltellamento sotto casa sua. Come ogni mattina lo aspetta il semaforo di un paese straniero. Mostrandomi il lavavetri che tiene nella stanza, mi dice:
“Io posso vivere solo grazie a questo, senza non potrei mangiare. L’altro giorno si è rotto e non ho guadagnato niente”.
Quando nel mio paese racconto dell’Ecuador come posto di rifugiati molti si stupiscono. Eppure le migrazioni non sono un fenomeno che interessano solo le società occidentali. Secondo gli ultimi dati sono anzi in aumento le migrazioni interregionali in America latina, e si vede. Nella mia esperienza di volontario del servizio civile nella capitale dell’Ecuador ho conosciuto giovani che scappavano dalla violenza generalizzata che si vive in Colombia o nel Salvador o dalla crisi economica e politica del Venezuela. Ed è proprio la Colombia di Luis David nel sudamerica il paese con i maggiori tassi di emigrazione, molti dei quali rivolti appunto al confinante Ecuador. Con il mio compagno italiano di servizio civile, Angelo, abbiamo visitato la Colombia e sentito i racconti di come lo scontro tra guerriglia, paramilitari, narcotrafficanti e organismi statali abbia provocato in alcuni decenni milioni di vittime e di sfollati. A Medellín, la città di Pablo Escobar, c’è un museo, chiamato Casa de la memoria, in cui vengono esposti i numeri e le notizie relative a tutte le vittime innocenti di questi scontri: giornalisti, attivisti politici, difensori dei diritti umani, sindacalisti… L’edificio è una costruzione moderna e nel corridoio centrale sul muro c’è una grande scritta
“Ni guerra que nos asesine, ni paz que nos oprime”
(Né guerra che ci uccida, né pace che ci opprima).
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Il finanziamento di questi conflitti deriva dalla gestione dei traffici di droga. Arrivati in Colombia si ha la chiara impressione di come sia diffusa la rete dello spaccio: ci hanno proposto di comprare cocaina tassisti, camerieri, venditori ambulanti e mendicanti. Mi ha sorpreso il fatto che siamo stati molte volte fermati e perquisiti dalla polizia, ma in seguito un colombiano ci ha detto che lo fanno principalmente perché se trovano piccoli quantitativi di droga ai turisti, gli possono chiedere soldi in cambio del silenzio. Una vastissima rete criminale che ha sempre bisogno di nuove leve, per questo è comune il reclutamento sotto minaccia di giovani e adolescenti. Ragazzi a cui non resta che vivere continuamente rischiando di morire. L’unica alternativa è andare via, come hanno fatto Luis David e molti altri ancora.
Ad esempio c’è Alvaro, un ragazzo di 17 anni. Scappava dal Venezuela dopo che lo stato gli aveva tolto la borsa di studio. Lui con altri studenti, per protesta, aveva partecipato a una manifestazione contro il governo, durante la quale la polizia ha aperto il fuoco sui manifestanti e sono stati uccisi 5 suoi amici. Lasciato il suo paese si è trasferito in un primo momento in Colombia, dove lavorava vendendo cioccolatini per la strada, ma lì un gruppo criminale voleva reclutarlo nei circuiti di spaccio. In quel periodo lo stato colombiano ha messo a disposizione a chi fuggiva dal Venezuela dei passaggi gratuiti per l’Ecuador e così ha potuto attraversare un’altra frontiera e infine entrare a far parte della “famiglia” di ASA (Asociación solidaridad y acción), l’associazione per cui lavoravo a Quito. Alvaro mi ha colpito per il suo senso di responsabilità, a Quito si è presto inserito in un percorso scolastico e ha anche iniziato a lavorare; è magro e di media statura, parla con equilibrio e ironia. Alvaro è nero, e infatti si definisce afrodiscendente. Il suo sogno è entrare in una unità investigativa speciale. Con il mio collega Angelo gli dicevamo che sembrava quasi che anche lui fosse un educatore, dal modo con cui si rapportava con i bambini della casa famiglia.
ASA gestisce 3 case famiglia che ospitano ognuna intorno ai 7-8 bambini e adolescenti, provenienti da storie di abbandono e maltrattamenti. Questi giovani sono seguiti 24 ore su 24 da 3 educatrici su turni rotativi, il nostro compito era aiutarle. Una di queste strutture, quella del quartiere di Carcelen Bajo, è situata proprio sotto la casa dei volontari dove vivevamo io e Angelo e condivide il patio con la casa di autonomia, dove si trova Alvaro, una struttura dove vengono ospitati ragazzi rifugiati in procinto di compiere 18 anni, per essere accompagnati in processi di indipendenza. Il passaggio alla maggiore età, che dovrebbe essere una festa, in questi casi può essere molto faticoso, perché la tutela dei servizi sociali si riduce e i neo-maggiorenni non possono permanere nella stessa struttura.
A quelli che vivono una condizione di persecuzione o rischierebbero la vita nel loro paese di origine viene riconosciuto lo status di rifugiato politico in Ecuador e godono di protezione internazionale, quindi non possono essere rimpatriati, e allo stesso tempo l’associazione, tramite le risorse economiche dell’ACNUR (in inglese UNHCR, l’ufficio dell’ONU che si occupa di immigrazione) fornisce dei sussidi economici mensili provvisori (in vista di una propria indipendenza) per l’alloggio e le spese alimentari. Inoltre noi svolgevamo degli accompagnamenti al ministero delle relazioni estere e dagli avvocati per il conseguimento dei documenti, ai servizi sanitari, in percorsi di inserimento scolastico e lavorativo o in attività ludiche e ricreative. La psicologa dell’associazione iniziava una psicoterapia breve, di qualche mese, per trattare i temi traumatici che li avevano spinti ad abbandonare il proprio paese, spesso legati a uccisioni di parenti e amici o al tentativo di reclutamento forzato in organizzazioni criminali.
Le persone che ho visitato con più continuità insieme alla psicologa nel mio anno di permanenza in Ecuador è stata la famiglia di José, composta dalla coppia, il padre, José, che ha la mia età, 26 anni, la compagna che è di qualche anno più grande e da 7 bambini, 4 nati da relazioni precedenti della donna, 2 da relazioni precedenti dell’uomo e l’ultimo, di appena un anno, in comune ai due. Questi bambini (il più grande ha 13 anni) non potrò mai dimenticarli per la loro vivacità, la loro irrequietezza, i loro sorrisi e i loro pianti, l’affetto e le risate che mi hanno donato, uniti certamente alle preoccupazioni e alla tristezza per la precarietà delle loro condizioni di vita, le case fatiscenti e sporche da cui erano di continuo scacciati per il fastidio che dava il numero elevato di bambini ai vicini e ai padroni di casa, unito alla discriminazione di alcuni ecuadoriani verso i colombiani e i neri, come loro erano. Il padre per mantenere la famiglia vendeva succhi di frutta per strada. È molto comune che i rifugiati facciano lavori di vendita ambulante, commerciando dolciumi e succhi di frutta. Infatti prendendo un autobus vedrete salire di continuo venditori per offrire cibarie e mercanzia varia, vendita introdotta generalmente da lunghi discorsi di presentazione per convincervi all’acquisto o più raramente mendicanti che potrebbero mostrarvi le cicatrici di qualche violenza o raccontarvi storie di malattie.
José mi ha descritto bene l’evolversi della storia della guerriglia in Colombia, da organizzazione di lotta armata mossa da ideali, che si batteva contro le iniquità, fino ad adottare metodi spietati e diventare tutt’uno con il narcotraffico, tanto da essere definita narcoguerriglia. La principale organizzazione rivoluzionaria di lotta armata in Colombia sono le Farc (Fuerzas armadas revolucionarias de Colombia). Con il governo di Juan Manuel Santos si è raggiunto un accordo tra lo stato e le Farc, secondo il quale le Farc depongono le armi e si inseriscono nella dialettica democratica del paese. Questo accordo è stato raggiunto dopo anni di repressione violenta e senza quartiere da parte dello stato nei confronti dei guerriglieri, prima sotto il governo di Uribe, con ministro della difesa Santos e poi sotto il governo dello stesso Santos, che grazie a questo risultato ha vinto il Nobel per la Pace. Adesso però, come mi ha raccontato José ed emerge dai fatti, altri gruppi armati si stanno contendendo il posto delle Farc nel controllo del territorio con la violenza. Il sogno di José è di trasferirsi negli Stati Uniti, dove spera di poter offrire un futuro migliore ai propri figli. È preoccupato dall’amministrazione di Donald Trump e si informa con insistenza dei programmi dell’ACNUR chiamati di resentamiento, che consistono nel trasferimento dei rifugiati che ne facessero richiesta, attraverso canali speciali, negli Stati Uniti, in Canada e in Nuova Zelanda. Ma questi sono processi molto lunghi e con rigidi requisiti.
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Andando in giro per Quito abbiamo conosciuto molti ecuadoriani che hanno vissuto in Italia e poi sono tornati nella loro nazione. L’Ecuador nel 1999 ha conosciuto una profonda crisi economica, conosciuta come feriado bancario che ha comportato una emigrazione di massa della popolazione ecuadoriana (oggi il paese conta una popolazione di circa 16 milioni di abitanti) verso paesi europei, tra cui l’Italia, e nordamericani e il passaggio dalla vecchia moneta, il Sucre, al dollaro americano. Con il governo di Rafael Correa, nel 2008, lo stato ha avviato un programma chiamato Plan de retorno che garantisce sgravi fiscali e agevolazioni economiche agli ecuadoriani emigrati che intendono tornare nella loro patria. Il governo di Correa, durato dieci anni, dal 2007 al 2017, è contraddistinto da luci e ombre. Con il suo partito, Alianza País ha varato un programma chiamato Revolución cuidadana, per il rinnovamento dell’apparato statale e dei servizi pubblici, investimenti in opere pubbliche, la statalizzazione delle risorse petrolifere e ha ottenuto una significativa riduzione dei tassi di povertà dal 36,7% del 2007 al 22,5% del 2014. Tuttavia è accusato di avere avuto metodi autoritari nella gestione del potere e di non aver preso misure contro la corruzione dilagante. Gli è succeduto al potere Lenin Moreno, suo ex vicepresidente.
Lavorando nei servizi sociali di un paese come l’Ecuador e rapportandomi anche a giovani di altri paesi sudamericani ho potuto osservare la precarietà delle condizioni di vita di molti di loro. Una precarietà economica ed esistenziale che ha effetti ambivalenti: da un lato rende questi giovani più forti e più furbi, anche più capaci di gioire dei piccoli piaceri della vita, dall’altro non gli garantisce un ambiente in cui sviluppare una stabilità emotiva tale da saper riconoscere i modelli positivi da quelli negativi, da avere un senso profondo di ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. L’Ecuador è una meta ambita per molti rifugiati oltre per il fatto di avere una economia più stabile di altri paesi in America latina, soprattutto per l’assenza quasi totale di organizzazioni criminali potenti e ramificate. Certo, è diffusa la microcriminalità, i furti anche violenti, l’abuso di genere. Ma la popolazione ecuadoriana sa anche essere accogliente e cordiale, con dei modi di fare caratterizzati da spontaneità e teatralità. Le ricchezze naturali che offre il paese destano meraviglia e stupore: la foresta amazzonica, le Ande su cui si ergono vulcani maestosi, la costa bagnata dall’Oceano Pacifico e le Galapagos, le isole incantate.
Affascinanti sono le culture indigene dei nativi. Vivono condizioni diverse di integrazione e scambio: ai due estremi troviamo comunità che sono visitabili e assoggettate a logiche turistiche, altre che si rifiutano di essere contattate, che vivono distanti dal resto della civiltà. Il nostro progetto di volontariato aveva il nome di “Buen vivir para todas y todos”. Il Buen vivir (Sumak Kawsay in lingua quechua) è una concezione filosofica andina, riferita a una cosmovisione ancestrale della vita. È l’equilibrio tra il sentire bene (Allin Munay) e il pensare bene (Allin Yachay), che dà come risultato il fare bene (Allin Ruay). Il vivere la vita con pienezza per uno sviluppo e una “fioritura” umana in tutte le sue dimensioni e in armonia con la natura. L’Ecuador un giorno potrà raggiungerlo, anche se la strada è ancora lunga e in salita.
21 ottobre 2017 | Si è risolto il mistero che ha scosso per 78 giorni l’intera Argentina. Sergio Maldonado, fratello maggiore di Santiago, ha confermato che il corpo ritrovato nel fiume Chubut è quello del fratello. «Abbiamo riconosciuto i suoi tatuaggi, siamo convinti che si tratti di Santiago», ha detto, parlando con la stampa davanti all’obitorio giudiziario di Buenos Aires, dove un gruppo di una ventina di esperti ha esaminato il cadavere scoperto il 18 ottobre a circa 300 metri dal posto dove suo fratello era stato visto per ultima volta.
Doveva essere nunca mas, e invece no. Santiago Maldonado è scomparso nel nulla e Plaza de Mayo ancora trema d’indignazione per chiedere che fine abbia fatto l’ennesimo desaparecido argentino. L’ex presidente Cristina Férnandez de Kirchner, ora alla guida dell’opposizione, ha offerto 28mila dollari di ricompensa a chi ha notizie sulla scomparsa di Santiago e il presidente Mauricio Macri costretto dalle proteste rimbalzate dall’Argentina in tutto il mondo ha chiesto agli inquirenti impegno e velocità su questa oscura vicenda.
Santiago Maldonado ha 28 anni, capelloni ricci barba lunga e occhi scuri scuri. Viene da una città che si chiama Veinticinco de Mayo, nella provincia di Buenos Aires ed è nato il 25 luglio del 1989. Da alcuni mesi si era trasferito a El Bòlson, nella Patagonia andina, per vivere fa l’artigiano e dicono sia bravissimo con i tatuaggi. I suoi familiari raccontano che non si è mai interessato di politica e che non fa parte di nessuna organizzazione, ma che quando si è trovato a vivere con le comunità aborigene ha sentito il dovere di appoggiare le loro rivendicazioni. Il 31 luglio era in strada per una manifestazione. All’alba dell’indomani la gendarmeria, senza un mandato firmato da alcun giudice, ha distrutto il cancello di una riserva mapuche con un camion antisdrucciolo con cannoni ad acqua e un gran numero di agenti sono entrati sparando proiettili di gomma e di piombo alle persone che vivevano nel campo. Molti sono scappati attraverso il fiume Chubut per mettersi in salvo nella foresta, ma Santiago non sa nuotare. Secondo alcuni testimoni, che si sono rifiutati di deporre davanti alle autorità se non protetti da un cappuccio, Maldonado è finito su una camionetta dei militari, ma la polizia ha sempre negato di averlo messo in stato di fermo, circostanza negata anche dal Ministro della Sicurezza Patricia Bullrich. Il ministro del governo di destra di Macri è una rampolla di un’importante casato di latifondisti argentini, ma anche sorella della moglie di Rodolfo Galimberti, storico leader montonero (la sinistra estrema del peronismo) e ha iniziato a fare politica proprio con la gioventù peronista. L’avvocato Juan Gabriel Labaké, storico volto del peronismo, nel 2015 l’ha accusata di lavorare per il governo degli Stati Uniti come parte di una rete destinata a destabilizzare i governi latinoamericani che non rispondono agli interessi statunitensi.
Le proteste per Santiago Maldonado sono state anche teatro di scontri e repressione
Interessi internazionali che collidono con quelli dei mapuche, il glorioso e antico “popolo della terra”, ancora oggi organizzato in comunità indigene “ancestrali” che vivono secondo le modalità di organizzazione e la religiosità dei loro antenati. Queste comunità nei decenni sono state depauperate e derubate non solo della loro libertà, ma anche dalle terre che erano state loro concesse dallo Stato argentino alla fine del ‘800. Le terre sono state prima incamerate dalle famiglie argentine che finanziarono la campagna militare contro gli indigeni, come appunto i Bullrich, per essere poi cedute soprattutto a capitali internazionali, fra cui anche italiani. Il primo proprietario terriero in Patagonia è oggi il gruppo Benetton, che ha avuto diverse cause da comunità indigene proprio sui titoli di possesso della terra. A differenza del Cile, dove le rivendicazioni mapuche (un milione e mezzo gli indigeni di questa comunità che vivono nel paese di Neruda) sono più radicali, in Argentina si procede con le occupazioni di terre considerate sacre o appartenenti a una comunità e a qualche piccolo attentato senza vittime. Il leader indigeno Facundo Jones Huala, attualmente in carcere, con il caso Maldonado ha avuto l’opportunità di parlare al mondo della causa mapuche con l’intervista concessa a Jorge Lanata, grande giornalista di inchiesta, già tra i fondatori del quotidiano Pagina 12. L’intervista ha avuto un’audience record, ed è la prima volta nella storia che milioni di telespettatori hanno potuto sapere di cosa succede ai popoli indio.
Per conoscere l’impatto di queste verità nella popolazione argentina bisognerà aspettare le legislative di ottobre, quello che è certo è che nel paese dei desaparecidos non ci sarà un comizio libero dal grido: Donde està Santiago Maldonado?
Dialetto stretto, tabagisti bambini, musica a tutto volume, case abusive, piccoli espedienti per sopravvivere e la Piana di Gioia Tauro sullo sfondo. La Calabria torna, così, sul grande schermo in “A Ciambra”, seconda opera del regista italo-americano Jonas Carpignano, cresciuto tra Roma e New York e residente a Gioia Tauro dal 2010, dove si è trasferito durante le proteste dei braccianti di Rosarno. “A Ciambra” è il nome del luogo in cui la famiglia Amato vive dagli anni ‘80 insieme ad altre famiglie rom gioiesi, e dove Pio, il giovane protagonista quattordicenne (all’epoca dell’incontro col regista undicenne) si fa spazio tra gli adulti della sua famiglia per diventare grande, rubando qua e là e fumando vari pacchetti di sigarette al giorno. La storia di Pio Amato e della sua numerosissima famiglia si è intrecciata con quella di Jonas molti anni fa a Gioia Tauro, dove il regista si era trasferito per documentare le proteste dei braccianti di Rosarno – lavoro da cui anni dopo è scaturito il suo primo film, “Mediterranea”, accolto a Cannes come uno dei documenti più taglienti e realistici sulla crisi dei migranti nel Mediterraneo. In quei giorni Jonas stava girando il suo primo cortometraggio calabrese, “A Chjana” (“La Piana”, 2012), che ha come protagonista Koudous Seihon, attuale coinquilino, attore e amico del regista, quando l’automobile che conteneva tutte le attrezzature del set è sparita. Nel tentativo di recuperare la macchina, Jonas è entrato in contatto con la comunità rom di Gioia Tauro per la prima volta, in un incontro che ha segnato l’inizio di un rapporto simbiotico tra Jonas e Pio.
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“A Ciambra”è girato a spalla, in 16 millimetri, perché il regista non ama il formato digitale. Ha richiesto 91 giorni di set, spesso improvvisato e spontaneo. Anni di prove “non ufficiali”, come le chiama il regista: sedute di racconti a pranzo e a cena di fatti accaduti, visioni del mondo, ricordi, memorie, prospettive, valori e sogni dei componenti della famiglia di Pio. Tre mesi di riprese e molti di più per convincere gli Amato a recitare se stessi, mettendo in scena, senza filtri, i furti di rame e di automobili, le discussioni in famiglia, i fragili rapporti con la ‘ndrangheta locale (che si vede poco, ma si sente), l’amore che arriva presto e a pagamento, la prigione, le sigarette a tre anni, la musica a palla, il senso delle radici e dell’unità della famiglia al di sopra di tutto.
“Volevo rappresentare il senso di appartenenza alle radici che i rom hanno, nonostante siano nomadi per definizione” – ha detto Jonas Carpignano alla prima romana di “A Ciambra” nell’arena estiva di Nanni Moretti – “E volevo mostrare quello che fanno senza censure, perché si può voler bene a qualcuno anche se ruba o se è diverso da noi, lo si accetta e lo si ama lo stesso”.
E così è andata per Jonas e per il giovane Pio, oggi quindicenne con fidanzata e macchina al seguito, che per anni ha letteralmente seguito il regista per le vie di Gioia Tauro, incuriosito dal suo lavoro e dalla sua diversità. Quella stessa diversità che, nel film di Jonas, avvicina e rende amici Pio e Ayiva (Koudous Seihon), un migrante del Burkina Faso che lavora a Rosarno, e che smentisce (forse) la diffidenza che i rom provano verso tutti gli altri, in particolare verso gli africani. Pio, i suoi fratelli, Ayiya, le prostitute straniere e tutta l’enorme comunità di “diversi” che popola la Piana di Gioia Tauro si muovono in uno spazio liminale, a cavallo tra l’ufficiale e il non ufficiale. Chi in cerca di un riconoscimento, chi di un salario, chi di placare la nostalgia di casa, occupando un posto invisibile ma tangibile nella società, come la ‘ndrangheta, che secondo il nonno di Pio ha reso i rom meno liberi di quello che erano in passato, rinforzando il principio del “noi contro tutti”.
Da molti definito il Bronx di Gioia Tauro, “A Ciambra” è un racconto, una fotografia che passa attraverso gli occhi di Pio – e spesso sembra scappargli via dagli occhi – tracciata con gli strumenti della finzione e del documentario e condita con momenti di lirismo registico da copione e momenti di spontanea analisi antropologica, come i risvegli di Pio, i racconti della mamma Iolanda, le nostalgie del nonno anziano. Materiale su cui anche De Seta avrebbe messo gli occhi e su cui alcuni dei più celebri antropologi calabresi come Luigi Lombardi Satriani e Vito Teti si interrogano e scrivono da decenni: l’alterità, la trasmissione della cultura, il sacro, il rito, il sangue, l’onore, la terra, il dialetto come pratica resistenziale, le macerie della Calabria, la modernità incompiuta, la decrescita, l’assenza, la desertificazione, la resilienza. Un ritratto di comunità, che spalanca le porte a tanti altri ritratti che si sommano e si accumulano in quelle terre e ogni tanto finiscono tristemente sulle pagine dei giornali: lo scioglimento del Comune per infiltrazione mafiosa, i maxi arresti delle ‘ndrine gioiesi, le ottocento tonnellate di armi chimiche di Assad smaltite nel porto di Gioia Tauro nel 2014, i tumori, le proteste dei braccianti, le alluvioni stagionali, il ritratto di un’ennesima “terra dei fuochi” meridionale.
Jonas Carpignano sul set
Accolto da dieci minuti di applausi a Cannes, durante la prima nella sezione Quinzaine des Réalisateurs, “A Ciambra” vanta una troupe e un cast tecnico internazionale e di grande pregio, tra cui Alfonso Gonçalves, lo storico montatore di Jim Jarmusch, e Martin Scorsese come produttore esecutivo, il quale, non solo ha contribuito economicamente con il suo fondo per i giovani registi, ma ha incontrato Jonas durante il montaggio per consigliarlo su come procedere nella fase finale del film. Ispirato ai grandi film di formazione americani di Martin Scorsese e di mafia italiani come “Gomorra” di Matteo Garrone, “A Ciambra” è molto lontano dai classici set dei gangster movies: tanto per cominciare, è un film che parla il dialetto calabrese – che il regista ha imparato durante gli anni di permanenza in città- , è il risultato di un’acuta e paziente scrittura del regista sulla base dei racconti degli Amato e soprattutto è figlio di un lavoro di set impegnativo, fatto di prove e di ripetizioni continue, visto che la famiglia Amato per lo più non sa leggere. Una vera e propria dedica alla città, ai suoi abitanti, il frutto di una missione civile e di una militanza artistica che agiscono attraverso il cinema del reale.
Jonas Carpignano, che da New York – dov’è nato da un padre italiano e da una madre afro-americana – si è trasferito in Italia a fare il suo mestiere, si dice debitore nei confronti del cinema di Matteo Garrone (“Il Racconto dei Racconti”, “Gomorra”, “Reality”), della regista inglese Andrea Arnold (“Red Road”, “American Honey”) e di Alice Rohrwacher, la regista di “Le meraviglie” (2014) e di “Corpo Celeste” (2011), un altro film ambientato nell’area di Reggio Calabria. Così, dopo Wim Wenders che nel 2009 ha portato le telecamere a Badolato (CZ) e a Riace (RC) per realizzare il suo piccolo capolavoro sull’integrazione “Il volo”, il cinema è tornato in Calabria negli ultimi anni, prima con “Corpo Celeste” e la sua parrocchia di provincia ossessiva e senza crocefisso, poi con la commedia “Qualunquemente” di Giulio Manfredonia in cui Antonio Albanese veste i panni di un indimenticabile e deprecabile imprenditore corrotto e, infine, con il pluripremiato “Anime Nere” di Francesco Munzi, girato tra Africo, Bianco e Locri e “Il Padre d’Italia” di Fabio Mollo, con gli straordinari Isabella Ragonese e Luca Marinelli e il porto di Gioia a fargli da sfondo.
“A Ciambra” (dal 31 agosto nei cinema italiani) è, per ora, l’ultimo tassello di una narrazione collettiva, che sta portando la Calabria e i suoi abitanti al centro delle attenzioni di artisti e studiosi della cultura, con un rinnovato interesse per l’“India di quaggiù”, che si spera col tempo diventi un’officina stabile di idee e di nuove significazioni.
John Reed era uno che i reportage li sapeva scrivere. Testimone oculare e appassionato narratore dell’evento simbolo del secolo scorso (La Rivoluzione d’Ottobre, ovviamente), il giornalista statunitense tracciò forse il ritratto più acuto della statura politica di Vladimir Lenin:
“Erano esattamente le otto e quaranta quando una tempesta di applausi annunciò l’entrata della presidenza, con Lenin, il grande Lenin. Piccolo di statura, raccolto, la grande testa rotonda e calva infossata nelle spalle, gli occhi piccoli, il naso camuso, la bocca larga e generosa, il mento pesante. Era completamente sbarbato, ma la barba, così conosciuta prima e che d’ora innanzi sarebbe sempre rimasta, cominciava già a rispuntargli sul viso. Il vestito era consunto, i pantaloni troppo lunghi. Poco fatto, fisicamente per essere l’idolo della folla, egli fu amato e venerato come pochi capi nella storia. Uno strano capo popolare, capo per la sola forza della intelligenza. Egli non era brillante, non aveva spirito, era intransigente e appartato, senza alcuna particolarità pittoresca, ma aveva il potere di spiegare le idee profonde in termini semplici, di analizzare concretamente le situazioni e possedeva la più grande audacia intellettuale.”
Era l’8 novembre del 1917 e John Reed in Russia ci sarebbe rimasto fino alla morte, sopraggiunta per tifo nell’ottobre di tre anni dopo.
Forse unanimemente riconosciuto come testimone lucido della rivoluzione russa, il giornalista americano aveva iniziato il suo apprendistato nel 1913 nella piccola cittadina di Paterson, ventitré miglia dal Greenwich di Manhattan dove era nata la rivista “The Masses”- faro del radicalismo sociale e culturale statunitense e palestra per decine di scrittori. Fu “The Masses” ad inviare il giovane Reed, appassionato osservatore del fiorente radicalismo politico di quegli anni e tra i fondatori del partito comunista, a seguire gli scioperi dell’industria della seta della città che fu poi cornice alla poesia di William Carlos Williams
“C’è Guerra a Paterson. Ma è uno strano tipo di guerra: la violenza viene tutta da una parte sola, dalla parte dei proprietari dei setifici”.
L’attacco concitato del reportage denuncia il coinvolgimento diretto del giornalista nella lotta degli operai. Reed, infatti, si mescola a loro con penna e pugno; racconta lo scontro concitato tra il picchetto e la polizia, tratteggia il ritratto della folla composita che anima lo sciopero e quello dell’agente McComarck che bracca il giornalista mentre assiste allo sciopero e senza un’accusa fondata lo trascina in prigione. Poco prima del rilascio Reed in carcere parla con i picchettanti detenuti insieme a lui; c’è chi esce su cauzione, chi raccoglie il vitto portato in visita dai familiari. Tutti parlano lingue diverse.
“«Quali sono le nazionalità che legano di più al picchetto?» Un giovane ebreo, dall’aspetto pallido e malaticcio per la mancanza di cibo, si fece avanti orgogliosamente. «Tre grandi nazioni legate tra loro così» E fece un pugno. «Tre grandi nazioni: italiani, ebrei e tedeschi» «E che ne dite degli americani?» Tutti scrollarono le spalle e sogghignarono con disprezzo. «Gente inglese non va al picchetto» disse uno sotto voce «Americani non piace la lotta!»”
Prima di Nicola e Bart
Ovviamente non fu così, nello schieramento composito raccoltosi a Paterson c’erano militanti americani dell’IWW (Industrial Workers of the World) come Big Bill Haywood, organizzatore del sindacalismo rivoluzionario e altre tra le sigle dell’operaismo statunitense di quegli anni. Le voci raccolte da Reed, tuttavia, dicevano qualcosa di storicamente incontrovertibile: a Paterson, come in decine di altre città della costa orientale degli Stati Uniti, a guidare le lotte dei lavoratori, ad organizzarle e animarle erano soprattutto gli immigranti e in particolar modo, gli italiani. Wops, neri, ma soprattutto socialisti ed anarchici; questi erano gli sprezzanti connotati politici e culturali che legavano le fila dei destini di coloro che da Ellis Island si erano dispersi nelle fabbriche e nei sobborghi delle aree industriali dell’America operaia. Il radicale attivismo politico della fabbrica, il proliferare di gruppi e organi di stampa (soltanto a Paterson, il periodico la Questione Sociale fondato proprio in New Jersey dal regicida Gaetano Bresci e il Gruppo L’Era Nuova) e l’intensificarsi degli scioperi provocarono la feroce stretta repressiva dell’autorità locali. A cavallo tra gli ultimi anni del primo conflitto mondiale e il 1920, poco prima che a Boston Sacco e Vanzetti diventassero simbolo della repressione crudele e scellerata del radicalismo politico e della sinistra immigrata, un’intera comunità politica ed etnica divenne bersaglio della violenta repressione pianificata dal dipartimento di Giustizia americano. A Paterson la comunità anarchica italiana fu completamente spazzata via.
Paterson, NJ (ieri)
Il 2 giugno 1919, una serie di attentati dinamitardi colpirono le città di Philadelphia, New York, Paterson, Washington e Cleveland. Il ritrovamento di una serie di volantini (mai storicamente e legittimamente) attribuiti agli anarchici giustificarono l’azione della polizia. Decine di immigrati italiani furono arrestati e portati ad Ellis Island; tra questi, molti furono deportati in Europa.
L’epurazione politica corrispose ad una vera e propria pulizia etnica generando una generale amnesia.
Paterson, Agosto 2017
Oggi gli italiani a Paterson non ci sono (quasi) più. Anche l’unico ristorante con il Colosseo nell’insegna serve in realtà cibo mediorientale. A cambiare sono sicuramente stati i flussi migratori, la definizione di subalternità nel grande magma etnico americano e la storia culturale delle sue comunità. L’assenza italiana, tuttavia, non è soltanto costitutiva del corpo sociale della città, ma anche della sua memoria storica.
Arrivando a Paterson con l’autobus 190 da Port Authority si attraversano sobborghi residenziali curati, trionfo di in un benessere stucchevole, e gli oggi desolati e desolanti relitti post industriali del florido capitalismo statunitense del secolo passato. La stazione di Paterson, che ha le dimensioni di una pompa di benzina e si nasconde tra le montagne del Great Falls National Park, è circondata dai fossili della storia industriale della città; i dinosauri della seta e dell’industria elettrica portata dall’avveniristico progetto di Alexander Hamilton che con la sua statua presenzia le cascate, ode poetica di Williams e teatro del racconto cinematografico di Jim Jarmush.
Giunta a Paterson per amore e nostalgia (non solo del radicalismo di chi mi ha preceduta nella migrazione) arrivo al Visitor Centre delle cascate e alla giovane ranger che presidia la flora letteraria della piccola libreria chiedo se conosce opera che sia stata scritta sulla comunità italiana di Paterson e gli scioperi del 1913. Sono giorni qui in America in cui si discute furiosamente di cosa fare della memoria delle lotte politiche e dell’identità di questo paese, la domanda mi sembra quindi ingenuamente poco peregrina, eppure da lei raccolgo soltanto smarrimento. Mi dice che sulla storia degli scioperi c’è qualcosa, ma che l’unica comunità sulla quale sia stato fatto un lavoro storiografico accurato, è quella ebraica. Riconoscendo in me una sorpresa delusione, mi consiglia di provare al museo della città, poche centinaia di metri da lì, lungo l’Historic Drive.
Più che un museo quello di Paterson è un reliquiario. In uno stanzone ricavato dai resti mattonati di una vecchia fabbrica è apparecchiata lungo un percorso cronologico tutta la storia della città: l’insediamento indiano, l’arrivo dell’industria elettrica e quella della seta a sfruttarne il bacino idrico, le glorie militari, sportive e ovviamente cinematografiche dei suoi cittadini e persino un’ala dedicata all’auto e alla medicina. Della storia politica dell’industria della seta (ricostruita nelle sale del museo e abbandonata lungo il corso del fiume) non rimane nulla. Tanto meno della comunità anarchica italiana. Non resta indirizzo del luogo in cui la Questione Sociale di Gaetano Bresci era stata pensata e stampata, non c’è targa o cartello a ricordare i fatti degli anni ’20. La città del radicalismo operaio sembra aver sdradicato parte della sua storia dalla memoria. Curiosamente qualcosa di italiano resta, l’attore comico Lou Costello, cuore calabro e attitudine pasticciona, ha un parco a lui dedicato.
All’uscita del museo scopro curiosando e chiacchierando con il custode che a Haledon, pochi chilometri da Paterson in una vecchia casa appartenuta ad una coppia di italiani — Piero e Maria Botto entrambi operai dei setifici — e da loro donata alla comunità, è stato organizzato il Museum of Laboramericano dov’è raccolta la storia degli scioperi di Paterson e della comunità che vi aderì. Haledon è però un puntino nei vasti interni dello stato del New Jersey — un po’ come quel cassetto nascosto in fondo all’armadio dove sono custoditi i fantasmi dei ricordi che non si vogliono né cancellare completamente, né rivivere — e sicuramente distante dal centro industriale della città.
Tornata a New York per riordinare i pensieri e gli appunti, scambio qualche mail con il Botto Museum nella speranza che qualcosa di quella comunità sia rimasto custodito chissà dove. Come ha ricostruito Salvatore Salerno in Paterson’s Italian Anarchist Silk Workers and the Politics of Race, che problematizza l’amnesia anarchica di Paterson, ad oggi non esiste documentazione ufficiale di quanto avvenuto negli anni 20. Qualcosa rimane nelle memorie familiari, nelle storie orali della città, ma sono sempre meno e i loro ricordi sempre più opachi.
Oggi 23 Agosto 2017, sono 90 anni dalla crudele esecuzione di Sacco e Vanzetti. Lontano dal NJ e più vicino all’Oceano che guarda all’Europa, Boston si prepara orgogliosa a ricordare, come ogni anno, gli anarchici italiani. La memoria è un ingranaggio difettoso, saturo di frammenti vulnerabili al potere, selezionati più o meno maldestramente e spesso più utili a dimenticare che ricordare.
Paterson, NJ (oggi)
[no anarchist memory, no ohio blue tip matches here]
Una pinseria romana è sorta ai piedi della gigantesca arpa che renderà il quartiere bello e moderno come quello di una grande città europea. Siamo nella periferia di Cosenza, l’imponente forma dello strumento musicale non è che un moderno ponte strallato, identico o quasi a quello di diverse metropoli mondiali: dopo 15 anni di attese è entrato nelle fasi finali di cantierizzazione e per la provincia dell’impero si prepara una grande festa, ovviamente a carico dei contribuenti. Ancora è tutto un cantiere, ma per capire come sarà il ponte una volta finito basta guardare l’insegna del ristorantino, che addirittura si chiama Santiago, come il famoso architetto spagnolo che ha progettato l’opera. Dall’altro lato ci sono case diroccate, con i numeri civici scritti in vernice non lavabile o con i gessetti colorati. In mezzo invece corrono strade strette, piante in vendita, lo scheletro preistorico di un enorme planetario e uno zampillo che perde acqua.
Un tempo qui, in mezzo al nulla, c’erano i zingari (da queste parti pronunciato con la zeta aspra): una delle comunità rom stanziali più longeve del Paese, interessate nei decenni da diverse operazioni di sgombero, più o meno coatto. Domani, all’ombra di un’antenna record da 100 o pochi metri in meno di altezza, ci vivranno notabili, fra parchi acquatici e altri ornamenti già renderizzati e disponibili a (costosissime) varianti. La zona si chiama Gergeri, chi fa politica da tutte e due i lati del fiume ha deciso di comprarci terreni e nei piani approvati da un Comune che galoppa verso il dissesto c’è scritto che è sotto riqualificazione.
Chi entra nella città che fu dei bruzi dall’area industrial-commerciale di Zumpano (sempre aspra la zeta), deve costeggiare il fiume e passare da qui, poi alla confluenza trova un altro ponte, stavolta antico, e scegliere: a sinistra la città vecchia, a destra quella nuova. Siamo qui a piedi perché questo capoluogo di provincia calabrese, in ritardo e in anticipo al tempo stesso, offre una sineddoche particolarmente interessante, esempio vivo di processi che nelle grandi metropoli sono ormai consumati e studiati da tempo. Stiamo parlando della gentrificazione, in wikipediese quell’insieme di meccanismi che trasformano un quartiere popolare in zona abitativa di pregio. Il termine dipende dall’inglese gentry, la parola che i sudditi d’oltre manica usano per indicare la piccola borghesia, e questo perché in soldoni si tratta del processo che in un determinato posto sostituisce gli abitanti poveri con quelli ricchi. Nessuna scena di deportazioni, badate bene: tutto di solito si verifica in modo lento, sfruttando l’innalzamento dei valori degli immobili e quindi il prezzo degli affitti. Un fenomeno planetario, che riguarda le periferie e soprattutto i centri storici (non a caso definiti borghi nelle leggi di salvaguardia e nei convegni con la erre moscia) e che sta riuscendo a imporre un sistema che rischia di svendere la storia in cambio di una stereotipata movidanità da cartolina. Una storiella che ovunque finisce male, con anonimi fondi di investimento che incassano a palate, mentre poveri e precari diventano pendolari e i benestanti si ritrovano in prigioni dorate a cercare di prender sonno sopra chiassosi localini, dove si consumano prodotti che potresti trovare ovunque: merci studiate e inventate dal marketing e distribuite in franchising, proprio come la pinsa.
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Di questo tema all’apparenza potiomchiesco, invero, da queste parti si parla ancora poco e niente, mentre ormai da anni se ne occupano i più grandi giornali del mondo, come l’inglese The Guardian, che in “cities“ – una sezione di giornalismo partecipato finanziato dalla Rockefeller foundation – raccoglie le storie provenienti dai reporter, dagli studiosi e dai lettori in tutte le città del mondo su questo tema. Gli articoli sono tutti molto interessanti; in uno per esempio Rowan Moore si occupa (qui) senza sconti della riqualificazione della penisola di Greenwich a Londra affidata all’archistar Santiago Calatrava, proprio l’idolo dei pinsaioli di Calabria. Per spiegare gli inghippi che più avanti argomenterà, in attacco del pezzo il giornalista usa il colpo letterario, ricordando come nel romanzo orwelliano del best seller mondiale Dave Eggers intitolato “Il cerchio”, la sede del (fantasioso ma non troppo) grande fratello del terrore nato dalla fusione fra Apple e Google è dominata proprio da una bianca fontana dell’architetto valenciano, come simbolo di un potere che comunica algida e benigna grandezza mentre in nome del decoro urbano riduce lo spazio dei diritti civili.
Ma tutto questo potete leggerlo da soli, qui continuiamo a camminare e decidiamo di andare a sinistra, inerpicandoci con la strada verso la città vecchia: una meraviglia incastonata di gioielli architettonici dichiarati patrimonio dell’umanità. Un tesoro che per l’incuria privata e pubblica di decenni sta cadendo a pezzi sulla testa degli abitanti. Prima di addentrarci nei suoi meandri, va detto a chi non c’è mai stato che, diversamente da altre città, il centro storico qui non è più da tempo il vero centro della città; ci troviamo infatti nella porta Est e ancora una volta non è l’opera del caso: sempre il benedetto Guardian ci spiega con un interessante report chiamato “Blowing in the wind” (qui) perché in Occidente il proletariato ha finito per ghettizzarsi nelle zone orientali delle città post industriali. Questioni di venti, che valgono anche per quelli cosentini, mici e poco industriali. Qui nel buio dei vicoli che abbracciano il corso frequentato un tempo dal giurista Stefano Rodotà e dedicato ancora al filosofo Bernardino Telesio, sopravvive una città di cui si parla poco: i bambini rom sgomberati lungo il fiume sono finiti qui; nascosti al resto della città non vanno più a scuola e fra Santa Lucia e la Garrubba bombardate dall’incuria bivaccano sperando di cavarsela. Pochi avamposti di un tempo andato riescono a resistere, negozi dove si può comprare di tutto e poi pagare a fine mese, dove si trova tradizione, prodotti irripetibili altrove. Non c’è un’area attrezzata per giocare, non c’è alito per l’aggregazione, come se la sfera pubblica sia stata bandita o ceduta dallo stato ad altri imprecisati attori sociali.
Su Mmasciata.it ci siamo occupati in diverse occasioni delle polveri di questi antichi palazzi, per ultimo con un mini doc firmato da Camillo Giuliani e Gianluca Palma; sintetizzandolo, possiamo dire che mentre il Comune procede d’imperio con ordinanze di sgomberi e demolizioni controllate degli edifici in pericolo, il Comitato di Piazza Piccola percorre soluzioni diverse, con una mappatura degli stabili a rischio e la richiesta al Comune di immediati interventi di messa in sicurezza intimati ai privati negligenti, pena la possibile espropriazione e recupero degli immobili di loro proprietà, da salvare a vantaggio di tutti perché contenenti testimonianze storiche di grande prestigio. Per ottenere l’attenzione del resto della città su queste battaglie, i membri del comitato cittadino hanno pensato insieme ai ragazzi del collettivo del Filo di Sophia a una formula che si chiama Restart Cosenza Vecchia, che consiste nel mettere in rete una serie di aggregatori e attrattori culturali che si sta dimostrando in grado di portare centinaia di persone a riscoprire pratiche di cittadinanza attiva nei luoghi dei crolli.
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Si tratta di una dinamica di riappropriazione molto interessante e da incoraggiare: ancora il quotidiano britannico per cui abbiamo finito gli aggettivi, in un articolo partecipato curato da Francesca Perry dal titolo “Stiamo costruendo la nostra strada per l’inferno: storie di gentrification in tutto il mondo” (leggilo qui), spiega in che modo da Città del Messico a Berlino iniziative nate dal basso tentano di resistere chiedendo politiche che permettano agli spazzini, agli studenti, ai camerieri, ai cuochi e alle infermiere di rimanere ad abitare le città che tengono vive con il loro lavoro. Dalla Spagna arriva anche questo reportage sull’attacco turistico al centro storico di Pamplona, segnalato dal sempre attento Ettore De Franco. Tutte testimonianze che parlano di soluzioni sociali, tipo promuovere spazi culturali innovativi e iniziative a basso costo per lo sviluppo di diritti sociali e civili degli abitanti (facciamo tre esempi: casa, scuola, cinema, piccoli ambulatori), cercando tutti di combattere il cosiddetto effetto Airbnb, l’innalzamento vertiginoso degli affitti con il turismo cavalletta secondo il modello mordi fuggi e distruggi.
E qui le regole giornalistiche ci impongono di chiudere il già lungo ragionamento con una domanda: è forse proprio rivedendo l’idea di turismo di massa che si salvano le nostre città? Siamo terrorizzati dai numeri delle migrazioni (quest’anno si è raggiunta la cifra di 64 milioni di persone in viaggio per necessità), mentre sottotraccia passa il fatto che per l’invenzione molto più moderna del turismo, nato appunto con la borghesia, il mondo nel 2030 raggiungerà la quota di due miliardi di persone l’anno che si spostano per diletto. Intendiamoci, viaggiare e conoscere liberamente è e deve restare il sale della civiltà: ma a quali condizioni, secondo quale modello questi numeri di turismo saranno sostenibili dai nostri ecosistemi? In questi giorni abbiamo visto diverse Regioni italiane che vivono storicamente di turismo chiedere lo stato di emergenza e calamità naturale per l’aggravarsi della crisi idrica, causata – si legge in modo inedito nelle carte presentate al governo – “dalla siccità e dal vertiginoso aumento degli afflussi turistici negli ultimi anni”. Insomma: di che tipo di progresso stiamo parlando se quando fa caldo non c’è acqua per tutti e quando piove ci casca tutto addosso? Parlando di alluvioni e frane sempre più frequenti, infatti, il noto geologo Mario Tozzi su La Stampa (qui) ci spiega che anche in questo caso pesa il fatto che “in nome del turismo abbiamo tradito la natura”, sostituendo per esempio nelle Cinque Terre i millenari usi agricoli di controllo e difesa dell’idrogeologia con quelli moderni di speculazione edilizia a fini vacanzieri.
Insomma: di turismo l’Italia può vivere ma anche morire, e se è vero come dicono gli scienziati che questa sarà l’ultima generazione in grado di cambiare l’abitabilità del globo prima che i cambiamenti climatici diventino irrimediabili, dei quartieri storici italiani dovrebbero cominciare ad occuparcene tutti, e non solo chi vuole solo metterli in vendita.
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aggiornamento Dic 2017| Dopo la faraonica inaugurazione del ponte, i media locali e nazionali hanno rivelato che: a) l’opera è stata finanziata in parte con i fondi Gescal originariamente destinati dell’edilizia popolare; b) i cittadini espropriati di casa e terreni per costruirla non sono mai stati pagati; c) in un cantiere collegato ai lavori è morto un operaio.
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aggiornamento Dic 2018 | La prestigiosa rivista Forbes annuncia che Airbnb ha stilato la classifica delle 19 mete che esploderanno nel prossimo anno: c’è pure la Calabria con la città di Cosenza
In principio fu Monsù Travet. Quattro aprile 1863, teatro Alfieri di Torino. Vittorio Bersezio porta in scena una commedia in dialetto piemontese sulle amare sfortune quotidiane di un servitore del re e realizza un successo incredibile, che scava nell’immaginario collettivo portando a galla la crisi della società burocratica postunitaria. Un’eredità lungamente dimenticata, che viene raccolta solo nel 1971 dal libro “Fantozzi” di tal Paolo Villaggio, pubblicato nel 1971 per i tipi di Rizzoli e diventato in pochi mesi un best seller internazionale da un milione di copie. Quattro anni dopo venne l’omonimo film, primo di una serie di dieci pellicole fatta di tremendi sorteggioni imposti da direttori megalattici e megaconti a dipendenti merdacce destinati a crocefissioni in sala mensa e improbabili imprese sportive borghesi. Un ritratto eccezionale della società italiana perché dinamico, che vive nell’incontro scontro di due mondi che finiscono per riconoscersi nelle loro meschinità e riappacificarsi nell’incapacità di coniugare i verbi al congiuntivo.
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Cosa si può dire che già non si sa sulla grande opera dell’artista genovese scomparso oggi all’età di 85 anni? Forse due cose: il personaggio del ragioner Ugo Fantozzi si ispira a una persona reale, tale impiegato Bianchi della Cosider di Genova, industria metallurgica dove Villaggio ha lavorato prima di viaggiare per mari a bordo della Costa Crociere con l’amico di una vita Fabrizio de Andrè e di abitare a Londra, dove divenne uno speaker della Bbc. Una seconda cosa importante che spesso si dimentica è che il successo di Fantozzi, prima che ancora letterario e cinematografico, è un successo giornalistico. Il primo libro infatti rielaborò e raccolse i racconti “La domenica di Fantozzi” usciti su L’Europeo a firma del raffinato comico che il piccolo schermo stava imparando ad amare nei panni del prestigiatore dottor Kranz e del tragicomico Giandomenico Fracchia. Non sono le uniche esperienze esperienze giornalistiche di Villaggio, che al cinema ha portato anche la misera vita di un cronista da strapazzo che vince la lotteria di Capodanno ma perde il biglietto; oltre alla già citata e decisiva collaborazione con L’Europeo, da ricordare è l’esperienza come editorialista con Paese Sera di Giorgio Cingoli negli anni Sessanta, dove tiene per anni la spassosa rubrica di “Lettere al direttore” che iniziavano sempre: Caro dirett. Gran lup mannar, Test. de. caz. e Gran figl. mignot. e così via. Poi un periodo meno prolifico e significativo del precedente, con l’esperienza da editorialista con L’Unità diretta da Walter Veltroni, per L’Indipendente firmato da Giordano Bruno Guerri e infine di nuovo con L’Unità, dove nel 2009 svolge il ruolo di editorialista nelle vesti di un Fantozzi di propensione leghista.
“In Italia il clown quando muore diventa grande”, disse Villaggio in tv alla tribuna politica che lo vedeva protagonista nel 1987. Accanto a mille allori artistici non disdegnò infatti l’impegno politico: candidato da capolista con Democrazia Proletaria spiegava agli elettori perché ritenesse importante lottare al fianco delle minoranze e contro le discriminazioni di cui il paese governato dalla Dc era intriso da una postazione diversa da quella ormai di potere rappresentata dal Pci, partito comunista per il quale aveva sempre votato. Nel 1994 è stato candidato con la Lista Marco Pannella nel collegio uninominale di Genova – San Fruttuoso e nell’ultima fase della sua vita ha annunciato il suo voto a favore del Movimento 5 Stelle del suo amico Beppe Grillo.
Per tornare all’ambito artistico, più delle innumerevoli e comunque significative e intense opere drammatiche di Villaggio, ci fu un progetto strano e visionario che rischiò di far impallidire la fama del suo Fantozzi. Si chiamava Mastorna detto Fernet, un personaggio cardine del film che Federico Fellini sognò di fare per gran parte della sua vita senza purtroppo riuscirvi. Il protagonista sarebbe dovuto essere proprio Paolo Villaggio, ma il film non riuscì mai a concretizzarsi anche per motivi scaramantici e arrivò al pubblico come fumetto disegnato da Milo Manara;inizialmente previsto in tre puntate, quando un errore di stampa fece comparire la scritta “Fine” al posto di “Continua” il regista si decise di non proseguire con un progetto che un amico mago gli predisse come maledetto.
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Resta così Fantozzi l’opera iconica di Paolo Villaggio, un successo duraturo lanciato da una grande stagione di giornalismo, cinema e letteratura italiani, un’opera ammirata dai critici alla Corazzata Potemkin quanto adorata dalle masse sfruttate, oggi forse ancora più in grado di identificare e allo stesso tempo esorcizzare nelle frittatone di cipolle del ragioniere la resistenza precaria e disperata degli inferiori italiani, sempre nello stesso sottoscala della società dai tempi del Travet a quelli di Fantozzi e oltre.
Nella famiglia dell’Inespresso, un posto di primo piano lo occupa proprio lui, Ugo Fantozzi. Uno sportivo nato, nonostante un fisico non proprio atletico e una propensione per le sventure fuori dal comune. Ma è stato proprio questo ascendente a rendere il ragioniere più famoso d’Italia un simbolo e un punto di riferimento per tantissimi italiani medi di ieri e di oggi che grazie alla pratica amatoriale di attività come il calcio, il tennis, il ciclismo, lo sci e l’atletica leggera, si sono sentiti, per almeno un giorno nella vita, dei campioni, o qualcosa che gli somigliasse.
Fantozzi ha giocato a calcio, insieme ai suoi colleghi d’ufficio, in una drammatica domenica pomeriggio. Una partita diretta da un arbitro impassibile, severo e mezzo cieco come Renzo Filini. Una partita giocata in un pantano diventato ben presto una vera e propria piscina per via di quel nuvolone da impiegato che sta sempre in agguato anche per quattordici mesi di fila.
“E quando vede che il suo uomo è in ferie o in vacanza, gli piomba sulla testa scaricandogli addosso tonnellate di pioggia fitta e gelata”.
Fantozzi ha giocato a tennis, sempre con Filini, in una epocale sfida all’ultimo sangue. La più rigida domenica dell’anno, “dalle sei alle sette antelucane. Tutte le altre ore, man mano che si avvicinava il mezzogiorno, erano occupate da giocatori di casta sempre più elevata: direttori clamorosi, ereditieri, cardinali e figli di tutti questi potenti“. Oltre alle temperature polari e all’abbigliamento paradossale dei due contendenti, di quella sfida disputata tra una nebbia fitta e avvolgente, rimane indimenticabile il dialogo a distanza prima della battuta di inizio match.
Filini: “Allora, ragioniere, che fa? Batti?”
Fantozzi: “Ma… mi dà del tu?”
Filini: “No, no! Dicevo: batti lei?”
Fantozzi: “Ah, congiuntivo!
Filini: Sì!”.
Fantozzi è stato un ciclista d’altri tempi, nella drammatica Prima Coppa Cobram. Una corsa che vedrà proprio lui vincitore inatteso grazie all’utilizzo di una sostanza dopante acquistata da uno spettatore. Una volata indimenticabile conclusasi con Fantozzi che taglia il traguardo tra gli applausi del pubblico, di sua moglie Pina e di sua figlia Mariangela prima di finire dentro un carro funebre. Fantozzi è stato un atleta e uno staffettista poderoso nel corso dei giochi olimpici aziendali. Un evento privo di premi per i primi classificati, ma con la minaccia di trasferimento nella miniera di Sassu Strittu, in provincia di Carbonia, dove gli impiegati vengono usati come muli da soma, in caso di sconfitta. L’Ufficio sinistri non vincerà una gara, fino all’ultima staffetta quando grazie a un espediente, Fantozzi taglierà il traguardo con in mano un candelotto di dinamite usato come testimone. Il ragioniere giungerà primo, ma poi salterà in aria.
Ma Fantozzi è stato soprattutto uno sportivo non praticante. Quel suo “Scusi, chi ha fatto palo” durante un’Inghilterra-Italia valevole per le qualificazioni alla Coppa del Mondo, rappresenta in pieno un Paese che vive di calcio e che oltre il calcio non riesce proprio ad andare. Per quella serata, Fantozzi, prepara un programma formidabile: calze, mutande, vestaglione di flanella, tavolinetto di fronte al televisore, frittatona di cipolle per la quale andava pazzo, familiare di Peroni gelata, tifo indiavolato, rutto libero. Il tutto, però, viene vanificato da una telefonata improvvisa del capo che lo obbliga a lasciare la partita per il cineforum aziendale. Il resto, si conosce a memoria, con quei 92 minuti di applausi dei colleghi sfiniti dall’ennesima proiezione della “Corazzata Potëmkin” che elevano inaspettatamente, come mai fino a quel momento, l’ultimo uomo fra gli ultimi. Il più grande ultimo italiano. Paolo Villaggio è stato tante cose, comico, attore impegnato, maschera, scrittore eccellente. Forse, però, la sua più grande capacità è stata proprio quella di interpretare, meglio di chiunque altro, attraverso quella invadente e al tempo stesso rassicurante nuvola da impiegato, la vita di chi non ha mai avuto l’opportunità di esprimere i propri sogni. Sogni mostruosamente proibiti.
Questa è una storia fatta di tutte quelle cose che la fama le precede. Annotano infatti i Ros in uno dei rapporti allegati agli atti del processo Mafia Capitale: “…il salto di qualità dell’organizzazione è reso possibile solo in ragione della notorietà criminale del Carminati e del gruppo che lo stesso comanda”. Alludono a tutte quelle questioni che stanno emergendo sui media e nelle aule di tribunale, ma non solo. Bisogna capire che il 416 bis (associazione di tipo mafiosa) questa storia rischia di non riuscire a contenerla e che applicare a questa roba lo sguardo del passato non serve. Il passaparola tutto romano dov’è impossibile distinguere verità e finzione è arrivato al punto tale che al Cecato basta un gesto della mano in mezzo alla strada, come quello con cui indica minaccioso Michelino Senese. Chi è Senese? Anche se la giustizia l’ha assolto dall’accusa mafiosa, è ritenuto il delfino del capo camorra Carmine Alfieri e il leader carismatico della batteria di Ponte Milvio, quella che prima dei colpi era solita dirsi la battuta che ha fatto la fortuna delle serie televisive: “Pijamose tutta Roma“. Sono due capi assoluti, insomma, che hanno condiviso quattro anni di carcere per i fatti della Banda della Magliana e, secondo Antonio Mancini, anche lui uno dei capi storici del sodalizio romano, le gambe larghe di Carminati, il dito puntato e l’altra mano posta sul fianco “come se c’avesse a fondina” sono una prova di forza indiscutibile dell’uno in confronto all’altro.
Mancini nel documentario “L’uomo Nero” trasmesso in prima serata da La7 ha dichiarato: “Sto cinematografando la scena, ma perché è la scena che è cinematrografica, non perché la sto cinematogrando io“. Del resto di cinema se ne intende, non ha simpatie fasciste come gli altri sodali, anzi è piuttosto di sinistra e adora i film di Pier Paolo Pasolini: per questo lo hanno sempre chiamato “Accattone“, come il titolo di uno dei più bei film dell’indimenticato artista. Per i feticisti della fiction, l’alias da cercare per individuarlo in “Romanzo Criminale” è “Ricotta“. Nel libro intervista con la giornalista Federica Sciarelli intitolato “Con il Sangue agli occhi” ha raccontato che nelle rapine era solito gridare “Bumaye” per spaventare gli ostaggi. Si tratta della parola che il pubblico gridava a Muhammad Alì nell’incontro con Foreman, e significa “Uccidilo”.
Sul viale alberato di Corso Francia è tutto un cinema, insomma.
Capitolo 3
ER VENTICELLO.
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– “Lo sai chi so’ quelli, vè? Quelli comannano Roma, prega Dio de non avecce mai a che fa ‘co quelli”.
Tutta Roma Nord sa, e quando esplode il bubbone mediatico su Mafia Capitale e sembra cadere quel decennale velo di impunità, davanti ai carabinieri in stazioni come quella di Ponte Milvio iniziano a sfilare raccontando il sistema di vessazioni e minacce di personaggi che per decenni l’hanno fatta da padrone nei locali più in vista accanto ai personaggi più famosi. Un passaparola così efficace che per gran parte delle situazioni da dirimere neanche serve passare alla vie di fatto. Una reputazione di strada che però non si affida più esclusivamente ar venticello, ma che cresce anche grazie al boom dei media sociali. Sono infatti diversi i gruppi che forgiano con Facebook le nuove manovalanze giovanili alla cultura del rispetto verso una storia criminale, diffondendo anche “messaggi, proclami e iniziative volte ad incitare alla discriminazione e alla violenza per motivi razziali“. A scriverlo sono di nuovo gli inquirenti in una inchiesta che riguarda i cosiddetti “banglatour”, spedizioni punitive contro i negozi gestiti da cittadini che vengono dal Bangladesh, una delle nazioni più povere del pianeta.
– “Stasera se lo famo un bengalino”?
Il messaggio gira sulla chat di gruppo, poi si discute e ci si organizza. La risposta finale è affidata ad un commento su Facebook, una vera e propria adunata:
– “Camerata della destra romana: azione“.
Secondo la Procura capitolina sono almeno 50 i bengalesi aggrediti solo nel biennio che va dal novembre 2012 allo novembre 2013. Beccati alle fermate del bus o sulle panchine di un parco e poi massacrati di botte. Vittime perfette perché ritenuti particolarmente mansueti, come se fossero bestie; la stragrande maggioranza di loro infatti non ha mai sporto denuncia alle forze di polizia per timore di dover poi tornare nel proprio paese. Azioni portate avanti da giovanissimi, adescati spesso con la propaganda sui social media, grazie a pagine e profili che propagano la sottocultura di una destra di strada ampiamente tollerata, laddove non protetta. Per indagarla bisogna uscire dall’aula bunker di Rebibbia e mescolarsi nella vita di ogni giorno.
Capitolo 4
FACEBOOK.
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Roma Nord: leggins e pischelle. Recita una scritta sul muro firmata con la svastica. Giorgio è l’unica parola di fantasia che segue. Un ragazzo in forze ma non in forse, pieno di certezze sotto il cranio rasato. Nato e cresciuto a Roma, in periferia ma nemmeno troppo, ha origini calabresi come chi gli scrive in chat e la cosa aiuta a rompere il ghiaccio: se gli chiedi perché non gli rode che più di qualcuno a Roma sia ancora razzista verso i meridionali, se non gli diano fastidio le scritte nel quartiere che chiedono “più case e meno calabresi”, ti risponde:
– “Se c’è qualcuno che non se comporta bene deve annassene. L’integrazione se suda, lavorando e rispettando le regole”.
Uno a zero per lui. Il padre lavora nelle forze dell’ordine, è da quando era giovane che è a Roma e ormai con il figlio, l’altro fratello e la moglie non tornano più nel paese d’origine, l’unica nonna rimasta se la sono portata nel quarticciolo. Giorgio invece ancora un lavoro vero e proprio non ce l’ha. Ha consegnato pizze nel quartiere e lavorato in un negozio, poi ha subito un furto e anche se non ha prove si è convinto che ad azzerare i suoi risparmi siano stati quelli del campo rom. Da allora sta sempre su “Radio Bandiera Nera” e condivide e commenta i post delle pagine di Casapound. Nelle cuffiette spesso si spara musica degli “Zeta Zero Alfa”, spiega a pappagallo come si fa ad avere una maglietta come la sua e che indossarla non significa avere “un prodotto commerciale, ma incarnare un messaggio e finanziare un’area politica non conforme”. Incitare alla violenza razziale è una pratica quotidiana, ma non ci si fa molto caso, l’idea ricorrente – il tema mantra – nelle conversazioni è piuttosto la fedeltà ad un gruppo. Il racconto che si ripete più volentieri infatti è quello relativo ad alcuni raid punitivi che per sommi capi sono stati descritti anche nelle informative e sono finiti su qualche sito internet. La prima avviene ai danni di un ragazzo che durante una festa organizzata in una casa violentò una militante di Forza Nuova, la seconda ai danni di un militante di Casapound per rimettere in pari una rissa avvenuta in un locale vicino Ponte Milvio. Il primo venne bendato e fatto inginocchiare in mezzo agli altri, un colpo di pistola gli lesionò il volto e l’udito. Il secondo finì in un gioco al massacro, sei contro uno, perché questa è una storia in cui “gli amici non si toccano”. L’illudersi di appartenere a qualcosa, di far parte di un sistema che difende un insieme di valori viene prima di tutto il resto. Solo in mezzo a questi ragazzi Giorgio ha l’impressione di non essere un fantasma. Sul cortile retro del bar dove stanno ogni giorno ogni tanto qualcuno fa capolino a chiedere se s’è visto Ferruccio Amendola. L’indimenticato doppiatore papà dell’attore Claudio, che nel film “Suburra” interpreta proprio un personaggio ispirato a Carminati, è però passato ad altra vita nel 2009: lo rievocano perché in codice chiedono un Ferro, una pistola con matricola abrasa da comprare al mercato nero. Seduto sul muretto, con i piedi sul tavolino passa le giornate a fumare e bere con gli amici anche Giorgio, e quando un gabbiano si avventa sulle molliche fa valere lo stivale e il vocione gutturale prendendosela con il sindaco Marino. Anche se ormai l’esponente rinnegato dal Partito Democratico si è dimesso da quasi due anni e ha governato per una parentesi fra le giunte Alemanno e Raggi.
Capitolo 5
FAKE NEWS.
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La diffusione del messaggio non passa solo dai Social, è veicolato anche da un complesso reticolo di siti di notizie locali forzate se non inventate di sana pianta. Per collaborare con uno di questi portali di informazione devi scrivere alla mail intestata a un politico locale che, secondo le carte processuali di diverse inchieste, vanta parentele pesanti nella destra eversiva capitolina. Alle mail a suo indirizzo risponde firmandosi una donna però, ti spiega cosa fare con i comunicati stampa e come funzionerà il tuo periodo di prova. Per i primi tempi i link in evidenza sul sito sono tutti riferiti alle posizioni del consigliere e dei suoi sodali sulle questioni municipali: raccontano di degrado e disservizi, di immigrati e campi rom, poi scrivono un po’ di tutto. Le password che ti vengono consegnate per caricare i pezzi sono tutte ispirate a intellettuali di destra, e se chiedi come verrà ricompensato il tuo lavoro il discorso viene preso alla larga, dicendo che dopo il primo mese e il caricamento di circa 20 articoli al giorno il direttore ti metterà in condizione di prendere il tesserino da giornalista pubblicista. I collaboratori sono infatti tutti i giovani alle prime se non primissime esperienze, a fare quello che una volta si chiamava lavoro di desk: lavorano da casa e seguono le conferenze stampa senza alcun rimborso spese. Un vortice di collaborazioni che iniziano e finiscono nel giro di poche settimane, un continuo rigenerarsi di cavie destinate al rafforzamento dell’immagine di due tre candidati che, sempre secondo i rapporti delle forze dell’ordine, si dimostrano volenterosi di radicarsi nel territorio romano e di entrare in rapporti di affari con un gruppo che dichiara di avere a disposizione anche pacchetti di 10mila voti.
La (nuova) comunicazione come grimaldello per insistere e resistere alla bufera di arresti, la capacità di usare vecchi e nuovi media che continua a scorrere come in un fiume carsico nel tam tam informatico, che non arriva alle cronache dei grandi giornali o si manifesta nelle strategie mediatiche dei personaggi più in vista. Quando in aula a Rebibbia finisce di deporre Salvatore Buzzi, infatti, Carminati in videoconferenza ritorna a dire tutto con un gesto della mano. Si alza in piedi, sorride e fa il saluto fascista in faccia allo Stato: sa benissimo che il video sarà presto virale e che quindi tutti non avranno occhi che per quello, ignorando il resto del mondo di mezzo.
Per chi non sa cosa si prova ogni spiegazione è inutile, per gli altri nessuna spiegazione è necessaria. Siamo al minuto numero 29 della prima frazione di gioco; la Roma, reduce da 11 anni di delusioni nella San Siro nerazzurra, è già in vantaggio;secondo le vibrate proteste dei nerazzurri messe a verbale dal direttore di gara, Vincenzo Montella ha festeggiato con un aeroplanino di troppo. Ventisei ottobre dell’anno 2005, stadio “G. Meazza” in Milano: un Francesco Totti al trotto segue le consegne dell’allenatore Luciano Spalletti e con loro il tentativo di imbastire la manovra di Juan Sebastian Veron. Il piratesco argentino all’altezza del centrocampo scambia la palla con Ze Maria, poi la cede a Ivan Ramiro Cordoba e si butta nello spazio, sulla fascia destra, per una sovrapposizione che può portarlo verso un rapido scambio con il brasiliano che, intanto, ha di nuovo ricevuto la palla, ma stavolta in verticale. Gli uomini dell’Inter in questo momento sono disposti in perfetta posizione da triangolo e alla Roma manca un raddoppio: la superiorità numerica è a un passo e ci sono i prodromi per un pericoloso assalto alla tre quarti avversaria. Questo accade perché Totti a un certo punto ha arrestato la sua pigra rincorsa e con una specie di saltello ha deciso di abbandonare Veron al suo destino, qualsiasi esso sia. Si è posto a gambe larghe in una mattonella anonima segnata dal taglio dell’erba, un piedistallo all’apparenza inutile che però, non si sa bene per quale legge custodita nella zona franca al confine fra geniale intuizione e colpo di fortuna, diventa proprio quello in cui finisce la palla calciata da Ze Maria e sporcata da un intervento ravvicinato di Christian Chivu.
UNO – sulla linea del centrocampo –
Il folto crinito capitano della Roma allora accoglie la palla nella sua metà campo difensiva e inizia un’impresa che resterà per decenni negli occhi dei presenti. Nel 2004, nella sua prima e poi ospitata televisiva su un canale capitolino (si trattava di “Pressing” condotta da Alberto Mandolesi), Totti disse che quella è la situazione di gioco che predilige, quella in cui puoi guardare in faccia l’avversario e puntarlo nella speranza di vederlo giacere al tappeto. Veron e Cordoba, come i ciclisti piegati sulle gambe nel momento migliore dello scatto in salita, sono rimasti indietro e non recupereranno in discesa. Sulla linea del centrocampo tocca quindi a Esteban Cambiasso ricucire lo strappo e lasciare il cerchio in un rapido scivolamento di posizione verso la fascia. Totti lo vede e rallenta un attimo, valuta i metri di vantaggio e al momento giusto sposta la palla sulla sua sinistra, in modo che l’estirada del piccoletto che arriva da destra possa toccare ma non sottrarre la palla dalla sua disponibilità. A certi livelli pochi rimpalli sono davvero casuali, tanto che la palla, sporcata dall’ex Real Madrid, si sposta ancora verso destra e sembra poter essere di nuovo preda del rientro di Ze Maria, ma quando anche lui prova l’entrata da tergo per ricacciare la palla verso la difesa, Totti mette il piede davanti e rende tutto vano. Ha ancora il controllo assoluto, ha già lasciato due avversari a terra e ad attenderlo c’è Marco Materazzi. Il centrale nerazzurro finirà stordito da una serie di cose, prima di tutte la sbagliata posizione iniziale del corpo, errore che cerca di recuperare con una piroetta su se stesso non appena il 10 avversario inizia a spostare la palla verso destra, verso lo specchio di porta.
DUE – gioco di squadra –
Al limite dell’area di rigore si palesa l’emsemble che solleva l’acuto solista: il movimento dell’attacco della Roma è come un’imboscata di arcieri merovingi, che veloci e precisi si fiondano nella parte opposta a quella del loro condottiero per confondere il nemico e aprire una breccia. Amantino Mancini passa così deciso e potente alle sue spalle che l’arcigno difensore è tradito da un riflesso incondizionato nella sua direzione. L’incertezza letale, che apre il sipario al capolavoro di Totti, che a passi ormai ravvicinati marcia allineando il proprio corpo alla direttrice che punta al centro del bersaglio. Francesco alza velocemente il capo e quando lo china a guardare il pallone carica il destro come a sparare forte, per poi invece arrotare con dolcezza la pelle della sfera, che oltrepassa il difensore in scivolata e il portiere in accenno di uscita per addormentarsi in rete, dall’alto verso il basso. Un istante sublime, accolto dopo qualche momento di rabbia e stupore anche dall’applauso di Roberto Mancini e del pubblico di fede interista, lo stesso, quest’ultimo che aveva riempito di insulti e fischi il romano durante il riscaldamento preparatorio. Non è il primo cucchiaio di Totti e non sarà l’ultimo, ma in questo c’è stato qualcosa oltre il rito. Una serie di elementi lo pongono fuori dal marchio di fabbrica, rendendolo irripetibile. Riavvolgiamo il nastro: Totti in maglia bianca è lanciato in modo frontale verso la porta, il pallone non è fermo come contro Van Der Sar agli Europei e nemmeno lento o in fermata come contro Peruzzi o Buffon (quella volta di sinistro) all’Olimpico; sospinto dal destro del capitano giallorosso rotola veloce sull’erba compiendo un moto di rotazione orario. Per riuscire nel cucchiaio a quella velocità, con la fatica dei 30 metri compiuti e la forza gravitazionale impressa all’azione, c’è bisogno di invertire il giro della palla con il famoso colpo a scavetto. Tenendo anche conto che il tabellino di “Repubblica” riporta un terreno in mediocri condizioni, è una roba difficilissima da fare e senza alcuna possibilità di precisione. Per questo Totti colpisce quasi in modo impercettibile tre volte la sfera nel portarla verso il centro, alternando il gesto con rapidi movimenti a fintare il passaggio: addomestica la bestia per poterla destinare a una fine di una precisione disarmante.
TRE – restringi l’ipotenusa –
Un minimo rimbalzo, un millimetro più sopra o più sotto, un decimo di secondo prima o dopo, e la palla avrebbe incontrato le gambe del difensore o i guantoni del portiere, che quella sera è Julio Cesar: non proprio uno degli ultimi arrivati, anzi, in quel momento un fenomeno spesso accostato ai migliori del mondo. I commentatori di “Sky Sport”, Caressa e Bergomi, con il rallenty si rendono conto che l’estremo difensore brasiliano non ha nemmeno superato la linea che demarca la cosiddetta area piccola di rigore, non è avanzato più di cinque metri verso il pallone e non è rimasto sorpreso e immobile ad applaudire il gesto come fece nel 97 Ferron con Boksic. Julio Cesar ha allungato tutta la sua stazza in un superbo corpo di reni all’indietro, ma non è servito a nulla. Un portiere arrivato al livello in cui è in quel momento il brasiliano ha ripetuto d’istinto miliardi di volte quello che viene insegnato agli esordienti come rimpicciolimento dell’ipotenusa: ovvero i rapidi passi in avanti dell’estremo difensore, vietati nei calci di rigore, che devono scattare quando il calciatore carica il tiro e che sono direzionati al centro della palla per restringere più possibile il lato più grande del triangolo formato negli altri due lati immaginari dalla distanza che intercorre dallo stesso centro della palla ai due pali della porta. La sua posizione è corretta, irreprensibile: e la giocata del romanista che è perfetta in modo irreale. Nel secondo tempo la partita capitolerà nelle mani di un altro sceneggiatore e il campione giallorosso verrà espulso insieme a Veron per un testa a testa nel recupero, ma questa è un’altra storia. Oggi non ci è dato sapere se e quando nascerà un altro giocatore capace di interpretare in modo così moderno, potente e poetico un’azione come quella. Ciò che sappiamo è che Francesco Totti c’è riuscito.
A distanza di tre anni da quel tragico 24 maggio 2014 – quando, a seguito di un intervento dei carabinieri di Mirto Crosia morì il ventinovenne Vincenzo Sapia(leggi qui la sua storia) –l’accertamento dei fatti sembra arrivato a un punto apparentemente morto. Per ben due volte il pubblico ministero ha chiesto l’archiviazione dell’inchiesta ma, entrambe le volte, il giudice per le indagini preliminari ne ha rigettato la richiesta. La prima volta ritenendo che «ci fossero troppi aspetti meritevoli di ulteriore approfondimento» soprattutto riguardo il comportamento dei militari e la seconda volta, il 31 marzo 2016, richiedendo «ulteriori consulenze medico-legali, in particolare cardiologiche». Risultati importanti per la difesa, frutto della caparbietà della famiglia e soprattutto della sorella Caterina, ma anche della nota competenza dell’avvocato Fabio Anselmo, che ha fatto di tutto per scongiurare l’archiviazione. Abbiamo chiesto proprio all’esperto legale, già difensore delle famiglie Cucchi, Aldrovandi, Magherini e Bergamini, di spiegarci il suo punto di vista sugli ultimi sviluppi di questa vicenda.
Avvocato, perché a distanza di tre anni dalla morte di Vincenzo Sapia, la vicenda è ancora arenata davanti al Gip del Tribunale di Castrovillari e non si è ancora arrivati ad un processo?
«È vero c’è un ritardo, ma noi attendiamo con ansia che la procura faccia quegli accertamenti medico-legali che mancano, perché penso che il Gip si sia già espresso sulla non correttezza dell’intervento operato dai carabinieri a danno del povero Vincenzo Sapia. Siamo sicuri che questi nuovi accertamenti possano dirimere ogni dubbio sulla morte di Vincenzo, portandoci al processo».
Perché ci sono così tanti aspetti meritevoli di un ulteriore approfondimento? È possibile che le indagini nella prima fase siano state condotte in maniera lacunosa?
«Le indagini secondo me non sono state così lacunose, il fatto è emerso chiaramente ed è suscettibile di essere raccontato in un processo. Ciò che è stato davvero imbarazzante sono le consulenze del medico legale». Già al primo tentativo di archiviazione avevate presentato una nuova relazione medico-legale che smentiva le conclusioni del consulente tecnico. Questo non è bastato. Servono ulteriori consulenze cardiologiche?
«La nostra relazione ha convinto il giudice a non archiviare. Le dissertazioni medico-legali del consulente della procura sono state giustamente criticate dal giudice sulla falsa riga di quanto da noi dimostrato perché contengono una contraddizione intrinseca. Io credo che la morte di Vincenzo Sapia esiga verità e giustizia».
Già nel 2014 il Comando generale dell’Arma aveva inoltrato a tutte le caserme precise indicazioni sulle linee di intervento in caso di soggetti in evidente stato di alterazione psicofisica. Queste procedure sono state rispettate?
«I carabinieri hanno delle circolari anche precedenti a questa che dicono come ci si deve comportare nel momento in cui ci si trova davanti a una persona che non è in sé per motivi non addebitabili alla sua responsabilità. Vincenzo Sapia era spaventato perché cercava il suo cane. Aveva dei problemi psichiatrici, ma non aveva mai fatto male a nessuno. Le argomentazioni delle difese sono imbarazzanti quando dicono che i militari sono intervenuti perché c’era una scuola e l’ufficio postale lì vicino. Lui non ha mai aggredito nessuno, lui ha soltanto sbattuto i pugni contro una porta. Questo, di fatto, ha determinato l’intervento dei carabinieri che si è tramutato, anziché in un tso con l’intervento dei sanitari, in un arresto insensato e ingiustificato. Non c’era nulla che potesse giustificare un arresto. È emblematico l’atteggiamento di Vincenzo che quando gli vengono chiesti i documenti si spoglia per dire: “guardate io sono questo, non ho niente addosso, non sono armato”. Era una persona che aveva bisogno di aiuto, non una persona sulla quale esercitare la violenza di un arresto. Questo secondo me è assolutamente intollerabile. Vincenzo era conosciuto da tutti i carabinieri che sono intervenuti tranne uno e, in un paesino piccolo come Mirto Crosia, è surreale invocare la legittimità di quell’intervento».
E’ possibile, dunque, che l’immobilizzazione prolungata del giovane Sapia ne abbia provocato la morte?
«Vincenzo è morto per morte asfittica, come sono morti Riccardo Magherini, Federico Aldrovandi e Riccardo Rasman. Bisogna piantarla di trattare come delinquenti le persone che sono in difficoltà psichica e psichiatrica. Il problema è questo: il criminale vero, quando fa resistenza ma si rende conto di essere sopraffatto, si ferma perché ha la consapevolezza di ciò che gli sta capitando e dell’inutilità di ogni suo sforzo. Invece l’invalido psichiatrico che è terrorizzato e ha paura per la sua vita non si ferma mai. Anche quando è sopraffatto dalla forza fisica degli agenti continua a dimenarsi e ad agitarsi in maniera sempre più disperata e questo gli causa un bisogno di ossigeno sempre maggiore che non riesce a soddisfare se è messo in posizione prona o se è preso per il collo. Sono tutte posizioni e situazioni note da decenni». Secondo Lei, quindi, la morte di Vincenzo si poteva evitare?
«È una morte che si doveva evitare, perché non doveva essere arrestato. Ritenere una persona pericolosa perché è matta significa essere razzisti».
Quali nuovi scenari si aprirebbero se si arrivasse a un processo? Potrebbero esserci testimonianze che aiutino a ricostruire precisamente l’azione dei militari?
«Ci sono già delle deposizioni che poi sono state rettificate in corso d’opera e la genuinità delle rettifiche lascia molto perplessi, ma in ogni caso il corpo di Vincenzo Sapia parla chiaro. Se il giudice ha detto che bisogna stabilire il nesso causale che ha portato alla morte di Sapia mi pare evidente che abbia già espresso un chiaro giudizio sulla condotta dei militari. Confidiamo nel procuratore Facciolla e in una rapida richiesta di incidente probatorio». In Calabria lavora a un altro caso, molto più noto al grande pubblico; il procuratore ha chiesto l’incidente probatorio e quindi la riesumazione del corpo di Denis per nuove avanzate analisi: dopo 28 lunghi anni di attesa siamo finalmente ad un punto di svolta decisivo nella ricerca della verità sul caso del calciatore Bergamini?
«Si, siamo ad un punto di svolta e questo grazie al procuratore Facciolla che ringraziamo perché ha saputo ascoltarci e ha avuto una grande sensibilità. C’erano e ci sono gli strumenti medico-legali per fare chiarezza al di là di ogni ragionevole dubbio e per dimostrare quello che è successo a Denis Bergamini. Nel momento in cui si dimostrasse, come secondo me è dimostrabile, che era già morto o comunque in fin di vita nel momento in cui è stato sovrastato dal camion è chiaro che la posizione di Isabella Internò e Raffaele Pisano, il conducente del camion, diventa pesantissima».
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In copertina | Fabio Anselmo abbraccia Ilaria Cucchi
Il Pride di Cosenza è diventato un caso nazionale. Venerdì 12 maggio l’amministrazione comunale rappresentata dal primo cittadino Mario Occhiuto – lo stesso che dallo stesso ruolo firmò il patrocinio al “Calabria Pride” tenutosi per la prima volta in questa regione, a 20 anni di distanza dal primo Pride italiano, sabato 19 luglio 2014 a Reggio Calabria – stavolta, dopo non aver inteso incontrare gli organizzatori, ha deciso di negare il patrocinio gratuito alla manifestazione perché – si legge in una nota ufficiale – in disaccordo con la spettacolarizzazione delle scelte sessuali che tale evento comporterebbe. Mettendo da parte il dibattito di opinioni, spesso tribale, scaturito in questo fine settimana sulla questione, abbiamo ritenuto utile andare a ritroso per verificare i fatti e vedere se davvero di questo si tratta.
Lunedì 8 maggio è stato il primo giorno di una serie di eventi di avvicinamento che porteranno, praticamente in contemporanea con iniziative simili in tutto il mondo, al corteo previsto per il primo luglio. La senatrice Monica Cirinnà, firmataria della legge sulle unioni civili, è stata l’ospite d’onore prima nell’aula Caldora dell’Università della Calabria e poi al palazzo della Provincia. Molte (ma non tutte) le autorità al suo fianco, ma soprattutto tanti cittadini. Dopo una serie infinita di abbracci e selfie, siamo riusciti a incontrarla per porle alcune domande.
A quasi un anno di distanza dal DDL che porta il suo nome cosa pensa sia cambiato in Italia?
“Finalmente due persone che si amano non vengono discriminate solo perché appartenenti ad una coppia di persone dello stesso sesso. Due uomini e due donne esistono come famiglia, come coppia e come amore anche per il nostro Stato.”
Perché l’Italia è stata il penultimo paese europeo ad approvare una legge sulle unioni civili?
“Il nostro Paese vive dei conflitti culturali ed ideologici molto forti, ma la legge finalmente è arrivata ed è una legge piena dal punto di vista dei diritti.”
La legge approvata in Parlamento è però monca rispetto alla proposta iniziale.
“Manca tutta la parte sul riconoscimento della genitorialità e sul riconoscimento delle famiglie arcobaleno, certo, ma credo che questo Parlamento non abbia i numeri e una composizione sufficientemente laica e libera per affrontare i temi dell’eguaglianza che ancora manca a queste coppie. Sono convinta che con una spinta propulsiva molto forte che viene dalla società per un nuovo Parlamento sarà possibile arrivarci. Ora che la legge c’è ci vuole lavoro culturale, la normalizzazione di queste famiglie e di questi amori che non devono più fare notizia, come non fa notizia il mio matrimonio eterosessuale.”
La seconda attività delle iniziative previste ha preso corpo in un incontro formativo tenuto all’University Club ad Arcavacata di Rende, nel quale lo studioso Cirus Rinaldi, ricercatore a Palermo e autore del manuale “Sesso, sé e società. Per una sociologia della sessualità” (edito da Mondadori) ha discusso con Giovanna Vingelli, esperta di studi di genere e direttrice del Centro Women’s studies “Milly Villa” dell’Unical. Insieme a militanti e pubblico, gli esperti hanno discusso di come si viva tra sessualità, discriminazioni e analisi del sé. Con i tanti presenti si è approfondito, all’infuori di teorie e astrazioni, come le persone vivano il rapporto col proprio corpo e col sesso, cercando di capire quanto influenti siano le pressioni sociali in ambito sessuale.
Superato l’imbarazzo iniziale, interessanti spunti sono arrivati proprio dal pubblico in sala; qui abbiamo raccolto frammenti delle storie che ci hanno voluto testimoniare.
(Uomo, 21 anni)
“Io vivo con naturalezza la mia omosessualità, anche se ho cominciato ad accettarmi solo verso i 16, quando i miei ex compagni di classe mi prendevano in giro perché, secondo loro, ero troppo femminile. Quando ho scoperto la mia passione per l’arte ho cominciato a vivere meglio con me stesso e oggi posso dire di essere fiero di me. Ho iniziato ad avere le mie prime esperienze sessuali solo lo scorso anno, aspettavo qualcosa di importante e penso che vivere la propria sessualità sia un’arte. Credo che non ci sia nulla di peggio che essere repressi, rappresenta una mancanza e fa soffrire. In questo società superficiale la parola omosessuale è usata ancora come insulto, ti fanno sentire sbagliato e non adatto. Oggi l’omofobia è meno peggio che in passato, ma spesso parte da noi ed in questo modo rafforziamo ancora di più tutti quei pregiudizi stupidi e superare le discriminazioni diventa sempre più difficile”.
(Donna, 38 anni)
“Io mi sento di dire che non ha importanza se io sia eterosessuale o meno. Oggi vivo positivamente il rapporto col mio corpo soprattutto grazie agli studi che ho fatto, grazie ai quali ho superato gli stereotipi sull’eteronormatività e sull’essere binari. Gli stereotipi sono ancora cocenti, ma studiando e leggendo possono essere decostruiti. Per me il sesso è fondamentale, ma lo vivo in modo ludico, almeno per quel che mi riguarda non ha un valore identitario”.
(Uomo, 32 anni)
“Non ho mai pensato troppo spesso al rapporto col mio corpo, anzi non so se io lo conosca bene o meno, col tempo però ne ho meno cura. Ho sempre fatto poco caso all’aspetto e alla corporalità. Il sesso per me è fondamentale, ma spesso viene incastrato in altre dimensioni sociali, oggi non è più un elemento di conoscenza tra un uomo e una donna, ma un modo per non sentirsi soli. Il mio rapporto col sesso però è cambiato quando le mie relazioni sono diventate più sporadiche”.
(Donna, 31 anni)
“Ora vivo abbastanza bene il rapporto col mio corpo, da ragazza insicura ho comunque imparato ad accettare i miei difetti. In ambito sessuale non ho alcun tabù, ho una compagna da sei anni, tra di noi c’è una certa intimità e anzi ora stiamo provando anche a sperimentare cose nuove. La società purtroppo mi ha spesso influenzata negativamente e mi sono spesso scontrata con essa, ma oggi posso dire che sono come sono malgrado la società stessa”.
Insomma, in questi primi eventi ci sembra di aver raccolto elementi che fanno parte di un processo di consapevolezza civile, di emancipazione dalle pressioni sociali che, inutile nasconderlo, per molti in molte realtà provinciali continuano a essere soffocanti. In questa prima fase del Pride di Cosenza quindi tutto sembra andare in direzione contraria al vero oggetto del contendere, alla “spettacolarizzazione delle scelte sessuali”, che probabilmente è riferita alla parata del primo luglio. Ma per meglio capire il perché si sia sentita l’esigenza di proporre questa manifestazione in città e per fare un bilancio delle aspettative che ci sono su di esse, abbiamo incontrato una delle persone coinvolte nell’organizzazione di questo evento.
Si chiama Lavinia Durantini ed è la presidente di Eos Arcigay a Cosenza.
Questo sarà il primo pride della provincia bruzia. È ancora tempo di pride o è un’iniziativa non più in linea con i tempi?
“Il gay pride è nato in seguito ai moti di Stonewall, spinti dalla consapevolezza che si era privati di alcuni diritti per via del proprio orientamento sessuale. A differenza di ciò che si pensa, negli anni il pride ha acquisito un valore sempre maggiore, perché maggiore è diventata la consapevolezza che esiste un problema, che ancora non siamo tutti uguali nei diritti e che ancora non tutti possono essere totalmente liberi”.
Ma davvero il pride ha ancora oggi un valore così importante per la comunità LGBT (QIA)?
“Ancora oggi all’interno della nostra società sussistono delle discriminazioni e c’è una mancanza di diritti che colpisce i membri della comunità. Il pride rappresenta ancora oggi un’occasione per essere se stessi a 360 gradi, è una marcia dei diritti che rivendica l’orgoglio di non nascondersi, di non aver paura di esprimersi liberamente”.
Secondo il suo punto di vista, perché Cosenza è importante per questo pride e perché questo pride è importante per una città come Cosenza?
“Cosenza è importante per questo pride perché l’intera provincia si sta mobilitando per sostenere e supportare questa iniziativa e ogni manifestazione ha bisogno di suscitare l’interesse dell’intera società, altrimenti perde il suo valore reale. Questa marcia è importante per la nostra città perché è il primo pride che si svolgerà a Cosenza e sta tirando fuori un tessuto umano e sociale pronto ad accogliere e a confrontarsi con le diversità, è un’opportunità di apertura tutti”.
Perché avete scelto la forma “P.R.I.D.E.C.S.”, che tipo di evento vuole essere?
“Abbiamo voluto chiamare questo pride utilizzando l’acronimo che richiama Cosenza e non “gay pride” per sottolineare la natura inclusiva di questo evento. Vogliamo che sia un pride libero ed il pride di tutti quelli che vogliono partecipare, non solo un pride di pochi. Vuole essere un pride di tutti, infatti nasce dal basso, dalle proposte e dall’impegno di chi ci ha sostenuti fin dal principio. Vorrei spendere le ultime due parole per spiegare il significato del nostro acronimo, che non solo richiama l’iniziativa in sé e Cosenza, ma che racchiude in estrema sintesi anche il nostro manifesto politico”.
Prego.
“P vuole ricordare la prevenzione, ciò non significa che tutti gli omosessuali siano malati, ma che è giusto avere rapporti sicuri;
R di rivendicazione, il pride è appunto una marcia d’orgoglio per rivendicare i nostri diritti e le nostre libertà;
I come identità, un’identità che va oltre gli stereotipi e le solite contrapposizioni uomo-donna o eterosessuale-omosessuale, l’identità è più complessa di così;
D di difesa dei diritti che siamo riusciti ad ottenere o di diffusione di un nuovo modo di concepire la realtà;
E per ricordare l’importante svolta dall’educazione per combattere le discriminazioni e costruire una società ed un immaginario differente, più inclusivo;
C sta per comunicazione, che deve essere chiara, deve essere una comunicazione di arrivare a tutti per abbattere quei muri che ancora stanno in piedi;
S di servizi, come quelli che chiediamo alla Regione Calabria e agli enti locali, quei servizi indispensabili per chi subisce discriminazioni e violenze e per chi cerca risposte ai propri bisogni.
Questo non sarà il pride di qualcuno, noi vogliamo che questo sia il pride di tutta la città e di tutti quelli che ci stanno aiutando a dar forma a questo evento per noi tanto importante”.
La guerra in Siria dura ormai da anni. Aleppo non esiste più. I civili che continuano a perdere la vita durante i bombardamenti sono solo numeri. Uno scenario complesso, fatto di giochi di alleanze tra potenze occidentali, ma anche orientali. Alberto Negri, inviato speciale de Il Sole 24 Ore, questa guerra l’ha vista esplodere, crescere, ed è sicuro nell’affermare che se ne dovrà parlare ancora a lungo. Dopo un viaggio durato oltre trent’anni, ha portato in Italia le sue scoperte. Le ha trascritte, passo dopo passo, ne “Il musulmano errante“, il suo libro presentato lo scorso 20 aprile al Circolo Romano di Nuoto. Per capire come si è arrivati alla distruzione, bisogna ripercorrere le strade del passato. Quelle di oltre mille anni fa. “Era il 969“, quando in Siria iniziarono a formarsi le sette alawite. Un ramo della religione islamica molto diverso da quello di Sunniti e Sciiti. Gli alawiti credevano nell’esoterismo, nella trasmigrazione delle anime; pregavano fuori dalle moschee, celebrando cerimonie segrete con formule magiche, sia le donne sia gli uomini. Vennero sempre considerati dei miscredenti. Fino all’arrivo dei Francesi, che nel 1921 diedero vita a uno stato alawita. Iniziò la loro ascesa al potere: nel 1971, l’imamMusa Al-Sadr dichiara musulmani gli alawiti siriani e turchi. Crea una costituzione in cui non è necessario dire che a capo vi è un musulmano: “primo shock per i Sunniti siriani“. Nel 1973 scoppia la rivolta. La loro storia è stata occultata volutamente. I testi sacri sono tenuti segreti. A nessuno è permesso leggerli.
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Sullo sfondo del libro di Negri c’è la storia di Soleyman Effendi, che si convertì a sei religioni diverse per poi tornare a quella originaria dell’alautismo: “un momento fatale della sua vita; il momento fatale di questo libro, che forse vedrete nei prossimi mesi e nei prossimi anni“, spiega il giornalista.
“Il Medio Orienta ha bisogno di democrazia, ma prima che di democrazia, ha bisogno di giustizia”
Continuando il suo discorso, Negri fa poi riferimento a come vengono trattate e successivamente trasmesse le notizie che riguardano la guerra in Siria e soprattutto i morti civili: “di serie A e di serie B“. Ci sono periodi in cui sulle pagine dei giornali non si legge una sola parola su ciò che accade in Medio Oriente e “quando c’è una calma apparente, significa che succederà qualcosa di grosso”. Non c’è pace in questi luoghi che sembrano così lontani e che in realtà si trovano a soltanto un’ora di aereo dal nostro Paese. L’Italia osserva da lontano. O almeno è quello che vuole raccontare. Così come l’Europa, divisa più che mai in quest’ultimo periodo, proprio come la Siria.
«Con questi alberi sono cresciuto. Erano qui da molto prima che io nascessi, non posso permettere che li portino via».
Mario è sulla sessantina, abita a Melendugno e mentre mi parla agita vistosamente le mani. Mani grosse da contadino, che portano indelebili i segni della terra rossa del Salento. «Molte piante hanno già subito un pesante attacco negli ultimi anni, a causa della Xylella – aggiunge scrollando le spalle –, ma la malattia non si poteva fermare. I camion e le ruspe invece sì».
Siamo alle radici della protesta che occuperà le prime pagine dei prossimi mesi; da dove nasce? Per chi non è nato al Meridione non è facile comprendere la sacralità di un albero d’ulivo. Vedere queste piante maestose ingabbiate in un telo bianco o sradicate è un pugno nello stomaco. Basta guardare gli occhi grigi di Mario, incastonati nel viso arso dal sole, per comprendere che la battaglia contro il Trans Adriatic Pipeline è una questione di vitale importanza per i salentini. Ieri, ancora prima che arrivasse l’ufficialità del Tar del Lazio, i giornali diffondevano già la notizia del rigetto del ricorso della Regione Puglia che paventava “un pericolo di danno permanente all’uliveto” denunciando “l’incertezza del quadro autorizzativo sia in relazione allo spostamento dei 211 alberi dal tracciato sia dell’assoggettabilità alla Valutazione di impatto ambientale del progetto del microtunnel” che consentirà l’approdo del gasdotto da mare a terra. Una decisione attesa e prevedibile, alla quale il Movimento No Tap, che da 36 giorni presidia l’area del cantiere, era già preparato. I pochi giorni di tregua a cavallo delle vacanze pasquali sono stati dunque un’occasione per il comitato di organizzarsi per continuare la resistenza. Nei piccoli centri del Leccese, da Melendugno a Vernole, da Calimera a Castrì, le iniziative per le celebrazioni pasquali si sono alternate ad assemblee pubbliche che abbiamo potuto verificare come intense e molto partecipate.
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La sentenza parla chiaro su cosa sta per accadere: i lavori per il trasferimento dei circa 40 alberi che rimangono possono riprendere. “Essendo un’opera strategica per lo Stato”, le competenze in merito alla Valutazione di impatto ambientale ricadono con “competenza esclusiva” sul ministero dell’Ambiente, mentre la Regione Puglia viene indicata solo come ente vigilante.
Il punto allora è capire se si tratta davvero di un’opera così strategica, e strategica per chi. Non certo per gli abitanti del Salento che abbiamo potuto sentire.
«Si sta decidendo un’opera – ci spiega infatti Marco Santoro Verri (Movimento No Tap) – su un’intera popolazione che vorrebbe mantenere il suo sistema di sviluppo basato sull’agricoltura, sulla pesca e sul turismo, ma a cui viene imposto un processo di industrializzazione che non ha precedenti in questa zona».
Non si tratta, però, solo di motivi di natura geografica: nessun giardino pugliese è quello giusto per il gasdotto. Anche la proposta di mediazione sostenuta dal presidente della regione Puglia, Michele Emiliano, di uno spostamento dell’approdo del gasdotto da Melendugno all’area industriale di Brindisi dove comunque il Tap, attraverso ulteriori 55 km di condutture a terra dovrebbe arrivare per allacciarsi alla rete nazionale Snam, non convince. Su questo lo slogan del Movimento è abbastanza chiaro: “Né moi né mai, né qui né altrove”. Il Tap per gli abitanti del Salento è un’opera inutile che rappresenta solo una speculazione finanziaria. Una tesi confermata da molti esperti, ma anche dalle ultime inchieste giornalistiche, tra cui quella de L’Espresso, che si è avvalsa della collaborazione di giornalisti turchi e russi che per motivi di sicurezza devono rimanere anonimi. Gli interessi che ruotano intorno al Tap, finanziato dalla Commissione Europea per un totale di 45 miliardi di dollari, sono enormi e coinvolgerebbero, con strani intrecci societari transnazionali, aziende e manager legati a Vladimir Putin, Recep Tayyip Erdogan e al dittatore dell’Arzebaijan Ilham Aliyev. Meri motivi economici che non riescono a far emergere la loro strategicità, soprattutto se si considera che, secondo i dati diffusi dal ministero dello Sviluppo economico, il consumo di gas in Italia negli ultimi dieci anni ha subito un calo del 20 %.
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«Non possiamo permettere speculazioni a danno del nostro territorio – aggiunge Marco –, stiamo assistendo a una mobilitazione che sta coinvolgendo tutta la popolazione, con le famiglie e gli amministratori locali in prima linea a bloccare pacificamente, con i propri corpi, i camion». La lotta, infatti, sta coinvolgendo davvero interi paesi perché non riguarda solo pochi ulivi ma l’intera area.
«Il gasdotto – ci spiega Gianluca Maggiore (Comitato No Tap) – arriverà a 850 metri dalla costa della marina di San Foca per poi entrare a terra attraverso un micro tunnel interrato. Questo comporterà l’interdizione alla balneazione della spiaggia di San Basilio e il divieto di pesca e balneazione in questo tratto di mare». Un’operazione che, da progetto, prevede anche operazioni di dragaggio a mare e la creazione di una scarpata di 200 metri per accogliere il tubo del gasdotto. Interventi tutt’altro che leggeri e che peseranno fortemente sull’ambiente marino, come ci spiega la biologa marina Mila Boso De Nitto: «Il passaggio del microtunnel in mare causerà lo sconvolgimento dell’habitat marino ed una riconfigurazione dello stesso. Ciò potrà comportare 5 anni o più di fermo dall’attività ittica, con danni pesanti alla poseidonia e al coralligeno».
Insomma, la battaglia contro Tap – come conferma ancora Marco Santoro Verri, riportando le intenzioni del Movimento – è destinata a continuare e non si fermerà solo all’area del cantiere: «Gli ulivi sono diventati il simbolo di una lotta che è molto più ampia e che riguarda l’idea di sviluppo che si vuole per questo territorio e che non può essere calata dall’alto, con i soprusi e l’uso della polizia».
Perché non sconfiggiamo il califfato nero? Partendo da questa domanda, che potrebbe sembrare quasi retorica, ha avuto inizio l’incontro con Corrado Formigli, noto giornalista e conduttore del programma televisivo Piazza Pulita, che ogni giovedì sera va in onda su La7. Formigli, ospite nella terza giornata del Festival internazionale del giornalismo di Perugia, è stato intervistato dalla giornalista Barbara Serra, e assieme hanno ripercorso il contenuto del suo ultimo libro “Il falso nemico. Perché non sconfiggiamo il califfato nero”, pubblicato nel 2016 da Rizzoli.
“Il falso nemico è un nemico che si finge di combattere, ma che non si combatte realmente, sia per ragioni strategiche che geopolitiche.”
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Il falso nemico cui si riferisce Formigli è l’Isis, che inizialmente si scontrò bruscamente solo con i combattenti curdi, mentre le preoccupazioni dell’Occidente erano focalizzate ancora sulla crisi economico-finanziaria del 2007-2008. Secondo l’opinione pubblica però, esiste anche un altro nemico che si muove verso occidente, simboleggiato dai profughi che quotidianamente sbarcano sulle nostre coste. Movimenti xenofobi e populisti identificano in loro la principale causa del malessere economico e sociale che investe sia i paesi europei che americani. Per Formigli si tratta ancora una volta di un falso nemico; dal suo punto di vista infatti sono proprio i profughi a rappresentare una chiave di volta per fronteggiare il problema del terrorismo islamico. Questi uomini e queste donne, assieme ai propri figli e nipoti, sono spesso costretti ad abbandonare i propri Paesi d’origine per fuggire da regimi non democratici, proprio per questa ragione, secondo Formigli, dovrebbero essere inclini a collaborare per la definitiva eliminazione di Isis e per la diffusione di una nuova ondata di democratizzazione, capace di coinvolgere anche i paesi del vicino e Medio Oriente, adattandosi però alle caratteristiche culturali dei singoli territori, senza tentare nuovamente di esportare il modello della democrazia americana.
Da inviato di guerra, che ha sentito l’odore della carne bruciata in seguito ad un attentato e che ha camminato in una poltiglia umana, una delle sofferenze più grandi per Formigli sembra essere rappresentata dal fatto che, come ci confessa nel corso dell’incontro, “anche da morti abbiamo bisogno di avere il passaporto giusto affinché la nostra scomparsa sia un evento rilevante.” Formigli ci racconta che, dall’altro lato, spesso siamo noi occidentali ad essere considerati dei nemici da odiare, almeno finché non proveremo dolore per le sofferenze che affliggono anche altri popoli. Per il giornalista di La7, una delle possibili soluzioni alla radicalizzazione, fenomeno in crescita anche tra i giovani nati in paesi europei, come ad esempio la Francia, è rappresentato dall’inclusione sociale, possibile solo se si è disposti a convivere in un contesto multiculturale senza chiedere agli altri di rinunciare alle proprie tradizioni, nei limiti del diritto, come avviene nel sistema britannico.
Le scalinate della Sala dei Notari a Perugia sono scomparse. Sparite sotto la densa macchia di popolo che attende in fila di ascoltare la voce di chi da quattordici mesi chiede e cerca la verità sulla morte di suo figlio. Giulio Regeni, ricercatore, 28 anni, torturato e ammazzato al Cairo. Diversi pezzi di verità stanno venendo a galla, ma chi e soprattutto perché restano negli abissi.
Mamma Paola e papà Claudio entrano in sala, tutti si alzano in piedi. Un lunghissimo applauso. Il famoso telo giallo con la scritta nera “Verità per Giulio Regeni” stretto fra le loro mani. L’applauso non cessa, cresce, rimbomba più forte sulle pareti: tutti vogliono questa verità.
“In un regime di dittatura, banalmente, l’atto più eversivo è chiamare le cose col proprio nome: Giulio non è morto, è stato assassinato. Giulio non è scomparso, è stato sequestrato. Il governo egiziano non ha reso complessa la ricerca della verità, l’ha costantemente e ciclicamente deviata. Il ministro degli Interni egiziano ha mentito di fronte alla stampa internazionale, dichiarando che Giulio Regeni era nome ignoto e sconosciuto per il governo. È stato dimostrato che tutto questo è una menzogna”. Carlo Bonini, firma di punta a Repubblica, mette i puntini necessari a sgretolare, pezzo dopo pezzo, il “Muro di sabbia” (questo il titolo del dossier firmato Bonini e Foschini in edicola) costruito per nascondere la verità sui fatti.
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Un omicidio di Stato che per Paola “non si può accettare di chiamarlo caso”. Dopo Giulio sono salite infatti in superficie molte altre storie, tanti altri Giulio scomparsi, uccisi, dimenticati nel silenzio. La memoria corre alla prima telefonata dal Cairo. Paola e Claudio partono subito, non dicono nulla a nessuno. “Quando andammo al Cairo per la prima volta con Giulio, visitammo tutte le cose più belle. Quella volta, tutte quelle cose belle non c’erano più”, racconta dopo di lei papà Regeni. Si attendono notizie. Un’altra telefonata: è Maurizio Massari, l’ambasciatore italiano. “Stiamo arrivando”. Paola mette tutto in ordine, spolvera in tutte le stanze. Ha ancora la speranza che con loro, arrivino buone notizie. Squilla il telefono, di nuovo Massari. “Ritardiamo dieci minuti, ma non abbiamo buone notizie”. Era già finito tutto. Un’istante per capire che non avrà mai i nipoti da Giulio, cinque minuti prima che inizi il circo mediatico.
“Cinque minuti per dire tuo fratello, tuo nipote, il tuo migliore amico, il tuo fidanzato è morto, non è cosa da poco”. Inizia l’inferno. La lunga lotta che anche grazie ai social è diventata la lotta di tantissimi. “Verità e giustizia per Giulio Regeni” non è solo parole scritte nero su giallo. “Se dopo 14 mesi il caso non è stato archiviato è anche merito vostro” ha detto rivolgendosi al pubblico Alessandra Ballerini, avvocato che la famiglia ha ingaggiato proprio per difendersi dai media e con i media. “Abbiamo bisogno di sapere chi, ma soprattutto perché – ha detto la Ballerini – lo dobbiamo a Paola, a Carlo e a tutti i Giulio d’Egitto”.
Molti in sala si concedono alle lacrime. La forza – o meglio, la resilienza come l’ha definita il giornalista Giuliano Foschini – di una mamma a cui hanno ucciso il figlio senza alcun motivo. E se un motivo dovesse esserci stato nessuno ancora vuole dirglielo. Paola è arrabbiata, è stufa di non sentire nulla di nuovo. È stufa di sentir definire le sue reazioni come “elaborazione del lutto”. Perché “non esistono libri di psicanalisi che parlano dell’elaborazione del lutto di una mamma italiana ed europea a cui hanno torturato il figlio”.
Quel 25 gennaio 2016 Giulio uscì di casa per incontrare un amico che lo aspetterà invano. Perché quell’appuntamento, Giulio lo ebbe con la morte. Anzi, con l’inizio delle torture raccontate dal suo stesso corpo. La serata finisce come (secondo i tabulati delle indagini) è finita la vita di Giulio da uomo libero, con una canzone dei Coldplay: “A rush of blood to the head”. Magari un caso. Magari no.
Il giornalismo d’inchiesta in Italia sta scomparendo e quelli che davvero se ne occupano possono contarsi sulle dita di una mano. Emiliano Fittipaldi di L’Espresso è certamente uno di loro, ha firmato le inchieste più spinose di questi anni, dal Vatican gate al caso Marra – Raggi, ed ha tenuto uno dei più attesi workshop delle prime giornate dell’edizione 2017 del Festival Internazionale del Giornalismo a Perugia.
«Una delle malattie del giornalismo italiano è l’opinionismo, perché il giornalismo d’inchiesta è un’altra cosa, quello si occupa dei fatti».
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L’incontro nella superba Sala dei Notari è servito ad analizzare l’infinito braccio di ferro tra il giornalismo, quello che infastidisce e non abbassa la testa, e il potere in Italia. Non nasconde una certa preoccupazione, Fitttipaldi, volgendo lo sguardo al mondo del new journalism, in cui si sente dire ai ragazzi delle scuole di voler divenire firme raccontando le loro idee sul mondo. Nessuno sembra voler più cercare le notizie scomode, quelli che tanti vogliono tenere nascoste al cittadino: «Perché è molto più noioso, molto più complicato e rischioso». Perché in Italia la realtà è che se un giornalista dà fastidio, non si becca un Pulitzer e un film da Oscar, ma una denuncia. Dopo la denuncia passa a incassare minacce e immediatamente si ritrova a vivere sotto scorta. L’unica colpa: aver fatto bene il suo mestiere. Secondo dramma: la carriera. «Un giornalista d’inchiesta non fa carriera. Nessun di loro sarà direttore di un giornale in Italia. Questo in altri paesi, in America per esempio, non accade».
Finché l’opinione pubblica non sarà in grado di riconoscere e sostenere chi informa, i giornalisti si autocensureranno, rimarranno sotto i capi redattori che a loro volta sono sottomessi al potere. Fittipaldi elenca i processi ma anche molti feedback in questo senso:
«Se Fittipaldi fa un’inchiesta non è perché è libero e indipendente o perché ha cercato una notizia, ma perché sicuramente gliel’ha detto De Benedetti. Se la fa sulla Raggi è perché gliel’ha detto Renzi, a cui è legato De Benedetti, a sua volta legato al Pd. Se invece la fa su Renzi, è perché Fittipaldi ha capito che vinceranno i grillini e deve tenersi pronto».
Ma allora, giornalismo e potere – se da fuori sembrano essere così intrecciati – cosa temono di più l’uno dell’altro?
«Il potere deve temere il giornalismo fatto bene, perché in Italia c’è un potere che difficilmente si caratterizza di trasparenza. Il giornalismo, invece, deve temere dal potere alcune censure che sistematicamente vengono imposte ai giornalisti e deve essere capace di combatterle con più coraggio e più forza».
Non ha alcun dubbio Fittipaldi mentre risponde alla domanda. Certo è che a volte i dubbi servono: se non ne avesse avuti, dopo aver letto un pezzo di Dagospia, non avrebbe scritto i suoi due libri Avarizia e Lussuria. Terzo germe è, infatti, la mancanza di curiosità. Le inchieste nascono così: trovi la notizia che ti incuriosisce e ci entri dentro. Scavi, indaghi, cerchi la verità finché non la trovi. Dopo, arriva il lavoro più faticoso: pubblicare. “Io non pubblico se non ho le carte”, servono le prove, sempre.
Qualcuno gli ha chiesto se ha mai avuto paura: “Se un giornalista d’inchiesta ha paura, ha perso in partenza“. In conclusione nel kit di sopravvivenza non devono mancare: curiosità, coraggio e, se serve, la pazienza di essere sicuri di vincere. In caso contrario, il potere ti spezza il braccio.
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In copertina: foto di Alessandro Migliardi per Ijf17
Do un colpo di tosse, la gola graffia, riesco a malapena a parlare. Mi inserisco un millimetro alla volta nel flusso di gente che esce. “Chi bravu stu guagliune” commenta la signora sulla sessantina con la permanente rivolgendosi alla sua amica con una pettinatura ancora più vistosa. “Passami il mantello nero, il vestito da torero, oggi salvo il mondo intero, con un pugno di poesie” canta un coretto improvvisato di tre ragazze che più in là avanza un passo alla volta ondeggiando le teste sulla metrica della canzone.
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Questa volta le generazioni si sono mischiate e hanno applaudito insieme, ci sono tutti dai nonni ai nipoti, non è più adolescente il suo pubblico, come ammetteva anche lui ai tempi del mitico Vol.1. Nella penombra, dal mio sedile vedevo professionisti in abiti da gran serata che si abbandonavano a balli a braccia alzate cantando insieme al vicino di posto. Come Amelie mi giravo a guardare gli altri spettatori durante le canzoni e tutti – alcuni più compìti altri più plateali – muovevano le labbra insieme a quelle di Dario Brunori. Luci, scenografia e sonorità hanno assunto l’autorevolezza dei grandi concerti, ma Dario è rimasto il giocherellone di sempre. Fa ridere di gusto tutte le generazioni con un umorismo genuino e imbastisce un duetto tenero e divertente con il nipote di tre anni in grembiule e chitarrina il cui carisma sul palco promette un futuro da esaltatore di folle.
Coinvolge nel concerto gli altri artisti della sua città come la splendida voce di Aldo D’Orrico (in arte “Al The Coordinator”) che apre e i fiati dei Takabum che accompagnano in qualche pezzo, mentre gli altri musicisti applaudono fra il pubblico. Dopo le canzoni del nuovo album “A casa tutto bene” la Sas per voce del suo amministratore delegato introduce i pezzi degli album precedenti a modo suo: “…sì, vabbè tanto lo sappiamo che i pezzi vecchi erano meglio”. Parte “Come stai” e poi una splendida versione pianoforte e voce di quella che è “Piccolo grande amore” per Baglioni o “Vita spericolata” per Vasco Rossi: le note malinconiche di “Guardia 82” danzano sulle teste di chi è seduto in platea insieme al coro unisono di tutto il teatro, rendendo quel momento perfetto.
All’uscita la gente si saluta e si abbraccia in un clima di famiglia. Famiglia, è proprio la parola che descrive meglio l’atmosfera che la tappa cosentina del tour nazionale della band cosentina ha creato ieri sera. Mio fratello Dario ha cantato le sue canzoni, ha fatto le sue battute e ha dialogato con il pubblico in dialetto abbattendo quella barriera di divinità fra il cantante e il pubblico che si sente in altri concerti. Con Mammarella sas in platea, il nipote sul palco e gli amici di una vita ad applaudirlo non era difficile sentirsi a casa, ma la popolarità troppo spesso ha effetti alienanti sulle persone che ne sono colpite. Invece Dario è ancora Dariù e abbraccia la sua città come faceva prima di comparire da dietro le quinte tecnologiche degli studi Rai annunciato da un presentatore. La sua città ricambia. E’ stato per me come dovrebbe essere un concerto, dove si canta fino a graffiarsi la gola, si ride ad alta voce e dove si sente che quella persona sul palco ti è vicina perché canta quello che tu vorresti dire, perché cresce insieme a te e perché mette in rima le tue inquietudini e le tue gioie con le tue stesse parole. Le sue “stupide canzoni” mi piacciono perché riescono in tutto questo rumore, in tutto questo dolore, a ricordarmi chi sono.
«Il giornalismo è una professione in cui conta molto la passione, ma questa passione merita di essere giustamente retribuita. Il 40 per cento degli oltre 35mila giornalisti in Italia, per lo più under 35, ha un reddito inferiore a 5mila euro. Il tema della precarizzazione e della dignità professionale impone riflessioni e azioni non più procrastinabili». Parola di Pietro Grasso. La seconda carica dello Stato ha deciso così di dare il via alla II Edizione dell’Osservatorio sul giornalismo intervenendo nella Sala Zuccari di Palazzo Giustiniani a Roma. Noi c’eravamo e abbiamo potuto ascoltare con attenzione e dare conto di un’analisi dettagliata sulla crisi e l’evoluzione del mondo dell’informazione italiano, fatto sempre meno di carta stampata e notizie di qualità e sempre più di social media e quello che viene definito surplus informazionale.
Il Presidente del Senato Pietro Grasso apre i lavori dell’Osservatorio sul giornalismo.
Come si può evincere da questi grafici il livellamento in discesa è certo e ha distorto il valore di un mondo i cui mutamenti sono notevoli. Il dato più importante: dal 2010 ad oggi sono oltre 4mila i giornalisti che non lavorano più. I giornalisti attivi in Italia sono 35.619 e la loro situazione non è buona. La categoria è stata statisticamente divisa in cinque gruppi, tre per gli uomini e due per le donne. Per gli uomini il primo è quello dei giornalisti dipendenti (23%, guadagnano fra i 20 e i 70 mila euro); i freelance (20%, guadagnano fra i 5 e i 20 mila euro) e gli idealisti (21%, reddito fino a 5mila euro). Per le donne sono state individuate le emergenti (18%, reddito dai 20 ai 70mila euro) e le precarie (18%, reddito fino a 5mila euro). Il lavoro dipendente ha ceduto il passo a quello autonomo ormai da anni e vengono a galla profonde differenze fra insider (prevalentemente dipendenti uomini oltre i 40 anni di età) e outsider (prevalentemente donne e giovani, tutti subordinati o autonomi). Secondo il rapporto la maggior parte dei giornalisti in Italia va verso la tendenza di non guadagnare oltre i 20mila euro all’anno e di questi solo piccole parti di autonomi e subordinati potranno farcela. Nella professione del giornalista in Italia oggi il rischio occupazionale e la precarietà sono elementi critici che superano tutti gli altri possibili messi insieme: questo dice lo stato delle cose. Altro rilevamento assai significativo quello che indica l’aumento degli iscritti all’Ordine dei giornalisti: dal 1975 ad oggi è stato del 308%. Insomma, mentre diminuiscono drasticamente i contratti e le garanzie aumentano a dismisura gli aspiranti giornalisti. Un’anomalia tutta italiana che vediamo in un’altro dato: se nel 1975 i pubblicisti rappresentavano il 47% circa degli iscritti all’Albo al netto di praticanti, stranieri ed elenco speciale, tale percentuale è andata crescendo negli ultimi 40 anni fino a rappresentare oggi il 67% degli iscritti. Il rapporto è molto interessante; realizzato dal Servizio Economico-Statistico dell’Agcom (Autorità per le garanzie nelle comunicazioni), si focalizza sugli aspetti fondamentali della professione giornalistica.
Potete leggerloqui in versione integrale e di seguito nelle infografiche che abbiamo ritenuto più interessante estrapolare. L’analisi è partita dagli aspetti socio-demografici dei giornalisti attivi in Italia, la loro attività lavorativa e professionale fino alle criticità riscontrate dagli stessi sul campo. Criticità che dovrebbero essere sanate dalla legge italiana, per definizione rivolta a perseguire l’obiettivo di un’informazione libera e al servizio della collettività.
L’Osservatorio è stato presentato e spiegato da Marco Delmastro, direttore del servizio-statistico dell’Agcom, che ha spiegato come l’aumento di testate online non sottoposte a controlli adeguati abbiano causato l’aumento delle fake news. Inoltre, sempre secondo l’esperto, «negli ultimi anni è stato registrato un aumento del chilling effect e molte notizie non vengono nemmeno prodotte». Questa espressione arriva dagli Usa e indica il fenomeno dell’autocensura, in particolar modo in presenza di leggi che scoraggiano con il timore di una sanzione la libera espressione. Il convegno è proseguito con gli interventi di Angelo Marcello Cardani e Mario Morcellini, rispettivamente presidente e commissario dell’Agcom; Paola Spadari, Presidente dell’Ordine dei Giornalisti del Lazio; Virman Cusenza, direttore de Il Messagero; Lucia Annunziata, direttrice di Huffington Post Italia; Philip Willan, presidente della stampa estera e Federica Angeli, giornalista di Repubblica.
L’esperienza riportata da quest’ultima è stata particolarmente d’impatto nella descrizione di un universo giornalistico difficile, che può mettere paura soprattutto ai giovani che intraprendono questa carriera. Da quattro anni, infatti, per le inchieste che ha portato avanti, la Angeli è costretta a vivere sotto scorta, privata della sua stessa libertà, a causa delle molteplici minacce che le ha rivolto la criminalità organizzata. «Se non hai davvero passione non puoi essere un giornalista. Davanti a una scelta: poso la penna o continuo, io continuo, nonostante intimidazioni e paura», queste le sue parole più intense, sostenuta da tutti i colleghi presenti. Anche secondo Philip Willan, infatti, «serve un giornalismo forte e autorevole, che in questo momento manca». Il giornalismo deve cercare, scavare a fondo nelle cose, soprattutto quelle più scomode. Ma come si diventa degni portavoce della verità? «Bisogna sapersi sporcare le mani – ha concluso Federica Angeli – entrando in quella realtà che ti fa girare la testa per quante cose ci trovi dentro».
Si definisce “operatrice silenziosa” della memoria e dell’impegno. E guai a usare “l’io”. Nancy Cassalia 22 anni di Lamezia Terme (Cz), studia Giurisprudenza all’Università Magna Grecia di Catanzaro ed è responsabile del settore giovanile per l’associazione Libera – nomi e numeri contro le mafie in Calabria. Fedele all’insegnamento di don Luigi Ciotti, crede nella forza della comunità e nella corresponsabilità, «perché la lotta al fianco dei familiari delle vittime innocenti delle mafie per pretendere dallo Stato verità e giustizia deve riguardare tutti». Sui suoi profili social scrollano in rassegna le attività di formazione nelle scuole e i tanti raduni giovanili a cui ha partecipato e che ha organizzato in vista di questo tanto atteso 21 marzo, Giornata nazionale della memoria e dell’impegno, ma dice di avercela con chi «si riempie la bocca della parola antimafia, che non significa niente se non per molti solo una bandiera da sventolare all’occorrenza».
Nancy Francesca Cassalia, 22 anni, in una manifestazione di Libera.
Cosa significa per te che dopo 10 anni il 21 marzo ritorni ad essere celebrato nel tuo territorio?
Nella Locride ci sono stati decine di omicidi e tanti familiari aspettano ancora giustizia. Dimostriamo che esiste una Calabria più forte della ‘ndrangheta. In molti pensano che i clan siano “dormienti” solo perché non sparano più. Anche se gli ultimi omicidi di mafia a Locri sono stati nel 2005, quando uccisero prima Gianluca Congiusta poi Francesco Fortugno. Senza dimenticare i piccoli Dodò, Domenico Gabriele e Cocò Campolongo, uccisi rispettivamente nel settembre 2009 a Crotone e nel settembre 2015 a Cassano allo Jonio, nel Cosentino. Allora tutta la comunità si ribellò. Ma alla ‘ndrangheta oggi non conviene più spargere sangue per le strade, non serve più intimidire perché attirerebbe troppa attenzione. Piuttosto agisce sottotraccia e continua a controllare il territorio. Dobbiamo dimostrare che noi calabresi sappiamo essere comunità, che sappiamo difendere la nostra meravigliosa terra. Contribuiamo tutti a far sorgere il bello, come recita quest’anno il titolo della Giornata, dovremmo essere tutti “testimoni di bellezza”.
La Giornata della Memoria e dell’Impegno è stata istituita ufficialmente dal Parlamento come data nazionale. Era una delle battaglie più importanti di Libera. Come valuti questo risultato?
Quella legge è monca. Non so neanche se definirla una vittoria a metà. Manca un aggettivo fondamentale: “innocenti”. In questo modo un mafioso che è stato ucciso in un regolamento di conti è equiparato a quei cittadini onesti che si sono opposti ai clan. Proprio perché ci siamo battuti in questi anni, individuando una data simbolica, il primo giorno di primavera, che potesse accomunare tutti i familiari con cui lavoriamo da tempo, questa legge per molti di loro è come uno schiaffo. Continueremo a batterci per ottenere il riconoscimento delle vittime innocenti. Non è una sottigliezza.
I clan in Calabria non sparano più, ma controllano il territorio anche con le scritte sui muri. E Libera qui come risponde?
Esistono i presidi che lavorano a stretto contatto con i coordinamenti ed è una rete che si fortifica ogni giorno. Riusciamo a organizzare diverse attività, andiamo nelle scuole a fare progetti con gli studenti. Li facciamo incontrare con i familiari delle vittime innocenti, e poi i ragazzi devono produrre un racconto sulla storia che hanno ascoltato per solidificare la memoria. In questi mesi con il coordinamento di Catanzaro abbiamo svolto attività di formazione in venti scuole della provincia. Anche in zone socialmente molto difficili e abbandonate come il quartiere Pistoia, dove vivono prevalentemente famiglie di etnia rom. Ed è stato proprio lì che sono successe cose importanti, molti giovani rom hanno partecipato ai nostri seminari in chiesa grazie alla collaborazione delle famiglie.
Nancy in un incontro di Libera con le scuole.
Perché hai scelto di impegnarti con Libera?
Ho partecipato a un campo estivo di Estate Liberi a Isola Capo Rizzuto nel 2013. Una delle esperienze più belle della mia vita. Ho toccato con mano la mia terra, in tutti i sensi. Mi alzavo presto al mattino insieme al resto del gruppo e si andava a lavorare nei campi dei beni confiscati. Ho conosciuto da vicino quella realtà, ho visto che esisteva una Calabria attiva, tanti giovani provenienti dalle altre province e dal resto d’Italia che con il loro impegno seminavano speranza. Così ho deciso che il mio percorso doveva proseguire e tempo dopo mi misi in contatto con Rocco Mangiardi, testimone di giustizia a Lamezia Terme per costituire un presidio nella nostra città. Progetto al quale stiamo ancora lavorando.
Il tuo territorio viene descritto come uno dei più difficili, fin dove è vero?
Lamezia è un territorio estremamente complicato. Tra l’altro nell’ultimo anno si sono verificati nuovi atti intimidatori e strani omicidi. La scorsa estate hanno incendiato i terreni della Cooperativa Le Agricole che fa capo alla Comunità Progetto Sud di don Giacomo Panizza. Vuol dire che c’è stato un ricambio nelle famiglie mafiose, perché molti boss e affiliati sono stati arrestati dalle Forze dell’Ordine, quindi bisogna capire chi c’è dietro questi episodi. La nostra rete di associazioni è solo uno strumento per raggiungere uno scopo superiore: riscattare la nostra terra e tutto il paese dalle ingiustizie. Per questo andiamo nelle scuole a incontrare gli studenti. Recentemente in un Istituto di Catanzaro un ragazzino di 12 anni mi ha detto “con le tue parole mi hai fatto capire da che parte stare”. È stato emozionante, sono piccole cose che mi danno ancora più determinazione ad andare avanti. Infatti credo che nelle scuole non ci si dovrebbe limitare alla didattica classica, ma prevedere laboratori improntati alla cittadinanza responsabile. In territori complicati come Lamezia sarebbe davvero utile.
Con don Luigi Ciotti hai mai parlato?
Si, due anni fa, in occasione del 25esimo anniversario dell’omicidio dei netturbini Francesco Tramonte e Pasquale Cristiano. Libera è una grande famiglia. Siamo un enorme “noi” collettivo. Don Luigi è venuto a Lamezia e abbiamo passato un’intera giornata insieme per un incontro che ho moderato io dove interveniva lui e i familiari delle vittime. Alla fine del mio intervento introduttivo mi ha abbracciato e ho trattenuto a stento le lacrime.
Dove e come lo vedi il tuo futuro?
Come si può immaginare mi piace molto il diritto penale e dopo l’Università vorrei intraprendere la carriera di magistrato, per questo vorrei andare a Napoli per entrare nella Scuola Superiore di Magistratura.
(BUENOS AIRES) La settimana appena conclusasi qui ha segnato un confine tra l’estate e l’autunno. Cosa ha di particolare questo confine temporale? Da una parte l’accettazione della sua esistenza, dall’altra il suo rifiuto. Nei termini della settimana trascorsa, si traduce con un caldo che non appartiene a disquisizioni climatiche e per stagione, e al fresco che non di certo fa riferimento ad un termometro sociale, che invece segna una evidente idiosincrasia tra la politica economica e sociale del governo di Cambiemos, liderato dall’imprenditore Mauricio Macri, e lo stato reale del paese, alle prese con aumento del costo della vita, contrazione del potere acquisitivo dei salari e una crisi lavorativa in vari settori dell’industria. Da questa mancanza di accordo sul cammino da intraprendere nella vita quotidiana, si sono determinati tre giorni di sciopero, aperti da uno protesta insolita per la vita argentina, lo sciopero del calcio.
Domenica 5 marzo, ore 14 e 45. Scioperano i calciatori
L’assemblea dell’Afa vota per cancellare “futbol para todos”.
L’assenza è di quelle che si fanno notare, il calcio ogni giorno sembra quasi ronzare per le strade di Buenos Aires; come ritmo di vita scandisce ogni passo e passaggio per le vie della città che nasce e dà le spalle al Rio del Plata: è la voce del pueblo. Il calcio ha scioperato di domenica, nel suo giorno sacrale, istituito quasi per legge divina, raccontata da voci che perdono il sonno della siesta, ansiose di raccontare la gioia, la magia di un tocco, nell’attesa dell’inaspettato che farà gridare migliaia di gole. Forse, come in un racconto di Fontanarossa, se ci fosse stata la ripresa del campionato, molti problemi dell’Argentina non avrebbero avuto il tempo di essere così ampiamente discussi. A fermarsi sono state duecento società professionistiche, che reclamano il pagamento degli stipendi ai calciatori. La situazione è difficile, visto lo stato di profonda crisi di numerose società e la irrisolta questione dei diritti televisivi che coinvolge in prima persona il primo ministro [1]. Nei giorni seguenti allo sciopero, lo stato ha pensato di risolvere con l’erogazione di 362 milioni di pesos (305 mln erogati dal governo, 40 mln erogati da Trisa[2], 7 mln da TyC, per i diritti televisivi esteri, e 10 mln che arrivano dalla compagnia petrolifera privata Axion Energy, che figura come sponsor del campionato) erogati nelle casse dell’AFA (Asociaciòn futbolistica Argentina), al fine di pagare i debiti contratti nei confronti dei calciatori associati e la rescissione del contratto del programma Fútbol Para Todos[3], che riguarda i diritti di trasmissione televisiva delle partite. Tuttavia restano in sospeso 1.200 milioni di pesos che verserà il vincitore dei diritti televisivi. Il primo sciopero, di conseguenza, è rientrato domenica 12 marzo, con la ripresa del campionato. Come conclude Gustavo Veiga dalle colonne di Página 12, «Al fútbol nadie le bajará la persiana. Eso está claro»[4].
6 marzo, ore 7 e 53. Si fermano gli insegnanti
“Il maestro che lotta sta anche insegnando”.
Gli scioperi con maggiore rilevanza sociale non sono stati quelli nelle sale riunioni dei miliardari: sono quelli dei docenti, degli operai e delle donne, avvenuti nei primi tre giorni della settimana, riconsegnando alla città un’altra delle voci che la caratterizzano, la voce dei tamburi, che penetra nelle vie e sembra risuonare anche quando non c’è traccia di manifestazione. La crisi della scuola pubblica in Argentina è un tema che si affronta da diverso tempo. Sempre più maltrattata, con carenza di fondi anche per le infrastrutture e di sostegno per le famiglie in difficoltà economica, porta diverse forze sociali a prendere una posizione. Las Madres de Plaza de Mayo, ad esempio, hanno avviato una raccolta di materiale basico da distribuire agli studenti che non riescono a comprare un kit per iniziare la scuola. Affermando che «tuttavia servirebbero anche i banchi nelle scuole», evidenziano la carenza di risorse. Tuttavia lo scontro verte sull’aumento del salario nei tavoli di trattativa tra Governo e los gremios (i sindacati) che raggruppano i docenti. L’aumento dell’inflazione – che nel 2016 ha raggiunto il 40% -, l’aumento del costo della vita, determinando una perdita del potere d’acquisto dei salari. Pertanto la proposta avanzata dai sindacati è quella di un aumento del 35%, mentre il governo pone un tetto del 18% – valore dell’inflazione che il governo prevede di raggiungere a fine anno -, una controproposta che ignora la perdita del potere d’acquisto registrato in tutto il 2016. Il risultato è stato una mancata negoziazione e uno sciopero di 48 ore che ha ritardato le aperture delle scuole pubbliche. In questo modo, lo sciopero è continuato anche per il 7 marzo.
7 Marzo, 0re 6 e 34. Braccia incrociate per gli operai
Una delle numerose organizzazioni in marcia il 7 marzo.
Il 7 marzo le strade di Buenos Aires si sono nuovamente bloccate. La protesta ha occupato le strade principali della capitale in una marcia che prevedeva più punti di partenza e una destinazione: il Ministero della Produzione. Molti dei manifestanti non sono mai arrivati alla fine del tragitto per la moltitudine delle persone presenti, un’organizzazione impeccabile delle varie colonne di manifestanti, con una nota negativa avuta nell’indegno tafferuglio finale della manifestazione tra gli stessi dirigenti delle varie correnti della CGT[5], in cui si vive un clima teso per disparità di vedute che poco hanno in comune con la dignità e la lotta di classe che sta intraprendendo la base. Tuttavia allo sciopero hanno partecipato molte sigle politiche, non riconducibili tutte alla CGT, e neanche al blocco kirchnerista. La manifestazione ha così risposto non tanto alla chiamata della CGT, bensì al rifiuto popolare delle politiche del macrismo. Sono queste politiche il fulcro del grande sciopero: gli aggiustamenti strutturali del governo in stile neoliberista, la flessibilità del lavoro, i licenziamenti in aumento, fabbriche che chiudono o sul lastrico per l’apertura non controllata delle importazioni, l’inadempimento della legge di emergenza sociale. Una inchiesta uscita sulle colonne del Tiempo Argentino, nell’ottobre 2016, segnala come la metà dei salari legali si attesta sotto la linea della povertà, cioè sono salari inferiori ai 12.489 pesos (equivalenti a 755 euro), che secondo l’Encuesta Permanente de Hogares dell’Indec (l’istituto di statistica argentino) rappresenta l’ammontare necessario a una famiglia per affrontare le spese alimentari, di trasporti e servizi minimi. A questo si deve aggiungere l’attacco frontale del governo lanciato contro le “fabbriche recuperate”, con un nuovo decreto che favorisce gli imprenditori che avevano portato la fabbrica alla chiusura.
8 marzo, ore 18 e 13. La marcia delle donne
Le donne argentine hanno sfilato ricordando le vittime di femminicidio
L’8 marzo è stato il giorno della manifestazione più attesa. Già annunciata da tempo, ha riproposto un corteo immenso, dopo quello del 17 ottobre, con molteplici argomenti, attraversano il quotidiano nazionale ed internazionale delle donne, completando tre giorni di intensa mobilitazione, affrontando anche tematiche trasversali alle giornate precedenti. Convocata da NiUnaMenos, la marcia ha reclamato contro la violenza machista, le conseguenze degli aggiustamenti economici che hanno riportato l’Argentina sotto la supervisione del FMI (non entrava in Argentina dal 2003) e la libertà di Milagro Sala, prigioniera politica leader dell’organizzazione Tupac Amaru, in carcere da 417 giorni senza che ci sia stato processo. Un caso, quello di Milagro Sala, che appare come un “uso arbitrario della Giustizia che penalizza oppositori e criminalizza le proteste”, affermano diverse sigle, afferenti ai movimenti per i diritti umani, sindacati e partiti politici della sinistra e che ha fatto pronunciare a favore della sua liberazione anche le Nazioni Unite. In ottobre il numero di femminicidi in meno di tre settimane raggiungeva quota 19 vittime. In Argentina, si attesta che 1 donna viene assassinata ogni 18 ore. Al centro della protesta che ha visto sfilare l’enorme corteo dal Congreso fino a Plaza de Mayo, anche la necessità di legalizzare l’aborto “sicuro e gratuito”, così come un forte accento sull’ingerenza della chiesa (cattolica ed evangelista) nel non promulgare leggi che riguardano le politiche di genere. Tra gli otto assi dello sciopero dell’8-M, letti in Plaza de Mayo, anche la necessità di parlare di lavoro in chiave femminista, in cui si appoggiano le lotte scese in piazza nei giorni precedenti, la reincorporazione delle persone licenziate, così come il riconoscimento economico del lavoro domestico e riproduttivo che le donne realizzano in forma gratuita.
Nella piazza non sono mancati momenti di tensione, come spesso accade, davanti la Cattedrale porteña, che ha visto coinvolti un piccolo gruppo di persone, ma che ha avuto forte risonanza grazie a reti come TeleFe e Canal13 di inclinazione oficialista (filo-governative), nel tentativo di screditare una marcia più che riuscita, con forti e precise richieste politiche. Dall’altra parte, la posizione del Governo si concretizzava nel sostenere che “non c’è motivo di scioperare”, riferendosi ai primi due giorni di protesta, mentre sull’8 marzo, il presidente Macri, assieme alla governatrice di Buenos Aires, Maria Eugenia Vidal, hanno trascorso la ricorrenza in una mensa comunitaria, in un’immagine tradizionale della festa della donna, senza alcuna allusione alla marcia e allo sciopero internazionale, ma concludendo la giornata nella mensa ringraziando le donne per «averci messo al mondo, per darci tanto amore», insomma il focolare casalingo è stato riscaldato. Non lontani, pertanto, sembrano essere gli anni in cui Macri affermava che «in fondo alle donne piace sentire complimenti, […] incluso quando si tratta di grosserie». Ma c’è poco da scherzare: le promesse fatte dai governatori (nazionale e provinciale) non sono state seguite da azioni concrete fino ad ora.
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[1] Basti pensare alla recente notizia dei 70 milioni di pesos di debiti del Correo Argentino di proprietà della Famiglia Macri, condonati e perdonati dal governo, rappresentato dallo stesso Macri – Mauricio – anche lui con un passato importante nel mondo del calcio, quale ex presidente del Boca.
[2] Società del gruppo Clarín (impegnato al momento nel licenziamento del settore grafico AGR Clarín) y Torneos y Competencias (TyC)
[3] Il programma Fútbol Para Todos permetteva l’emissione delle partite attraverso i canali della televisione aperta, dal 2009.
[4] Veiga Gustavo, Vuelve el fútbol después de 80 dias, Página 12, 9 marzo 2017. “Al calcio nessuno abbasserà la saracinesca. Questo è chiaro”.
“Se le nostre vite non valgono noi scioperiamo”, questo lo slogan principale del movimento #NiUnaMenos (Non una di meno in Italia), che l’8 marzo ha trovato eco nelle piazze di almeno 50 paesi del mondo ed in innumerevoli città italiane. Quella che più ha impressionato è stata la marcia a Montevideo, in Uruguay; Mmasciata.it ha trasmesso in diretta attraverso i suoi canali social la marcia del corteo partito dal Colosseo a Roma, io ho partecipato a quella organizzata tra Cosenza e la sua università.
All’Unical si è occupato dell’organizzazione dello sciopero il Comitato Unico di Garanzia, in collaborazione con il Centro di Women’s Studies “Milly Villa” assieme al Centro antiviolenza “Roberta Lanzino”. Le motivazioni dello sciopero sono differenti, accomunate però da un problema comune: l’ancora irrisolta questione della diseguaglianza di genere. Questioni centrali, oltre alla violenza di genere, sono ad esempio il cosiddetto gender wage gap, la richiesta di maggior sostegno ai centri antiviolenza, anche se uno dei temi più caldi, almeno in Italia, è la rivendicazione del proprio diritto di usufruire di quanto stabilito dalla legge 194/1978 in tema di aborto. Delle pensiline dell’università intorno alle 11 è partito il corteo, che ha percorso l’intero ponte, tra uno slogan ed un altro, fino ad arrivare in piazza Vermicelli. Donne e uomini hanno scioperato assieme sotto la pioggia, una piccola folla, guardata con relativo sospetto dai passanti, che hanno scelto di non aggregarsi. Se tutti, almeno si spera, condividono i motivi della lotta, in molti hanno considerato l’evento “inutile”, seppur per ragioni diverse. Secondo alcuni, ad esempio, è necessario lottare assieme per sovvertire il sistema capitalistico ed instaurare il socialismo, perché questa è l’unica strada possibile da percorrere per superare le diseguaglianze di genere. Oppure ancora, il movimento femminista, per qualcuno, dovrebbe autolimitarsi e comprendere che esistono problematiche più gravi ed urgenti di cui occuparsi. La lotta però, come suggerisce un uomo che ha preso parte al corteo, ha senso ed è indispensabile all’interno di questa società, ma è necessario inserirla in un contesto più ampio perché le discriminazioni di genere sono schemi sociali creati nel corso della storia.
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Nel pomeriggio, verso le 17, la manifestazione si è spostata a Cosenza, partendo dal Comune per arrivare a piazza Kennedy, percorrendo l’isola pedonale di Corso Mazzini. Il corteo era certamente più numeroso e, fortunatamente, non mancavano gli uomini ed emozionante era vedere le bambine ed i bambini manifestare assieme ai propri genitori e nonni. La manifestazione in sé ha mostrato una città attenta, certamente consapevole dell’esistenza di un problema, ma l’interesse dimostrato potrebbe esser stato mosso da passioni passeggere e domani, finita la ricorrenza (nessuno vuole demonizzare le date simboliche), c’è il rischio che si torni a normalizzare tutti quei comportamenti discriminatori oggi condannati.
È stato un tentativo di lotta che ha richiamato all’attenti un certo strato di popolazione e ha mostrato uno dei pochi aspetti positivi della globalizzazione. Come suggerisce un manifestante, l’idea di scioperare assieme in diverse parti del mondo dimostra come sia possibile riuscire ad ottenere una globalizzazione non solo dei mercati, che forse è meno positiva, ma anche e soprattutto dei diritti. La giornata ha mostrato però anche i suoi limiti, acutamente segnalati da chi crede nell’esigenza della lotta, ma è scettico sulle modalità in cui essa viene condotta. Per esempio, se il maschilismo è un male, lo è anche la misandria, proprio per questo non sono stati apprezzati tutti gli slogan proposti. Rivolgersi all’uomo, inteso come maschio, con troppa violenza è controproducente perché aumenta il divario tra i sessi, generando incomunicabilità, come suggerito da un attento osservatore, ed inoltre non tiene conto delle nuove categorie di cui il movimento femminista si occupa: le persone transgender e non binarie.
È insomma indispensabile cercare dei nuovi modi per combattere, utilizzare una comunicazione innovativa, in linea con la quarta ondata del femminismo, che disconosce il ricorso alla violenza e che condanna anche il sessismo di rigetto. La manifestazione si è conclusa in modo allegro e con una piacevole parentesi di femminismo intersezionale, ricordando le lotte di donne discriminate non solo in quanto donne, ma anche a causa della loro etnia e collocazione geografica, facendo ad esempio riferimento al caso di Malala Yousafzai, giovane Premio Nobel per la Pace pakistana nel 2014 e simbolo dei diritti civili e della lotta per l’educazione. Cosa resta di una giornata all’insegna della parità? La certezza che le modalità di lotta possono migliorare, che le nuove generazioni possono ed hanno il dovere di diventare parti attive della società per combattere un sistema ancora maschilista, ma l’unica cosa che non si può smettere di fare è resistere e non arrendersi allo stato delle cose, ricordando che “non è libero l’uomo che opprime la donna”.
La notizia è questa: la corte d’assise di Cosenza in data 6 marzo 2017 ha assolto per non aver commesso il fatto tutti gli imputati del processo sull’inquinamento radioattivo della Valle dell’Oliva, ovvero la zona che va dai comuni di Amantea a Serra d’Aiello, in corrispondenza dell’antica e gloriosa città di Temesa, sul litorale tirrenico calabrese. In particolare il pm aveva chiesto sedici anni e sei mesi di carcere con l’accusa di disastro ambientale per un ottuagenario imprenditore del posto, secondo risultanze di indagini riportate nella relazione del giudice per le indagini preliminari coinvolto anche nelle “operazioni che si svolsero intorno alla nave Jolly Rosso, arenatasi nel dicembre del 1990 sulla spiaggia di Amantea”.
Cosa ci resta di questa vicenda. Innanzitutto 160mila metri cubi di rifiuti contaminati da metalli pesanti da bonificare al più presto, a cui segue un abituale retrogusto di complicità, impunità e disinformazione. Di questi strani tempi pare non sia importante reclamare futuro per le generazioni costrette a crescere fra i fanghi tossici, va più di moda provare a disvelare fantomaci passati. Purtroppo però quando si parla di queste storie sui grandi media (raramente, quanti inviati dei grandi giornali erano presenti all’udienza del 6 marzo?) scopriamo che grande è la confusione sotto il cielo. Certo, non per tutti la situazione si è mostrata eccellente come quella di Mao – se da un lato è innegabile infatti che il marchio Calabria-terra-di-misteri-indicibili ha costruito carriere fondate sul nulla, è vero che dall’altro ha prodotto censure e isolamento -, ma nel più dei casi odierni assistiamo ad un appiattimento sul modello fiction che mette in pratica una delle più sofisticate tecniche di mistificazione: parlare di tutto per non parlare di niente. Un modello di giornalismo caciarone che cita gli eroi civili Ilaria Alpi, Mihran Rovatin e Natale De Grazia solo per sfamare i motori di ricerca, solleticando pruriti di un pubblico comprensibilmente frustrato dalle troppe ingiustizie di un potere apparentemente inscalfibile, senza mai arrivare a chiedersi chi come e perché abbia portato agli eventi odierni.
in.fondo.al. mar un’inchiesta multimediale e interattiva
Eppure le informazioni sulle navi affondate nel Mediterraneo sono a disposizione di tutti da anni, ecco un altro tesoro che ci resta. Per esempio basta puntare il proprio telefonino verso il mare e seguire le istruzioni di in.fondo.al.mar., il progetto indipendente realizzato da David Boardman e Paolo Gerbaudo. Uno ricercatore al Design Laboratory presso il Massachusetts Institute of Technology di Boston, l’altro giornalista freelance e collaboratore de “il manifesto” da Londra, hanno realizzato un’inchiesta giornalistica moderna e seria, dando vita ad un’indagine partecipata sugli affondamenti di rifiuti tossici e radioattivi nel Mar Mediterraneo. I dati raccolti da in.fondo.al.mar provengono da diverse fonti documentali: la lista delle navi sospette è stata ricavata a partire da quella fornita nel dossier di Legambiente “Affondamenti sospetti 1979-2001”; Le informazioni su navi, proprietari, carico e circostanze degli incidenti sono quelli ufficiali ricavati dai registri “Casualty Return” e “World Casualty Statistics” del Lloyd’s Register of Shipping di Londra.
Il progetto pubblica in esclusiva i risultati di un’indagine condotta presso l’archivio dei Lloyd’s di Londra (Lloyd’s Register of Shipping) e li incrocia con informazioni ricavate da ritagli di giornale, dossier di organizzazioni ecologiste e siti specializzati, per costruire un dataset aperto, liberamente scaricabile e riutilizzabile dagli utenti per altre ricerche sulla vicenda che possono essere condotte da tutti, persino da chi è riuscito per 30 anni a far finta di non vedere 150 tir andare su e giù in una stradina di campagna. Le informazioni circostanziali sulle navi sono state ricavate dai seguenti dossier consultabili:
Quando la vita inizia a beffarti è difficile darle fiducia. Se poi sei Lou Castel, il discorso cambia. Le prospettive e le circostanze cambiano, si complicano e nella maggior parte dei casi sono anche difficili da spiegare. Una vita divisa tra due ruoli, forse anche qualcuno in più. Castel come uomo, militante, attore, folle. Una vita alienata dalla realtà, vissuta anche nell’alternarsi di periodi schizofrenici. Quelli erano gli anni Sessanta. L’unico modo per esistere era dire di no, ma presto diventò un personaggio scomodo per l’Italia. Arrivò a Roma che era giovanissimo e da questo ricordo parte il documentario A pugni chiusi di Pierpaolo De Sanctis sulla vita di questo “mostro sacro”, presentato in queste ore alla Casa del Cinema di Roma e già nel mirino di Sky e della Rai. In primo piano c’è un Lou invecchiato, con pochi capelli bianchi, lunghi; ingrassato, trasandato. Non più l’attore militante di una volta. Protagonista della scena è un uomo semplice, che passeggia nelle zone più periferiche della capitale, quasi a dimostrare definitivamente che non ha mai smesso di disprezzare tutto ciò ch’è borghese.
«Non seguivo un copione. Io stesso ero il copione. I luoghi sono stati un’interfaccia che, in qualche modo, mi hanno ispirato durante la scelta di ciò che volevo o non volevo dire. Nulla di prestabilito, è stato tutto una continua sorpresa»
Sul grande schermo c’è un uomo che cammina piano, che si racconta piano. Poi una risata quasi “sguaiata”: è davanti a lui, la casa della madre. Ne ricorda il grande terrazzo, ma questa volta lo sta guardando da un’altra parte della città. Da un punto in cui non l’aveva mai osservata. Ride. Eccolo di nuovo. Questa volta seduto davanti a una scrivania, in un vecchio capannone. Legge, e ricorda di quel 1972 in cui fu espulso dall’Italia. Senza un motivo: era un militante maoista, il Castel di quei ricordi lontani. Negli anni della lotta politica arrivò fino in Calabria, a San Giovanni in Fiore. Racconta dell’alienazione personale, dell’isolamento, del rifiuto di quella realtà che lo rendevano sofferente. È tutto spontaneo, naturale, inaspettato. C’è il ricordo di suo padre, la caduta da cavallo di quand’era bambino. Ancora, il suo essere violento, la schizofrenia, causati da quello stesso senso di alienazione tuttora presente. Un altro Castel, diverso. Non solo mutato dallo scorrere del tempo nel corpo. Non c’è ha una parte da recitare. È un Castel non più attore, ma regista interno della sua stessa vita, in perfetta armonia con quello esterno.
Come hanno potuto seguire in diretta un po’ di amici sul nostro canale Instagram, seduto in prima fila c’era anche Marco Bellocchio, regista del film d’esordio di Lou Castel negli anni Sessanta, I pugni in tasca. Il regista di Sbatti il mostro in Prima pagina, de I cento Passi, La Meglio gioventù e tanti altri capolavori ha detto di esser rimasto «molto emozionato dal film. Un film che racconta in modo anti-spettacolare – che per me è una qualità – la vita di Lou con un ritmo del tutto originale». Pierpaolo De Sanctis ha parlato così del suo documentario: «Un travaglio durato otto anni, perché è stato difficile trovare le condizioni produttive che permettessero le riprese di questo film; poi l’iniziale diffidenza di Lou: non era facile rimettersi in gioco, lasciarsi andare in questa intimità. Non ero pronto nemmeno io in realtà. Diciamo che è accaduto tutto nel momento esatto in cui doveva accadere: il tempo ha giocato un ruolo fondamentale».
Lou gli era seduto accanto. Annuiva, quasi timidamente, poi con generosità si è concesso ad un pubblico intergenerazionale ed è tornato sull’argomento nell’intervista che qui riportiamo in modo integrale.
Poco fa De Sanctis ha detto che non è stato facile dar vita a questo documentario; lei ha dovuto rimettersi in gioco e riportare alla luce molte questioni “private”, quindi inizialmente era restìo all’idea di questo progetto. Cosa le ha fatto cambiare idea? «Dovevo trovare il casuale. Come una corda, che tiri tiri fino ad arrivare alla fine. Così le scene: una scena che produce un’altra scena, fino alla fine. Non volevo farlo attraverso un qualcosa di programmato. Quando leggi che sarà la tua autobiografia, sai che non stai recitando. Non c’è quella corda che ti mette in azione come attore, ma come attore che sa recitare sé stesso che è molto più complesso dell’interpretare un personaggio. Dell’imparare la battuta a memoria. Qui mi devo sdoppiare nel momento stesso in cui recito: sono io e non io simultaneamente».
Che valore ha per lei questo documentario? «Ha un grande, grandissimo valore. Spero che lo scoprano, questo valore, perché nessuno lo dice. Perché dicono, “sì, è il grande attore”, invece no, è molto di più. È qualcosa in cui c’è il mio modo di essere e il mio modo di recitare, insieme»
È stato questo suo modo di essere che l’ha portata a rifiutare ruoli che non sentiva suoi? «Quelle sono scelte di vita. Prima di fare l’attore ero comunista, con l’ideale di cambiare il mondo. Per cui l’essere è un qualcosa che non si può avvicinare all’attore. È difficile da immaginare, soprattutto per le nuove generazioni. Negli anni Sessanta si poteva percepire cos’è l’esperienza, adesso non è possibile. Non c’è più un’esperienza diretta; adesso è indiretta»
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«Quando nei film dovevano frustarmi mi arrabbiavo. Dicevo: “Ma frustatemi davvero! Come faccio altrimenti a reagire?”; oppure quando mi legavano i polsi con le corde mi veniva un po’da ridere: si vedeva che potevo liberarmi da solo!».
Tempo fa ha affermato che l’unico modo per dare una svolta alla realtà sarebbe uscire dal capitalismo. Ma se ormai l’esperienza è indiretta, i giovani di oggi cosa potrebbero fare per dare una svolta concreta? «Non sono uno di quelli che dice che i giovani non capiscono niente rispetto a noi degli anni Sessanta. Semplicemente non hanno la percezione di quegli anni, quindi come fanno? Come tutte le generazioni hanno un altro modo di procedere, ma non meno rivoluzionario. A questa parola – rivoluzionario – bisogna stare attenti, magari non si userà più, ma ci sarà sicuro un cambiamento sociale»
Potremmo dire che il sistema capitalistico ormai è entrato anche nel cinema; ma si può ancora fare politica attraverso i film? Attraverso quale tipo di linguaggio? «Ci sarà sempre un linguaggio politico nel cinema, ma non come prima. Le ideologie sono finite, però ci può essere un impatto della forma artistica. Un impatto politico al primo colpo. Per esempio sul muro della Senna ho visto un dipinto: gli emigrati cadevano giù, ma con loro cadevano giù anche i parigini. È questo il senso: è proprio l’impatto di vedere un’immagine che lo rende politico, però con una grande riflessione artistica»
Poi si è alzato dalla sedia scattando, quasi a voler fuggire via dall’obiettivo. Dell’attore militante Lou Castel, nome d’arte di Ulv Quarzéll, rimane questo: un uomo senza rimpianti, che ha creduto, si è ribellato, ha lottato a pugni chiusi sempre e che, nonostante tutto, crede ancora che prima o poi qualcosa cambierà.
AGGIORNAMENTO | 5 aprile 2017 – La leader birmana Aung San Suu Kyi in un’intervista alla Bbc ha finalmente risposto alle domande che da mesi le rivolge il mondo, negando la pulizia etnica ai danni della minoranza musulmana Rohingya. Suu Kyi ha parlato semplicemente di “problemi nello stato di Rakhine” dove vive la maggior parte della popolazione Rohingya, ma ha definito “pulizia etnica” un’espressione troppo forte da usare.
Un bambino Rohingya giace riverso nel fango, è morto a faccia in giù nel fiume, provava a scappare dalle pallottole. Un altro è stato freddato perché non la smetteva di piangere mentre le divise stupravano la madre e le sorelle. Corpi come i loro sono stati visti bruciare nei roghi lasciati nei villaggi. Yanghee Lee, inviato delle Nazioni Unite è scioccato dai racconti, sorpreso da una situazione ben peggiore di quella che si aspettava di trovare. Visitando il campo profughi al Bazar di Cox, in Bangladesh, ha messo insieme decide e decine di testimonianze sugli indicibili crimini che da mesi avvengono al di là del confine, in Myanmar. La documentazione finirà nel rapporto ufficiale che verrà presentato al Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite a Ginevra il 13 marzo, ed è fra i contributi indipendenti che hanno convinto il Tribunale Permanente dei Popoli che non è più tempo di aspettare.
L’alto organo di opinione è stato convocato lunedì sei marzo alla Queen Mary University di Londra per una due giorni di lavori sulla condizione in Birmania, paese a maggioranza buddista, delle minoranze etniche Kaichin e Rohingya, di religione musulmana, che da mesi denunciano persecuzioni etniche per mano dell’esercito birmano. La prima sessione di udienze, i cui lavori nei prossimi mesi continueranno negli stati Uniti e poi in Malesia, prevede la partecipazione di esperti come Denis Halliday, ex segretario generale aggiunto delle Nazioni Unite e vincitore del Premio Gandhi. Gianni Tognoni è segretario generale del Tribunale Permanente dei Popoli, l’organismo internazionale fondato sulla scorta del Tribunale Russell dal padre costituente Lelio Basso a Bologna nel 1979 per promuovere e difendere il rispetto dei diritti dei popoli.
Il governo guidato da un Nobel per la Pace accusato di genocidio: cosa non torna?
“Anche comprendendo la delicata fase di transizione che sta vivendo il Myanmar, quello che più impressiona è proprio il silenzio di Aung San Suu Kyi. Sollecitata da un appello (leggi qui, ndr) di numerosi suoi colleghi Nobel ha saputo solo definire false le inchieste di organismi internazionali e annunciare il lavoro di commissioni interne che purtroppo la mostrano agli occhi del mondo sempre più dipendente dai militari”.
Gianni Tognoni, segretario generale del Tribunale Permanente dei Popoli
Cosa si prefigge di ottenere il Tribunale Permanente dei Popoli su questa vicenda?
“Come fatto in passato vuole farsi carico del dolore di un popolo e trasferirlo al mondo. La corposa documentazione e le testimonianze raccolte hanno la coerenza che ci fa dire di essere davanti a qualcosa di molto grave. Nei prossimi mesi daremmo spazio a tutte le versioni, portando la questione agli occhi della comunità internazionale che purtroppo in mancanza di un diritto internazionale efficace è ormai ridotta al ruolo di spettatrice. C’è la brutta sensazione che si fa finta di non sapere fino in fondo, magari in attesa che tutto finisca. Invece non si può rinunciare all’idea che si può e si deve fare qualcosa”.
Fra gli arresti del governo birmano nella regione ci sono sarebbero militanti dell’Isis.
“Sì, questo può diventare un problema. Questa zona di confine si sta dimostrando una zona di aggancio per il terrorismo internazionale, che tenta di impadronirsi della disperazione come ha sempre fatto nella storia quando il diritto non ha saputo precederlo”.
Secondo le stime dell’Onu solo nelle ultime settimane oltre 65mila persone Rohingya hanno lasciato il Myanmar, trovando rifugio oltre il confine con il Bangladesh. Questa popolazione, da sempre fra le più povere della terra e senza riconoscimenti di cittadinanza, sta lasciando in massa i villaggi in seguito alla dura repressione avviata dall’esercito birmano, decisa in seguito ad alcuni attentati organizzati negli ultimi mesi da gruppi indipendentisti che chiedono maggiori autonomie per lo stato che si trova nell’ovest del paese. Repressione portata avanti con una serie di crimini internazionali commessi contro la popolazione in modo indistinto, falcidiando il futuro di donne e bambini innocenti. Tutto nell’assordante silenzio della comunità internazionale e di Aung San Suu Kyi un premio Nobel per la Pace che de facto è primo ministro del Paese e che per molti anni è stata simbolo indiscusso dei diritti umani nel mondo.
All’università tutto bene, almeno per un pomeriggio.
Era prevedibile, complice i tanti posti riservati alle autorità, gli studenti dell’Università della Calabria sono stati smossi più dalla presentazione all’auditorium del nuovo disco della Brunori sas che dall’arrivo in aula magna del Capo dello Stato, Sergio Mattarella. Come si scrive in questi casi, il cantautore cosentino ha infiammato la platea dell’Unical, tra una confessione, una battuta e qualche canzone. Sotto la pioggia una folla di studenti eccitati ha spintonato contro le porte del teatro per accaparrarsi i posti migliori, ma va annotato che non erano i soli ad aspettare Dario Brunori. Assiepati a vederlo giocare in casa, in una sorta di ritorno a Nanà land (per i brunoriani dell’ultimora: la provincia normale cantata in do che è stata concetto del suo primo album e del pezzo Nanà) c’era una parte di quell’umanità descritta nel suo nuovo disco “A casa tutto bene“. C’era chi resta attaccato al suo posto ma non vuole innalzare muri per barricarsi in casa propria e desidera confrontarsi con un mondo che è altro da sé. Durante la presentazione Brunori ha dato la notizia (29 marzo al Teatro Rendano di Cosenza l’unica tappa calabrese del suo tour), e si è sforzato di dar voce alle svariate personalità che popolano il suo condominio interiore, senza distaccarsi troppo dall’immagine che si diverte a dar di sé e senza prendersi troppo sul serio. Un Brunori un po’ cazzone, a tratti cinico e calcolatore, a tratti un po’ megalomane.
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Ma c’è sempre qualcosa in più di noi da quello che vogliamo far apparire. Probabilmente questo ragazzo di provincia non è un disilluso come gli altri, ma qualcuno che attraverso una pensata critica della società tenta di trasformare quel sentimento tipico della modernità in qualcosa di costruttivo, e proprio ciò lo rende portavoce e custode di sentimenti che ormai hanno trovato una connessione con un pubblico vasto e diffuso su tutto il territorio nazionale. Sue interviste in queste settimane di lancio sono apparse su tutti i principali media italiani; siamo lontani anni dai primi incontri di Mmasciata nel suo studio di Rende a parlare de “il suo pubblico immaginario”, ma un tentativo di spogliare Brunori per arrivare alla pancia di Dario è forse per questo ancora più interessante.
Iniziamo con una domanda semplice: la morte di Bauman ha preceduto di poco l’uscita del tuo ultimo album. Lo hai ucciso tu nella speranza di dare maggiore visibilità al disco?
«Sarebbe stata un’ottima mossa di marketing, ma è stata una coincidenza, di certo non felice, ma questo è anche un modo per far tornare in auge un certo tipo di pensiero, che sento di sposare».
Ascoltandoti è impossibile non cogliere alcune influenze culturali che accompagnano il tuo pensiero. Qual è stato il libro o la canzone che ti ha salvato la vita?
«Cito sempre “Uno, nessuno e centomila” di Pirandello, che ho incontrato a liceo, in un’età in cui cerchi la tua identità ed invece scopri che probabilmente dentro te vivono una molteplicità di figure. Sono un osservatore dei tipi umani e tutto ciò che mi fa guardare dentro e trovare collegamenti con gli altri mi affascina, infatti sono anche un grande appassionato di Gurdjieff. Non posso dire una canzone che mi ha salvato la vita, parlerei più di dischi. In una fase della mia vita è stato molto importante l’incontro con Lucio Dalla. “Com’è profondo il mare” è stato un album che mi ha dato un certo orientamento».
Nella società cellulare è molto più semplice costruirsi un’identità multipla. Dario quanto ha lavorato per costruire una certa immagine di Brunori e le due quanto sono sovrapponibili?
«Generalmente l’immagine che do di me sul palco è simile a quella che si vede fuori, anche con i miei intimi. Vivrei con grande disagio l’idea di avere un altro personaggio fuori dai contesti pubblici. Attraverso le mie canzoni ho sempre cercato di essere il più onesto possibile e spudorato, tentando di fare emergere le varie parti che mi compongono. In questo disco ho provato a rappresentare sia l’uomo che vorrei essere che l’uomo che sono. Questa cosa mi aiuta a comprendere meglio il mondo fuori, senza giudicarlo in modo manicheo».
Tu che animale ti definiresti? Pecora, maiale, lupo, cinghiale o hipster intellettualoide figlio della tv che si nutre di stereotipi?
«Penso ci sia tutto. La canzone “Sabato bestiale” potrei pensarla come un dialogo che faccio nel bagno di un locale, davanti allo specchio con me stesso. Sono sia il personaggio che mostra una disillusione totale e pensa solo a sé, sia la controparte che cerca di indirizzarlo verso la coscienza civile».
Uno nessuno e centomila Brunori.
In una delle canzoni del disco, dai voce alla pittrice messicana Frida Kahlo; come ti sei ritrovato nei suoi panni?
«È stato un esperimento molto istintivo. “Diego ed io” è venuta fuori da una canzone che avevo scritto alla chitarra e che mi ricordava, a livello armonico, alcune ambientazioni sud americane. Mi piacciono inoltre le storie drammatiche e carnali e sono un appassionato di dissidi amorosi, forse perché io nella vita sono molto moderato e quindi sono attratto da chi vive la passione in maniera meno controllata».
In un mondo sempre più diviso tra noi e loro, pensi che le parole bastino ancora o si rischia di trasformarle in nascondigli dalla realtà?
«Se scrivo canzoni significa che credo nella possibilità della parola, ma ci credo nella misura in cui non venga investita di un ruolo maggiore di quello che ha. Il problema è che a volte ci rifugiamo nelle parole, mente l’ideale sarebbe avere un equilibrio. In questo disco mi sono sforzato di indossare i panni di chi rappresenta un mondo che è altro da me e tento di impersonare anche la parte scomoda. In questo meccanismo narrativo risiede la possibilità di raccontare gli eventi, creando delle suggestioni nell’ascoltatore».
Alle prossime parole, allora.
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in copertina: illustrazione su foto di Michele Piazza
il disco: A casa tutto bene, Picicca Dischi/Sony Music
Heinz Furst,o più semplicemente Enzo, austriaco entrato in Italia da Lubiana, è uno dei tanti piccoli ebrei internati nel campo di Ferramonti di Tarsia (in provincia di Cosenza). Il campo è il più grande tra i numerosi luoghi di internamento aperti dal regime fascista tra il giugno e il settembre 1940 e fu liberato dagli inglesi nel settembre del 1943; un luogo storico importante, tanto che oggi, per l’annuale “Concerto per il Giorno della Memoria” a Santa Cecilia in Roma si rievocheranno le musiche composte dai musicisti internati in questo campo. Enzo è uno dei piccoli ebrei finiti fra queste mura: ha solo dodici anni e una grande passione per la scrittura che lo porta – come appunta – seguendo l’impulso del mio cervello a raccontare in poche pagine di diario la quotidianità del campo come le sue impressioni mi sono rimaste impresse e le quali non dimenticherò per tutta la vita. La testimonianza, finora inedita, è custodita dalla Fondazione Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea nel fondo dell’ingegnere-benefattore Israel Kalk, «raccolta delle carte e dei materiali prodotti da Israel Kalk e dalla Mensa dei Bambini, associazione di assistenza ai piccoli profughi che lo stesso Kalk creò a Milano nel 1939 e che portò assistenza agli internati di Ferramonti», ha spiegato a Mmasciata.it la responsabile dell’archivio storico della Fondazione Cdec, Laura Brazzo.
Nel mio lungo viaggio una domanda, accui non sapevo rispondere, non mi lasciava pace. Perché sono internato, perché sono internati già più di un migliaio di persone a Ferramonti? […] Devo dire che tutti coloro che sono qua internati hanno commesso la “grave colpa” di essere ebrei.
Non è certo un parco dei divertimenti quello in cui Enzo Furst mette piede nella prima volta insieme al padre Leo, alle 8.30 del 31 maggio 1941. Nonostante non siano previsti stermini sistematici, tra soprusi e pestaggi, scabbia, malaria e borsa nera, quella al di là del filo spinato di Ferramonti non è vita. Un ultimo sguardo alla foto di mamma Marta, nel frattempo internata a Vinchiaturo (Cambobasso), prima di metter piede in
“questo gruppo di baracche bianche, sorte per ospitare tra le loro pareti ebrei di tutti i paesi. Una terra solo prima palude che mai aveva udito una lingua non italiana ora una vera babele: jiddish, tedesco, polacco, cecoslovacco italiano e molte altre lingue […] Nessuno vivente in libertà, può immaginare nel vero senso della parola, ciò che significhi essere internato. Essere limitato in una certa area di terreno, chiuso da tutto il resto del mondo, da cui si riceve notizie solo per mezzo delle lettere e da pochi giornali […] Qua nel campo nelle baracche tutti sono uguali, tutti hanno qua solo una branda di legno e un sacco di paglia senza riguardi alla posizione sociale che occupavano in libertà. Indifferente se dottori, avvocati, maestri, sarti o calzolai, tutti uguali”.
Foto di bambini di Ferramonti di Tarsia (fondo Kalk – Cdec)
Nelle pagine del diario di Enzo Furst, tre luoghi – fontana, cucine e baracche – e azioni principali – lavarsi, mangiare, ritirarsi al coprifuoco – scandiscono al suono del fischietto per i diversi appelli, la giornata degli internati:
“La mattina la vita nel campo comincia alla fontana. La gente in fretta e furia si lava, sospinta da quelli che seguono e aspettano, per pure lavarsi o riempire le loro brocche, i loro catini od altro. Qui comincia per tutto il seguito della giornata le baruffe, che purtroppo fanno parte del programma giornaliero del campo. Per ragioni perfettamente inutili, non saprei, perché uno passa davanti all’altro o qualcosa di simile […] Verso le 10 coloro che si fanno da solo il mangiare cominciano ad affluire nello spazio dove c’è la vendita di frutta, verdura e di carne, quest’ultima due volte alla settimana. In tutti due posti c’è sempre una confusione grande e quelli che tra coloro aspettano hanno la maggior lingua, gomiti e facciatosta, come naturale sono i primi […] Le donne verso mezzogiorno si affannano intorno a stuffette mai viste, per preparare il pranzo aiutate dai loro mariti […] Alle 17 specialmente adesso il caldo è notevole che non si vede più una persona girarsi tra le baracche, che dico, neanche un cane […] Dopo la cena fino all’appello della sera che è alle 8.30 non succede nulla di notevole. Dopo di esso nessuno deve più circolare, che tra l’altro è molto spiacevole poichè appena verso quell’ora la temperatura diventa sopportabile”.
Giochi di bambini a Ferramonti di Tarsia (fondo Kalk – Cdec)
A Ferramonti i bambini profughi provenienti da mezza Europa vanno a scuola, frequentano i due templi e la biblioteca, luoghi puntualmente descritti da Enzo Furst. Contrariamente a quanto pensano gli internati appena giunti nel campo, nessuno di questi luoghi è opera della direzione.
“Devo qua aggiungere che la scuola che io frequentai con molti altri ragazzi, pochi giorni dopo che ero qua, è stata istituita dagli internati stessi con i loro scarsi mezzi contro mia aspettativa, poiché credevo fosse stata fondata dalla direzione del campo […] Gli addetti alla biblioteca come pure i maestri della scuola offrono i loro servizi per tutti e per una comune causa senza ricompensa alcuna”.
Dagli austeri ambienti di quell’abbozzo di istituzione scolastica provengono 33 “disegni in internamento” realizzati a matita colorata, carboncino o acquerello, raffiguranti motivi fiabeschi o leggendari, scenari campestri, ambienti urbani, ritratti di animali, scene di giochi e di sport, mappe geografiche, locomotori, aeroplani, scene belliche e ornamenti. Nel campo d’internamento di Ferramonti di Tarsia entrano anche alcuni personaggi di Walt Disney, la cui “industria della fantasia” dopo i successi di Topolino, Paperino e Biancaneve – è ferma al palo della guerra e dell’orrore.
AGGIORNAMENTO (17 Gen.) | Otto condanne all’ergastolo, 19 assoluzioni e sei non luogo a procedere per morte degli imputati. E’ questa la decisione della III Corte di Assise di Roma presa a conclusione del processo sul cosiddetto piano Condor. I condannati all’ergastolo avevano cariche di rilievo nei rispettivi paesi d’appartenenza, fra gli assolti anche Jorge Troccoli, l’unico imputato residente in Italia.
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Verso le ore 17 del diciassette gennaio 2017 è il momento, singolare e per alcuni versi storico, in cui si attende la sentenza di primo grado del maxiprocesso al “plan Condor”, che mette in fila i crimini perpetrati dalle dittature dell’America Latina tra gli anni 70′ e 80′ del secolo scorso. Alla sbarra nell’aula bunker di Rebibbia, a Roma, saranno 34 gli imputati, interpreti a diversi livelli di un piano di coordinamento militare studiato sotto l’egida dei servizi segreti statunitensi per far sparire gli oppositori politici in quegli stati dove l’influenza socialista e comunista era ritenuta troppo ingombrante. I crimini per i quali il pubblico ministero Tiziana Cugini ha chiesto 27 condanne all’ergastolo e un’assoluzione sono il sequestro e l’omicidio di 42 giovani, tra cui 20 italiani, avvenuti in Cile, Argentina, Bolivia, Brasile e Uruguay tra il 1973 e il 1978.
Per gran parte di queste storie il corpo dei protagonisti non è mai stato trovato. Storia di desaparecidos, come Luis Stamponi, italo argentino originario di Ancona citato più volte nei diari del “Che” Ernesto Guevara. Il governo del dittatore Banzer lo catturò in Bolivia nel 1976 e dopo averlo torturato lo diede in consegna alla gendarmeria argentina. È a quel punto che la sua storia annega nel mistero, lo stesso che tocca alla sua coraggiosa madre, la 64enne Mafalda Corinaldesi, che nella prima notte di soggiorno all’Hotel Esmeralda di Buenos Aires, con l’intenzione al mattino di recarsi dalle autorità locali, verrà prelevata da tre agenti della Polizia Federale e fatta sparire. Drammi di madri coraggio ricostruiti in decenni di audizioni, a volte con clamorosi colpi di scena. Come quello toccato alla signora René D’Elia Pallares, che per la dittatura perse le tracce di suo figlio e di sua nuora appena sposati, ma che nel processo ha trovato quelle del nipote, nato nel centro clandestino di tortura dove i suoi genitori furono uccisi e poi adottato da un ufficiale della Marina argentina.
Di questi crimini di lesa umanità sono accusati componenti delle più alte gerarchie dei regimi militari dell’epoca, e fra di loro ce n’è uno con passaporto italiano: si tratta di Jorge Troccoli, accusato del sequestro e dell’omicidio dei coniugi D’Elia Pallares e di altri 23 uruguaiani. L’ex tenente colonnello vive da molti anni nel Sud Italia, dopo aver scampato il processo al suo paese. Nel dibattimento iniziato due anni fa a Roma in seguito al rinvio a giudizio chiesto e ottenuto dal magistrato Giancarlo Capaldo, è accusato anche di aver recluso e torturato Aida Celia San Fernandez «applicandole la picana elettrica, anche mediante l’intrusione in vagina di un cucchiaio che le provocava il parto prematuro della figlia Maria de las Mercedes Carmen Gallo, nata nel corso della prigionia il 27 dicembre 1977».
Troccoli nelle sue rare apparizioni e tramite i suoi legali si è sempre detto innocente, dicendo di aver solo eseguito ordini in operazioni di interrogatorio che, è verità storica, sono noti per le crudeli torture. Dopo 40 anni , in Italia, nel paese in cui torturare non è reato, un giudice è finalmente chiamato a stabilire la verità.
«Poche settimane fa ho provato ad attraversare il confine con l’Ungheria per arrivare in Germania, ma la polizia ci ha scoperti è ha cominciato a picchiarci. Con me c’erano anche bambini di dieci anni e la polizia ha picchiato anche loro». Nonostante ci sia un timido sole a illuminare il volto di Farid la temperatura di Belgrado, alle 14, è ben al di sotto dello zero. Questo ragazzo afghano di venti anni, stretto nel suo cappotto arancione, ci racconta una storia che non è più nuova. Non lo è alle nostre orecchie, non lo è a quelle di milioni di europei, ma che ancora una volta tutti quanti continuiamo ad ignorare.
Dietro la stazione ferroviaria della capitale serba, a meno di un chilometro dal centro storico, più di mille migranti hanno dato vita ad un nuovo insediamento informale. Un piazzale circondato da capannoni ed ex depositi, da diversi mesi, è diventato la nuova casa per migliaia di persone provenienti principalmente da Afghanistan, Pakistan, Siria e Kurdistan. Sono soprattutto giovani uomini, molti adolescenti, qualche bambino; tutti bloccati a Belgrado nel loro viaggio lungo la rotta balcanica. Proprio quella che l’Europa dice che non esiste più. Proprio quella che, a seguito degli accordi tra l’Unione europea e la Turchia, da marzo dovrebbe essere stata definitivamente sbarrata. In realtà, seppur i numeri siano leggermente diminuiti, la balkan route è tutt’altro che chiusa. Si sono aperte nuove strade, che nella maggior parte dei casi sono ancora più insicure e rischiose.
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«In Serbia – ci racconta Andrea Contenta, Humanitarian affairs officer di Medici senza frontiere – ci sono circa 8000 migranti. 6000 vivono in campi governativi che, a causa del sovraffollamento e delle scarse condizioni igieniche, non rappresentano certo un esempio di accoglienza dignitosa, mentre 1700 persone vivono a Belgrado».
C’è un cancello proprio dietro l’angolo della piazza della stazione, sembra un normale parcheggio con tanto di custode, ma dentro ci sono centinaia di persone già in fila ad attendere che Hot Food Idomeni, un’organizzazione autorganizzata che avevamo già incontrato al confine tra la Grecia e la Macedonia (leggi qui il reportage), arrivi a fornirgli un pasto caldo. Una zuppa e un pezzo di pane, quanto basta per non morire di fame, per cercare di riscaldare il corpo già provato dal freddo polare.
L’unico riparo sono i capannoni abbandonati che circondano il piazzale, un materasso lurido e una coperta. L’unica soluzione è accendere un fuoco, bruciare qualsiasi cosa possibile alla ricerca di un po’ di calore.
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«L’aria all’interno dei magazzini è irrespirabile – ci racconta Alì, un adolescente pakistano – , dormire tutte le notti così diventa davvero pericoloso per la salute. Ma la scelta tra il morire di freddo e rischiare un’intossicazione è facile».
Il numero di migranti assiderati nell’ultimo periodo è aumentato considerevolmente, qualsiasi fonte di calore è vitale. Negli ultimi giorni Medici senza frontiere, oltre che del lavoro sanitario si sta occupando anche di distribuire coperte. Il termometro di notte tocca meno venti. In queste condizioni anche lavarsi diventa proibitivo. L’unico modo è scaldare l’acqua sul fuoco e approfittare di ogni singola goccia, mentre quella che finisce a terra sull’asfalto gelato, alza nuvole di vapore spettacolari. «Sono circa quattro mesi che parliamo con il municipio, con il Ministero della salute e il governo per cercare di installare dei bagni e delle docce – aggiunge preoccupato Andrea –, ma ci hanno risposto che non era proprio il caso, mentre le persone continuano a vivere qui senza un bagno e senza acqua corrente». E continueranno a viverci, perché il confine con l’Ungheria è bloccato, mentre i migranti in Serbia continuano ad arrivare o a ritornare. «La Serbia rischia di diventare una nuova Calais all’interno dei Balcani – conclude il responsabile di Msf –, molte delle persone che sono qui erano già arrivate in Austria o in Germania, sono state poi trasferite in Bulgaria, a causa delle leggi di Dublino, e si ritrovano di nuovo qui. La Serbia rischia di diventare un grosso campo aperto, circondata dai confini dell’Europa, non gode dei benefici dell’Unione ma ne paga comunque le conseguenze».
Un cane che si morde la coda, mentre le persone continuano a morire. Mentre continuiamo a pagare la Turchia perché blocchi i migranti lungo il confine siriano, mentre stringiamo dispendiosi accordi commerciali con paesi come la Libia perché arginino i flussi, le persone continuano ad arrivare in maniera ancora più difficoltosa e sopponendosi a condizioni sempre peggiori. La linea politica europea in tema di gestione dei flussi migratori fatta di muri, fili spinati e esternalizzazione dei confini, non solo non sta funzionando, ma mostra tutta la sua disumanità.
Sarà ancora rimasta nei panni di uno dei suoi ruoli cinematografici più riusciti: quello del direttore di rivista nel Diavolo Veste Prada ispirato ad una delle giornaliste più temute e rispettate del secolo, tant’è che la grande attrice Meryl Streep ha di nuovo stupito tutti con un discorso “politico” declamato con grande verve alla cerimonia per la premiazione dei Golden Globe, un discorso che riflette sul ruolo civico del giornalismo nell’epoca della cosiddetta post-verità. Lo riproponiamo integralmente.
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di Meryl Streep
Grazie, Stampa estera, dovrò leggere perché ho perso la voce urlando questa sera e perso la testa in un momento dell’anno. Giusto per riprendere quel che ha detto Hugh Laurie: Voi (stampa estera) e tutti noi in questa sala apparteniamo ai segmenti più diffamati dalla società americana in questo momento. Pensate: Hollywood, gli stranieri e la stampa.
Ma chi siamo noi e che cosa è Hollywood? Siamo solo persone provenienti da altri luoghi. Sono nata e cresciuta e ho studiato nelle scuole pubbliche del New Jersey. Viola è nata nella cabina di un mezzadro in South Carolina ed è cresciuta a Central Falls, Rhode Island; Sarah Paulson è nata in Florida, allevata da una madre single a Brooklyn. Sarah Jessica Parker è una di sette o otto fratelli dell’Ohio. Amy Adams è nata a Vicenza, in Italia. E Natalie Portman è nata a Gerusalemme. Dove sono i loro certificati di nascita? E la bella Ruth Negga è nata ad Addis Abeba, in Etiopia, cresciuta a Londra – o forse in Irlanda ed è qui nominata per aver interpretato una ragazza proveniente da una piccola città della Virginia.
Ryan Gosling, come tutte le persone migliori, è canadese, e Dev Patel è nato in Kenya, cresciuto a Londra, e qui ha interpretato un indiano cresciuto in Tasmania. Hollywood è dunque infestata da stranieri e da gente che viene da fuori. E se li cacciassimo tutti a calci non ci rimarrebbe nulla da guardare se non il football e le arti marziali. Che non sono arti.
Mi hanno dato tre secondi per dire queste parole: il lavoro di un attore è quello di infilarsi nella vita delle persone diverse da noi, e far sentire come ci si sente. E nell’anno passato ci sono state molte, molte, molte prove di attore potenti in questo senso. Mozzafiato.
Ma ce n’è stata una quest’anno che mi ha stordito. Colpito al cuore. Non perché fosse particolarmente buona; non c’era niente di buono. Ma è stata efficace e ha fatto il suo dovere. Ha fatto ridere l’audience a cui era destinata. È stato il momento in cui la persona che chiedeva di sedersi sulla poltrona più rispettata nel nostro Paese ha imitato un giornalista disabile che superava per privilegi, potere e per capacità di reagire. Vedere quella scena mi ha spezzato il cuore e ancora non riesco a togliermela dalla testa. Perché non era un film. Era vita reale. E questo istinto di umiliare gli altri, quando è usato da qualcuno che ha una grande visibilità, da parte di qualcuno potente, si trasmette nella vita di tutti, perché dà un po’ il permesso agli altri di fare la stesse cose. La mancanza di rispetto incoraggia altra mancanza di rispetto, la violenza incita alla violenza. E quando i potenti usano la loro posizione di prevaricare gli altri tutti noi perdiamo. O.K., andare avanti con lui.
E questo mi porta alla stampa. Abbiamo bisogno di una stampa capace di esercitare il controllo sui potenti, e farli rispondere per ogni gesto oltraggioso. È per questo che i nostri fondatori hanno inserito la libertà di stampa ed espressione nella Costituzione. Quindi chiedo alla facoltosa Stampa estera e a tutti i presenti di unirsi a me nel sostenere il Comitato per la protezione dei giornalisti, perché ne avremo bisogno nell’immediato futuro, ne avremo bisogno per salvaguardare la verità.
Ancora una cosa: una volta me ne stavo sul set a lamentarmi per qualcosa – del tipo che stavamo lavorando troppo o all’ora di cena o qualcosa di simile – e Tommy Lee Jones mi disse: «Non è un già un enorme privilegio, Meryl, solo essere un attrice?». In effetti è proprio così, e dobbiamo ricordarci a vicenda il privilegio e la responsabilità di questo mestiere. Dovremmo essere tutti orgogliosi del lavoro di Hollywood che si onora qui stasera.
Come la mia amica, la Principessa Leia, mi ha detto una volta, prendete il vostro cuore spezzato, e fatene arte.
Tutti gli esperti sembrano concordi: sta arrivando una colata gelida come non se ne vedevano in Italia dal 13-14 Gennaio 1968, con valori che scenderanno sotto lo zero anche nelle località di pianura ed in pieno giorno. C’è molta confusione in giro, molti siti hanno deciso di chiamarlo “Burian”, usando il termine spesso associato alle bufere di neve che in inverno investono buona parte dei territori della Russia europea e la Siberia, trasportate dalla gelida manina ventosa che durante la stagione invernale spira sopra le sterminate lande siberiane e le steppe kazake verso gli Urali e le pianure Sarmatiche, ma probabilmente quello che sta per raggiungerci sarà qualcosa di diverso.
La gelata artica ha già colpito da diversi giorni il Nord Europa, dando vita a scenari spettacolari.
Come detto, il Burian infatti parte direttamente dalle steppe russe, mentre la perturbazione che guarda all’Italia è artico-continentalee nasce da latitudini ancora più settentrionali. Comunque sia, quello che è certo è che sta per raggiungerci: nelle prossime ore il nostro paese sarà colpito duramente dal freddo, con neve abbondante addirittura sulle coste della bassa Calabria e della Sicilia tirrenica. Attenzione, stavolta non si tratterà del singolo ed isolato episodio freddo, come è avvenuto nella sfuriata molto fredda di fine 2016, ma bensì di una severa quanto rara colata artico-continentale che, da nord, nord-est si dirigerà verso l’Italia a partire dalla metà giornata di giovedì 5 Gennaio. I dati in mano agli esperti dicono che durerà fino a martedì 10 e che i settori più colpiti saranno il medio e basso versante adriatico ed il meridione in genere, con le temperature che scenderanno davvero drasticamente, fino ad addirittura 15°c sotto le medie del periodo. Ci si aspettano termiche di ben -15°c infatti a 850hpa (1400m. circa. s.l.m.) tra l’Abruzzo e la Puglia, ed una -14°c a 850hpa si spingerà addirittura fino alla Calabria centrale.
LA NEVE | Ovviamente, oltre al forte gelo, cadrà anche tanta neve; si imbiancheranno città dove la coltre bianca è solitamente un fenomeno eccezionale, infatti, nelle giornate di Venerdì 6 e Sabato 7, e c’è possibilità che nevichi fin sulle coste della Sicilia tirrenica, della Puglia, ed addirittura nello Stretto. Le homepage dei siti più importanti si apriranno con foto di Napoli imbiancata? Non è da escludere che qualche fiocco cada anche ai piedi del Vesuvio, ma a tal punto è molto probabile vedere neve con accumulo al suolo a Palermo, Messina e Reggio Calabria, e sicuramente saranno abbondanti i centimetri anche nelle località di mare abruzzesi e della costa adriatica in genere, come ad esempio a Pescara, esposta bene alle correnti da nord, nord-est. La Calabria vivrà una situazione particolare; nel centro-settentrionale sono invece previste minori precipitazioni, difatti non dovrebbe nevicare né a Cosenza e né a Catanzaro (a causa del Pollino e della Sila che riparano la città dai venti da nord), con qualche eventuale fioccata nella città dei lupi solo tra il tardo pomeriggio e la serata di giovedì. Sarà comunque acuto il gelo; sono perfino attese punte minime di -8, -9°c a Cosenza al primo mattino di Sabato e -18°c sulle vette silane. Possibili spruzzate invece a Crotone e Vibo, dove non si esclude un minimo di innevamento anche al suolo. Fiocchi moderati anche su Sila Orientale e versante est del Pollino, dove, anche qui, avremo tanto ghiaccio e venti intensi di tramontana.
DISAGI E ALLERTE | Dunque, saranno sei giorni d’altri tempi, che faranno battere i denti anche per i tanti disagi. Per fronteggiare la situazione, ampiamente prevista dagli esperti, Autostrade per l’Italia ha fatto sapere di aver già avviato tutte le attività preventive previste dal ‘Piano Neve’, con oltre 600 mezzi operativi antineve coinvolti sul territorio interessato, 1.500 operatori e 60.000 tonnellate di fondenti stradali. Agli automobilisti d’ogni sorta viene ovviamente raccomandata prudenza e di informarsi prima della partenza, evitando se possibile il viaggio sulle tratte e nei periodi interessati dalle nevicate più intense. Ai camionisti, vista la probabile attivazione dei provvedimenti di fermo e divieto temporaneo della circolazione per i veicoli pesanti, si consiglia di evitare il transito sulla 14 adriatica e sulla A16 Napoli-Canosa nel periodo interessato dalle nevicate.
Saremo pronti ad affrontare tutto questo? Il Dipartimento della Protezione Civile, d’intesa con le Regioni coinvolte – alle quali spetta l’attivazione dei sistemi di protezione civile nei territori interessati –, ha emesso un avviso di condizioni meteorologiche avverse che dovrebbe mettere tutti sul chivalà. I fenomeni meteo, fa sapere la Prociv, impattando sulle diverse aree del Paese, potrebbero infatti determinare delle criticità idrogeologiche e idrauliche che sono riportate, in una sintesi nazionale, nel bollettino di criticità consultabile sul sito del Dipartimento (www.protezionecivile.gov.it).
Ponte San Giovanni (Perugia) – «E’ come se ci avessero rapito, la normalità non può più esistere». Diego, poliziotto sfollato, al Natale non ci pensa nemmeno: «A Norcia è ancora tutto fermo, cominciano ad arrivare i primi moduli abitativi collettivi, ma nel frattempo la gente si organizza con roulotte e container perché non può aspettare lo Stato». Da Cascia invece arriva Miran, il nonno è il suo eroe più grande da quando, facendogli scudo col corpo, l’ha protetto dalla caduta di un armadio. Insieme ad Alessia e Francesca, allestiscono l’albero di Natale nell’alberghetto ai piedi di Perugia che li ospita. Walter Cardinali è il gestore di questa struttura, si dimostra fiero di dare una mano: «Si tratta di ricreare condizioni di dignità e familiarità per una quarantina di persone che, pur avendo perso tutto, trovano la forza di dirti che è stato proprio il terremoto a farci conoscere».
La statua del Santo sembra indicare l’orario in cui la cattedrale di Norcia è crollata.
Dislocati in 4 strutture alberghiere dei dintorni perugini, sono circa 160 gli sfollati che trascorreranno il Natale in una delle hall di questi posti; gli spostamenti e i tentativi di riavvicinamento a casa sono all’ordine del giorno e non è facile stargli appresso: cerca il contatto con ciascuno di loro Giulia Gamboni, medico dell’Usl inviato ad orario e su chiamata nei vari hotel per garantire la continuità assistenziale: «Facciamo le veci di quelli che erano i loro medici di famiglia. Riscontriamo soprattutto problematiche di natura fisica acutizzate dallo stress, disturbi del sonno, fatica ad avere uno stile di vita normale». Assicurare soprattutto agli anziani una continuità nelle cure e nelle terapie in atto e bruscamente interrotte a causa del sisma, non è facile: «In molti casi la documentazione è rimasta nelle case e andata perduta, dunque non è difficile ricostruire le singole storie», spiega la dottoressa. Il pensiero di ciò che si è lasciato è costante. L’attesa di notizie dal Centro operativo avanzato della Protezione Civile sulle verifiche di agibilità dei singoli edifici sospende decine di nuclei famigliari in una sorta di limbo. In attesa del 7 gennaio, data indicata come probabile dalla ProCiv umbra per il rientro di alcuni nuclei familiari nelle abitazioni classificate in fascia A, con il Natale alle porte tutto si acuisce.
Una delle abitazioni del centro di Norcia dove la quotidianità è stata spezzata per sempre.
Pietro stringe forte la mano di Antonietta, una vita assieme. La loro abitazione nel centro di Norcia è stata classificata di “fascia C”, dunque solo parzialmente agibile. La nuova “casa” è una matrimoniale di 16 metri quadri, tirata a lucido dalla coriacea donna ogni mattina nonostante le precarie condizioni di salute: «Tanto per non perdere le buone abitudini». Consumata tutti assieme, la colazione è occasione per aggiornarsi sullo stato dei paesi: «Se a Norcia ci salutavamo appena e correvamo via, adesso abbiamo fatto gruppo», racconta Roberto, costretto ad abbandonare quasi di forza l’antico casale di famiglia.
C’è chi passeggia, chi gioca a carte, chi va al supermercato, chi aiuta a sfoltire le siepi in giardino. Tanto per sentirsi utili e parte di un tutto. Il registro degli ospiti raccoglie tracce di speranza e, insieme, gratitudine:
«Torniamo a casa lunedì, siamo rimasti per due settimane causa terremoto, ci siamo trovati benissimo e tutto questo ci mancherà. Grazie».
Dai rifiuti posson nascere anche le scuole. Francesco Fassina è un giovane ricercatore nato a Genova. A Siena si è laureato in Archeologia, ed era in Svezia a studiare Ecologia umana quando ha deciso di scrivere alla “Tagma”, l’organizzazione no profit che a Jaureguiberry, sulla costiera uruguaiana, ha realizzato la prima Escuela Sustentable.
Una scuola unica al mondo, costruita utilizzando pneumatici, bottiglie di vetro e di plastica, cartone e lattine, ma soprattutto impastando esperienze da tutto il mondo in un progetto educativo e culturale unico nel suo genere. Una struttura pubblica perfettamente sicura, nata per decisione del governo uruguayano (che ha messo il 10% dei fondi, il resto viene da finanziatori privati come la Nevex, che potrà detrarlo dalle tasse dovute allo Stato che con questo sistema favorisce la partecipazione privata nei progetti pubblici) in una zona economicamente depressa e fino a quel momento povera di beni comuni. Un’utopia di quelle che nell’era del presidente povero Pepe Mujica possono diventare realtà. L’escuela sfrutta le risorse rinnovabili per auto sostenersi, raccoglie le acque piovane, i raggi del sole e ricicla i rifiuti. E’ una creatura che respira, e i bambini sono coinvolti in tutto e per tutto nel suo ciclo di vita.
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“L’altro giorno è successa una cosa incredibile”, racconta via Skype Francesco, a oggi è l’unico membro non uruguaiano dell’organizzazione. “I bambini nel giorno aperto alle visite ci hanno sostituito nello spiegare ai visitatori come funziona la scuola. Sono arrivati da casa con dei sacchetti pieni di bottiglie di plastica, di semi e di rifiuti organici dicendoci che erano per l’istituto”. Francesco si occupa di educazione per la Tagma, fra poco tornerà a casa per passare le feste natalizie in Italia, il progetto è arrivato ad una prima fase di autosufficienza ed è naturale tempo di bilanci. “Sentono ormai loro questa scuola, e quello che stanno imparando in classe lo portano a casa, rendendo le famiglie e quindi la comunità partecipe della vita dell’istituto. Fra l’altro le mamme e le maestre ci dicono che ormai non fanno più i capricci quando c’è da mangiare frutta e verdura: seguendo le varie fasi della vita delle piante i bambini sentono molto più vicini i prodotti della terra. Sono risultati che in così pochi mesi non ci aspettavamo”.
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Chiamarle aule potrebbe però non rendere l’idea; gli ambienti della scuola sono dei veri e propri orti giardini, dove le materie che si studiano in tutte le altre scuole del paese diventano pratica. Negli orari extrascolastici la comunità organizza anche corsi di yoga, cine-proiezioni e tante altre attività, finanziate da feste di quartiere e collette. Chiunque abbia a che fare con la struttura partecipa al processo di vita dell’istituto che avviene seguendo i sei principi ecologici fondamentali. L’edificio è di 270 metri quadrati e si apre a nord, massimizzando la luce e l’energia solare attraverso un corridoio vetrata che funge da collegamento fra le tre classi di età mista, secondo quello che è il cosiddetto “modello rurale” in Uruguay: una è quella dell’asilo con i bambini dai tre ai cinque anni, un’altra classe con prima seconda e terza elementare e l’ultima che arriva fino alla sesta elementare. La facciata è dominata dal vetro e dal legno e il corridoio consente la produzione di cibo attraverso un giardino interno. La generazione di energia elettrica proviene da pannelli fotovoltaici e immagazzinata in un banco di batterie. A sud, est, e ovest, l’edificio è chiuso con un terrapieno, un muro di contenimento che sfrutta le proprietà termiche della terra. Questa strategia, ci spiega l’educatore italiano, permette l’equilibrio termico dell’edificio durante tutto l’anno, provocando attraverso condotti di ventilazione la circolazione trasversale di aria fresca in estate. In inverno invece accumula il calore causato dall’effetto serra del corridoio settentrionale e riscalda la scuola; e la temperatura della scuola è intorno ai 20 gradi tutto l’anno, a dispetto delle condizioni atmosferiche esterne.
“Attualmente”, riflette Fassina, “la scuola produce più energia di quanto consuma e l’idea futura è di far sì che questo surplus possa essere immesso nella rete della comunità e permettere anche un sostentamento economico dell’istituto”. Oltre ad essere autonomi nel loro consumo di energia e promuovere la produzione di alimenti biologici all’interno, nella scuola sostenibile utilizzano l’acqua piovana per bere, lavarsi le mani, irrigare i giardini e riempire i serbatoi, con un processo di depurazione delle acque nere realizzato anche esso con materiali di recupero.
Tutto iniziò nel 2011, quando Martin Esposito, coordinatore generale del progetto, vide il documentario “Garbage Warrior” sulla vita del visionario architetto americano Michael Reynolds. Sotto la sua bislacca egida hanno partecipato alla costruzione della scuola circa 200 persone, volontari e studenti provenienti da Uruguay e altri trenta paesi e durante i lavori in parallelo è stata animata un’accademia dove l’organizzazione guidata da Reynolds ha potuto addestrare 100 studenti provenienti da cinque continenti per sviluppare l’approccio costruttivo definito “Earthship”. L’idea è quella di vedere queste “navi della terra” attraccare presto in altri posti dell’Uruguay e dell’America Latina, e il sogno di Francesco è poterla vedere un giorno anche nel suo paese, l’Italia.
Dove intanto la notizia è che nelle scuole costruite con i rifiuti industriali si è tornato a far lezione. Ci sono voluti cinque anni perché la Cassazione ponesse la parola fine al processo scaturito dall’inchiesta “Black Mountain”, prosciogliendo 45 persone dall’accusa di disastro ambientale e dando quindi ragione alle perizie che, contrariamente alle ipotesi della procura, sostengono la “non pericolosità” del conglomerato idraulico catalizzato (Cic), il materiale ricavato dagli scarti industriali dall’Ilva di Taranto e dalla Pertusola di Crotone, utilizzato per la costruzione di ben 18 scuole nel Sud Italia. Mentre milioni di soldi pubblici a queste latitudini sono sfumati in anni di inchieste, varianti e colate di cemento armato, protocolli sanitari campionamenti e bonifiche, in Uruguay in sole sette settimane e con soli 300mila dollari dimostravano che un altro mondo è davvero possibile.
La notizia ha oscurato tutto il resto, Raffaele Marra, per molti il “sindaco ombra” della Capitale mentre per il vero sindaco “solo uno dei 23mila dipendenti comunale”, è stato arrestato dai carabinieri del Nucleo investigativo del comando provinciale di Roma con l’accusa di corruzione. Secondo il giudice per le indagini preliminari sussiste “un concreto ed attuale pericolo di reiterazione di condotte delittuose analoghe a quelle già accertate e ciò anche in considerazione del ruolo attualmente svolto da Marra all’interno del comune, della indubbia fiducia di cui gode il sindaco Virginia Raggi”.
Raffaele Marra, capo del personale del Comune di Roma, è da tempo nell’occhio del ciclone per i suoi rapporti con imprenditori finiti in “Mafia Capitale”.
La tegola in pochi giorni si somma ad’altra; nonostante gli scongiuri infatti, il tanto temuto avviso di garanzia ha bussato alla porta di Paola Muraro, ormai ex assessore all’ambiente del comune di Roma. A nulla sono serviti l’impegno e la tenacia con le quali ad agosto Virginia Raggi e tutto il Movimento Cinque Stelle hanno perseverato sull’investitura della Muraro, nonostante fosse coinvolta in un’indagine, nonostante la pioggia di critiche: tutto si è sciolto di fronte a 5 capi d’imputazione, tutti per reati ambientali. Di fronte a questo anche la sindaca pentastellata ha dovuto capitolare.
Una parentesi breve che però arriva dall’onda lunga mafia capitale e delle sue amicizie, e che lascia per l’ennesima volta vuoto uno scranno della giunta romana. E proprio a quel tempo, durante la scelta degli assessori del comune di Roma, comincia la tragicommedia in più atti della nettezza urbana capitolina.
1. AMA la tua città
Era la fine di luglio quando i giornali cominciarono a parlare di Paola Muraro, passata da consulente di AMA, azienda addetta allo smaltimento dei rifiuti in città, ad essere la responsabile del dicastero ambientale. La procura di Roma aveva cominciato un’indagine su alcuni impianti per la gestione dei rifiuti. Alla domanda dei giornalisti: “Ass. Muraro, lei sapeva di essere indagata?” la risposta fu “No”. Il problema è che l’avviso di garanzia (quello del 12/12, per intenderci) non era ancora stato recato al destinatario, ergo la severa morale 5 stelle fu bypassata, anche se tra mille critiche e difficoltà.
Il sindaco di Roma Virginia Raggi nel suo studio, la giovane esponente del M5s ha chiesto scusa per essersi fidata di personaggi legati a “Mafia Capitale”.
In questo prologo alla tragicommedia ecco il primo colpo di scena: la mail di Paola Taverna a Luigi Di Maio. “Caro Luigi […] ci pervengono notizie circa l’imminente notifica di un avviso di garanzia all’assessore in questione per un’ipotesi di reato […] per il trattamento dei rifiuti”. Di Maio rispose che non sapeva, poiché “aveva sbagliato a leggere la mail”. Applausi, chiuso il sipario.
A questo punto entra in scena l’opinione pubblica, divisa tra chi i rifiuti li ha visti moltiplicare e chi li ha visti scomparire, tutto nel giro di due mesi. #CassonettiPuliti, gridano al miracolo i fedeli alla sindaca, #Monnezzopoli, tifano i detrattori dell’assessora indagata. Starci in mezzo è dura, e decidere chi abbia ragione e chi torto è questione assai difficile, visto che il dissesto della partecipata “AMA” è questione spinosa da molto prima che la giunta pentastellata s’insediasse in Campidoglio, ma il popolo ha sempre ragione, anche se si divide e afferma di ogni cosa l’opposto.
2. La notte dei frigo viventi
Come in una fiaba d’altri tempi, anche la storia della nettezza urbana romana ha la sua componente magica: frigoriferi che la notte si animano e passeggiano per la città. È il 25 ottobre quando Virginia Raggi prende una pausa dal suo risanamento degli affari cittadini per rilasciare un’intervista a Repubblica, un’intervista in cui affermerà di non aver mai visto tanti rifiuti ingombranti per strada, un fatto per lei assai sospetto. La Raggi dimenticava che da luglio 2016 il servizio di raccolta dei rifiuti pesanti, previa prenotazione del servizio (gratuito), è stato sospeso dall’Ama, e che per qualsiasi cittadino la soluzione più semplice (ahinoi anche la più incivile) è quella di depositare il frigo rotto alla pattumiera più vicina invece che spostarlo a braccio fino alla più vicina isola ecologica. Insomma, il ragionamento è becero ma fila, ma in questi tempi incerti la pratica del complotto è più frequente di quella della logica.
Il #frigogate porge di nuovo il fianco alla comicità latente di questa storia, ma dimostra anche che la situazione rifiuti è ancora fuori dal controllo della coppia Raggi-Muraro. Serve un colpo di coda, presto detto: ecco che alla sera vengono avvistati dei supereroi aggirarsi per le vie di Tor Pignattara con l’ardua missione di ripulire la città. Sono le 23 e 30 quando la signora Maria scende a buttare la spazzatura e a stento strozza le grida quando vede due figure avvicinarsi dicendo: “Che cosa sta buttando?”. Sono Virginia Raggi e Paola Muraro che hanno scelto le prime sere di dicembre per cominciare quello che prontamente sarà battezzato lo #spazzatour, in linea con la tradizione grillina di rendere ogni percorso che superi le due tappe un “tour”.
Sindaca e assessora ci mettono la faccia, e anche naso e mani. Ormai la loro fama è internazionale tanto che il The Guardian in un articolo sul Movimento cita anche i magici frigoriferi. Un problema però è alle porte, uno che metterà fine a questa storia che tanto altro avrebbe potuto raccontarci, e che forse ancora ci racconterà, ma senza la Muraro. Il problema infatti è l’avviso di garanzia che, secondo il regolamento penstellato, mette fine al suo assessorato. Dimissioni, e via alla ricerca di un sostituto. Il palcoscenico però si chiude con un’ultima scena, ricca di semantica e simbolismo: Virginia Raggi al centro di questa sala riunioni in Campidoglio, alle sue spalle un tavolo intorno al quale c’è tutta la sua maggioranza. Come in Kubrick, la fotografia ha un punto di fuga centrale, posizionato tra le ciglia nere della Raggi, poco sotto la fronte aggrottata mentre pronuncia le parole “Ho accettato le dimissioni di Paola Muraro, ho assunto le deleghe per la sostenibilità ambientale. Ritengo importante dare continuità all’azione amministrativa per il risanamento di Ama”.
E anche se il pubblico resta attonito e senza più un applauso, il drappo rosso cade sull’ennesimo atto della nettezza urbana romana. Il prossimo non tarderà ad arrivare.
ti seguo su Facebook, ma tu non mi conosci. Sono redattore capo del quotidiano norvegese Aftenposten. Per essere onesti, non mi illudo che leggerai questa lettera. Il motivo per cui devo fare questo tentativo, però, è che sono sconvolto, deluso – beh, in realtà anche impaurito – di ciò che si sta facendo ad un pilastro della nostra società democratica.
Poche settimane fa l’autore norvegese Tom Egeland ha postato un articolo su Facebook con sette fotografie che hanno cambiato la storia della guerra. Facebook ha rimosso l’immagine di una bambina nuda in fuga dalle bombe al napalm – una delle fotografie di guerra più famose del mondo. Tom ha criticato questa decisione e Facebook ha reagito bloccandolo e impedendogli di scrivere un altro post.
Ascolta, Mark, questo è grave. In primo luogo si creano regole che non distinguono tra la pornografia infantile e famose fotografie di guerra. Poi si mette in pratica queste regole senza permettere spazio al buon senso. Infine si censurano le critiche e una discussione in merito alla decisione – punendo la persona che osa esprimere critiche.
La prima pagina dell’Aftenpoften dedicata a Facebook
Facebook è per il piacere e beneficio di tutto il mondo, me compreso, su una serie di livelli. Io stesso, per esempio, rimango in contatto con i miei fratelli attraverso un gruppo chiuso centrato su nostro padre, che ha 89 anni. Giorno dopo giorno condividiamo le gioie e le preoccupazioni.
Facebook è diventato una piattaforma leader mondiale per la diffusione di informazioni, per il dibattito e per le relazioni sociali tra le persone. Hai guadagnato questa posizione perché te lo meriti.
Ma, caro Mark, tu oggi sei l’editore più potente del mondo.
Anche per un giornale importante come Aftenposten, Facebook è difficile da evitare. In realtà non abbiamo voglia di evitarlo, perché ci sta offrendo un grande canale per distribuire i nostri contenuti. Tuttavia, anche se sono redattore capo del più grande giornale della Norvegia, devo capire che si sta limitando la mia responsabilità editoriale. Questo è ciò che voi ed i vostri collaboratori state facendo in questo caso. Penso che stiate abusando del vostro potere, e trovo difficile credere che ci avete pensato in modo accurato.
Torniamo alla foto che ho citato. La napalm-girl è di gran lunga la fotografia più iconica della guerra del Vietnam. I media hanno giocato un ruolo decisivo nel riportare storie diverse sulla guerra. Hanno portato un cambiamento di atteggiamento che ha svolto un ruolo nel porre fine alla guerra. Essi hanno contribuito ad un dibattito più critico più aperto. Così deve funzionare una democrazia.
I mezzi di comunicazione liberi e indipendenti hanno un compito importante nel portare le informazioni, anche comprese le immagini, che a volte possono essere sgradevoli, e che la classe dirigente e forse anche i cittadini comuni non possono sopportare di vedere o sentire, ma che potrebbe essere importante proprio per questo motivo.
«Se la libertà significa qualcosa», scrisse il britannico George Orwell nella prefazione a “La fattoria degli animali”, «significa il diritto di dire alla gente ciò che non vuole sentire».
I media hanno la responsabilità di prendere in considerazione la pubblicazione in ogni singolo caso. Questa può essere una pesante responsabilità. Ogni editore deve pesare i pro e i contro. Questo diritto e dovere, che tutti gli editor del mondo hanno, non dovrebbe essere minata da algoritmi di codifica nel vostro ufficio in California.
Mark, ti prego di provare a immaginare una nuova guerra in cui i bambini saranno le vittime di bombe a botte di gas nervino. Volete ancora una volta oscurare la documentazione della crudeltà solo perché una piccola minoranza potrebbe eventualmente essere offeso da immagini di bambini nudi, o perché una persona pedofilo da qualche parte potrebbe vedere l’immagine come pornografia?
La mission di Facebook afferma che il vostro obiettivo è quello di “rendere il mondo più aperto e connesso”. In realtà ciò si sta facendo in un senso del tutto superficiale.
Se non vuoi distinguere tra la pornografia infantile e fotografie documentarie da una guerra, il tutto sarà semplicemente promuovere la stupidità, senza riuscire a portare gli esseri umani più vicini gli uni agli altri.
Pretendere che è possibile creare regole globali comuni per quello che può e ciò che non può essere pubblicato, getta solo polvere negli occhi della gente. Facebook è un bel canale per le persone che desiderano condividere video musicali, cene di famiglia e altre esperienze. Su questo piano si sta portando la gente più vicini gli uni agli altri. Ma se si desidera aumentare la reale comprensione tra gli esseri umani, devi offrire maggiore libertà al fine di soddisfare l’intera larghezza delle espressioni culturali e discutere le questioni sostanziali.
E poi si deve essere più accessibile. Oggi, se è possibile a tutti di entrare in contatto con un rappresentante di Facebook, il meglio che si può sperare di ottenere in breve sono risposte formalistiche, con riferimenti alle rigide regole e linee guida universali. Se ci si prende la libertà di sfidare le regole di Facebook – come abbiamo visto – si verrà puniti con la censura. E se qualcuno protesterà contro la censura, sarà punito con l’esclusione, come è stato per Tom Egeland.
Avrei potuto continuare, Mark, ma mi devo fermare a questo punto. Ho scritto questa lettera perché sono preoccupato che il mezzo di comunicazione più importante del mondo sia limitante per la libertà mentre dice di cercare di estenderla, e che questo accade di tanto in tanto in modo autoritario. Ma sto anche scrivendo – e spero si capisca – perché ho un atteggiamento positivo verso le possibilità che Facebook ha aperto. Spero solo che si utilizzino tutte queste possibilità in un modo migliore.
Cordiali saluti,
Espen Egil Hansen
Editor-in-chief e CEO Aftenposten
PS.Allego un commento del fumettista 73enne Inge Grødum di Aftenposten alla censura praticata da Facebook. Che dice l’algoritmo? Così potrebbe andare?
Pietro e Marco hanno appena finito di cenare. Hanno divorato in dieci minuti la pizza al salame, ai capperi e alle acciughe preparata con cura da mamma Veronica. «Già scappate, ma che partita sarà mai?». «È la finale mà, quante volte te lo devo dire?». «E certo, ogni sera finali ci sono qui, e io rimango sempre a casa!».
Le postazioni in soggiorno sono quelle di sempre, anche se i mobili sono stati spostati accuratamente perché il periodo è quello che è, e bisogna adeguarsi. «Chi gioca avanti?», chiede Pietro a suo figlio. «Papà, te l’ho detto prima, Balotelli e Berardi». «Allora perdiamo».
Mancano dieci minuti al calcio d’inizio e l’aria si fa calda anche se fuori piove e ci sono due gradi. Se continua così stanotte nevica e domani niente scuola. Ma chi ci va più a scuola il 19 dicembre?
Lo stadio della finale dei Mondiali in Qatar
Pietro guarda la tv e borbotta qualcosa di incomprensibile contro Maurizio Sarri. Non gli è mai piaciuto quel toscanaccio comunista, eppure è riuscito a portare in finale quella che tutti gli opinionisti del pallone definivano una banda. Chi l’avrebbe mai detto? E poi dove vuoi arrivare con quella coppia d’attacco, un calabrese strafottente e discontinuo e un bresciano viziato e per giunta dalla pelle nera, che se avesse pensato a fare solo il calciatore avrebbe potuto mangiarsi il mondo o giù di lì. Ma adesso conta un altro mondo, diverso dal solito, fuori luogo e stagione, ma pur sempre rotondo come un pallone.
Le squadre sono in campo e partono gli inni. «Marco, per favore spegni le luci dell’albero che mi accecano». Luci spente, sguardi concentrati e Goffredo Mameli che si rivolta nella tomba per l’ennesimo evento sportivo del secolo. Pogba prega qualche secondo alzando le mani e chinando la testa. Con quella fascia sul braccio sembra più alto del solito. Appena parte la gara corre subito da una parte all’altra come se fosse una gazzella, e ogni volta che supera il centrocampo, Romagnoli e Rugani faticano maledettamente a contenere la sua furia elegante e potente. Fino al minuto numero 18, quando Varane con un lancio di 30 metri, trova sulla sinistra l’inserimento rapidissimo di Paul che entra in area palla al piede e quasi giunto davanti ad Alfred Gomis viene spinto appena da Romagnoli. Per l’arbitro è rigore. Protestano tutti, persino Verratti che in mezzo a quei giganti quasi non si vede. Sarri non si scompone più di tanto ma il suo ghigno beffardo ripreso dalla telecamera fissa sulla panchina parla da solo.
18′ pt: RIGORE
«Non era rigore», urla Marco contro lo schermo, «si è lasciato cadere!». Dal dischetto va lo stesso Pogba, guarda negli occhi il suo fratello africano e dopo pochi secondi lo beffa con un tiro preciso che va a sbattere contro il palo alla sua destra prima di finire in rete. Poi l’esultanza, la corsa e l’abbraccio con Zidane. Il punteggio è cambiato e Balotelli ha già preso un giallo per proteste e una moltitudine di insulti da quelli che per un giorno sono stati costretti a travestirsi da suoi tifosi. «Deve levarlo subito e mettere Bernardeschi o Insigne – dice senza convinzione Pietro – altrimenti restiamo in dieci… (pausa con sospiro) anzi, in dieci ci siamo già, così non segniamo mai!». Gomis sbaglia un’uscita apparentemente semplice e per fortuna non ci sono avversari nei paraggi. Ma basta a far tornare in mente con rammarico l’infortunio alla spalla di Donnarumma agli ottavi di finale, che ha concesso inaspettatamente una chance irripetibile al ragazzone senegalese. Fuori ha smesso di piovere mentre a Lusail sembra che si stia giocando il Trofeo Tim. Ma non c’è spazio per l’attesa, per la speranza in un futuro migliore e per il perdono. È una partita che non ammette errori e pause di riflessione. O si vince o poi arriva capodanno e chi ci penserà più a questa strana serata d’inverno?
«Perché avete spento le luci dell’albero?». «Mà, non è il momento, le accendo dopo». Baselli sfonda sulla destra e crossa al centro, dall’altra parte, però, c’è una difesa che sembra di ferro. Ora i mediani spingono con più cattiveria ma manca incisività sotto porta. Riappare mamma Veronica, con un vassoio di turdilli [1] in mano. Li poggia sul tavolino accanto all’albero buio, e ordina: «O lo accendete o vi spengo la tv!». Pietro la fissa a mo di sfida coniugale, ma abbassa subito lo sguardo e si mette in bocca un turdillo. Poi si china verso la presa e riaccende le luci dell’abete artificiale. Manca un minuto alla fine del tempo e Verratti batte un calcio d’angolo: palla in mezzo all’aria, svetta Rugani che di testa trafigge Lloris. Pietro e Marco si alzano in piedi e si abbracciano ruggendo un gooool liberatorio. Poi si siedono e contemporaneamente si voltano a guardare con perplessità quell’albero magico che ora fa brillare la stanza di una luce che sa di pace e non dà più fastidio a nessuno. «Non gridate che qui non sento niente!», urla la saggia Veronica dalla cucina. Ma intanto il primo tempo è finito e «tra poco nevica papà!», sentenzia Marco osservando dalla finestra la strada deserta sotto i suoi occhi. Nell’intervallo i cronisti Rai leggono un serie di tweet del ministro dell’Interno Matteo Salvini che se la prende con Berardi, Balotelli e Gomis, terminando i suoi commenti tecnici con un perentorio “i peggiori in campo, mi fanno vergognare di essere italiano”. Mentre inizia la ripresa il vassoio è quasi vuoto e c’è voglia di torroncini, cioccolate e qualsiasi cosa utile ad uccidere la tensione. Sarri, come Zidane, conferma l’undici iniziale e Pietro continua a gettargli addosso i pensieri più disordinati che ha in testa. Ma dopo la parentesi Salvini, lo fa con meno enfasi. Pogba riparte alla grande come nel primo tempo. Fa partire un siluro terra aria da venti metri, ma Gomis è attento e respinge con una mano. Poco dopo Martial in diagonale centra il palo e si dispera. Poi succede l’impensabile. Calabria tocca con un braccio in area. Sembra averlo fatto involontariamente, ma l’arbitro indica ancora il dischetto. La rabbia travolge Sarri e i suoi ragazzi, Rugani fatica a mantenere a debita distanza da ogni essere umano Balotelli, e Verratti sembra essersi dissolto nel nulla. Il duello si ripresenta: Pogba contro Gomis. La rincorsa non cambia: passo breve, interrotto a metà. Poi il tiro, nello stesso angolo di prima, e stavolta Alfred allunga la manona e salva il risultato.
42’st: NEVICA
L’urlo di Marco è sofferto e rauco, mentre Pietro alza solo le braccia verso il soffitto senza dire una parola. Ora si soffre e si respira solo quando è necessario. Passano i minuti e torna l’equilibrio. La sfida fa paura ad entrambe le squadre. Sugli spalti stracolmi c’è più silenzio che sotto casa di Pietro e di suo figlio Marco, e fuori ora ha iniziato davvero a nevicare. Di nascosto però. Se ne accorge Veronica, che irrompe nuovamente nel soggiorno con un «sta nevicando!» che non scompone l’immobilità dei suoi uomini. E mancano due minuti al 90’, i termosifoni si sono spenti da tempo e qualcuno dovrebbe riaccenderli altrimenti si congela. Tra poco ci saranno i supplementari e si può fare. Ancora qualche istante. Berardi alza la testa, gli sembra di avere di fronte a sé la Francia intera, con i suoi muri, la sua superiorità intellettuale, la sua arte e la sua disinvolta presunzione. Ma lui è un calabrese strafottente quanto lei e se ne sbatte di quello che gli grida dalla panchina il vecchio Maurizio. La sua storia personale gli suggerisce che può permettersi qualunque cosa. Prova un primo dribbling e gli va bene, ne prova un altro, sta per cadere ma un rimpallo gli fa restare la palla fra i piedi. Ora è sulla tre quarti e se non si sbarazza di quel pallone avrà poche chance di sopravvivenza nel suo futuro prossimo. Si tappa le orecchie e contro tutto e tutti avanza altri tre metri e con una finta di corpo mette a sedere due giganti come Pogba e Kondogbia; è senza fiato ma l’ultima goccia di lucidità va a schiantarsi contro il suo piede sinistro che, ragionando quasi da solo, indirizza quella sfera pesante e fosforescente verso un ragazzone azzurro e nero, col numero nove sulle spalle e stranamente tutto solo in mezzo all’area di rigore. Sta per finire il recupero, come i turdilli, come il calore dentro casa e come un assurdo e corrotto Mondiale d’inverno. Pietro e Marco si alzano in piedi meccanicamente per la seconda volta nello stesso preciso momento. Con gli occhi sbarrati a sbranare la tv e il fiato in una gola che richiede ostinatamente nuovi zuccheri.
45’+2 st: GOOOOL
Balotelli stoppa di destro, e prima di fare il suo dovere così come non ha mai voluto fare in tutta la sua esistenza, decide che quello è il momento adatto per guardare, anche solo per un millesimo di secondo, alle sue spalle, alla ricerca forse di un passato da eterno forestiero in casa propria, che sa che sta per svanire in un colpo solo. Nel suo colpo. Chiude gli occhi, trascorrono pochi battiti di angoscia e poi l’Italia è campione del mondo. I suoi compagni gli corrono incontro e lo travolgono d’amore. In quella selva di braccia, di gambe e sorrisi di ogni colore, si vede spuntare persino Verratti. E non è poco. Dalla tribuna d’onore inquadrano il presidente della Figc, Carlo Tavecchio e il presidente del Consiglio, Matteo Renzi che applaudono e si stringono la mano. Padre e figlio nel solito soggiorno illuminato e alberato non hanno più freddo e si abbracciano ancora, più sudati che mai. Solo adesso si accorgono che la neve ha già coperto la loro città, ma dentro casa è tornata l’estate. È il 18 dicembre 2022 e gli azzurri vincono la Coppa più bella che c’è sotto il cielo del Qatar.
Mario Balotelliha accanto a sé Gomis e Berardi e alza il trofeo da capitano di un’Italia che per una notte sembra meno sporca, divisa, razzista e ghiacciata. Ma fra poco arriverà Natale, e poi sarà capodanno, e chi ci penserà più a questa notte di finta estate?
Poco più di due ore dopo l’Italia è in festa e si festeggia nelle piazze gelide e innevate. Marco è andato a letto mentre Pietro è ancora davanti alla tv. Nella postazione Rai del “Lusail Iconic Stadium” arriva il premier italiano che ha appena lasciato lo spogliatoio azzurro. Parla di orgoglio nazionale e poi gli viene chiesto dei tweet di Salvini a metà gara. «Matteo lo conosciamo tutti – dice – è vulcanico, impulsivo e la sua passione per il calcio a volte gli fa dimenticare di essere un uomo delle istituzioni. È vero, in quel momento le sue parole possono essere sembrate inadatte, ma come diceva Voltaire? Disapprovo ciò che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto di dirlo. Voltaire – sogghigna – era un francese davvero in gamba». Veronica si avvicina a Pietro ormai quasi del tutto stravaccato sulla poltrona, e a bassa voce prova a svegliarlo: «Pietro, stavi dormendo! Io mi corico, quando vieni ricordati di spegnere le luci dell’albero». L’uomo apre a fatica gli occhi, guarda lo schermo e rivede quell’uomo in camicia bianca che sorride. Poi, ancora frastornato, si gira verso l’albero illuminato e mugugna uno spontaneo «Speravo fosse un sogno!» a sua moglie. Che lo fissa incuriosita e domanda: «Ma non ha vinto l’Italia?». Pietro si alza in piedi, spegne la tv, stacca la presa dell’albero e nel buio più pesto sente uscire dalla sua bocca un inaspettato e incontrollabile «Appunto!».
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[1]Per chi è nato a Milano o a Firenze, il turdillo è un dolce della tradizione Calabrese, uno gnocco grande, fritto e tuffato nel miele. Ma c’è chi lo lo ricopre anche di cioccolato. Come mamma Veronica.
[POST IT] La realtà dice che da quando il Qatar ha cominciato i lavori per le infrastrutture che ospiteranno la coppa del mondo sono morti oltre 1.200 operai, e si stima che per la fine dei lavori il numero raggiungerà quota 4mila, 62 per ogni partita che si giocherà.
Il Signor de La Palisse direbbe che soltanto chi non vive la realtà quotidiana parigina può stupirsi della mancata ricandidatura di François Hollande alle prossime elezioni presidenziali. Scelta lapalissiana, appunto. Nella Ville Lumière tutti – dal fornaio all’operatore ecologico, dalle guardie che vigilano all’ingresso della mia Università fino agli annoiati tassisti cittadini – sapevano che Hollande non avrebbe avuto alcuna chance di successo. E per successo, si intende arrivare almeno in doppia cifra percentuale, elemento che fa capire quanto in basso sia nella valutazione dei francesi il Presidente uscente. E poi un po’ tutti si auguravano di non dovere ancora sorbirsi l’uomo pubblicizzato dai media per scandali sentimentali, incertezza nella gestione dell’emergenza terrorismo, gaffe nei rapporti con l’opinione pubblica. Certo, lo stile con cui giovedì 1 dicembre in diretta televisiva nazionale ha annunciato la sua uscita si è rivelato emozionalmente ambivalente: da una parte, non ha rinunciato alla grandeur presidenziale nel citare “tutto quello che è stato fatto in questi anni”, compreso un riequilibrio dei conti pubblici che a molti non suona veritiero; dall’altra parte, i dieci minuti scarsi nei quali si è rivolto ai suoi “compatrioti” sono stati contrassegnati da una manifestazione continua di emozioni di imbarazzo, tristezza, nostalgia, forse abbattimento.
Francois Hollande, 24mo presidente della repubblica francese
È come se il corpo continuasse a trasmettesse scuse che le parole non riuscivano a pronunciare. Ma tant’è, la verità la fanno i numeri in possesso dello staff presidenziale. E, come dicevo, Hollande è ben al di sotto, attualmente, del 10% dei consensi. Ciò significa che il 22 e il 29 gennaio prossimo, nelle Primarie del centrosinistra, il candidato del governo sarà Manuel Valls, attuale primo ministro destinato a consumare le residue speranze di una Gauche francese che si appresta al suo anno zero, come noti parigini analisti del tessuto sociale ben sanno.
In una Parigi che prova a scrollarsi definitivamente di dosso la ancora percepibile paura per gli attentati (gli alerte attentat continuano a essere ben presenti in tutti i luoghi pubblici), Franco Crespi e Alain Touraine vanno a colazione sorridenti, da vecchi amici che insieme mettono sul piatto circa 180 anni di vita e una cinquantina di libri tradotti in diverse lingue. Gli ultimi pubblicati recentemente dai due sociologi europei – La maladie de l’absolu (Crespi) e Le nouveau siècle politique (Touraine) – analizzano la realtà sociale contemporanea e mettono soprattutto in guardia dal rischio di populismi che sembra attanagliare l’Europa.
Forse anche per questo pericolo, si inizia a riconoscere il vincitore delle Primarie di centrodestra – quel François Fillon che soltanto venti giorni fa veniva etichettato dai media come “Mr. Nobody” (copyright Le Monde) o outsider con poche speranze – come argine e scoglio al quale aggrapparsi disperatamente in vista dell’incapacità che potrebbe manifestare la Gauche nei confronti dell’arrivo del Grand Fantôme. La scelta del male minore, ça va sans dire.
Solo 5 mesi fa, in sella è rimasta solo frau Merkel
Così, mentre gli studenti della “René Descartes” danzano e cantano nella hall principale dell’Università, vendendo crêpe preparate al momento al fine di raccogliere fondi per il Telethon appena partito, ne approfitto per fare due calcoli con Danilo Martuccelli sulla forza quantitativa attuale della Sinistra. “Il rischio che la Gauche non arrivi neanche al ballottaggio c’è ed è concreto” – mi confida Danilo con sguardo attento e riflessivo – “basta guardare i numeri e ascoltare il silenzio che arriva da quella parte…”. E con la mano è come se mi disegnasse nell’aria un mantello di donna. I numeri dicono che, a prescindere da chi parteciperà alle Primarie di centrosinistra di gennaio, lo schieramento è balcanizzato e diviso da diatribe interne: il PS avrebbe il 12%, con Valls probabile cavallo di punta; Mélenchon si aggirerebbe sulla stessa cifra, supportato dalla Sinistra estrema e da una serie di organizzazioni apartitiche; Macron, promotore del movimento En Marche! ed ex ministro di Hollande, potrebbe sfiorare il 15%. Uniti potrebbero arrivare al 40%, ma la parola insieme non esiste in questa frenetica attesa del nuovo anno che segnerà un punto di non ritorno.
Il silenzio che arriva da quella parte è frutto della strategia di logoramento messa in atto dal Front National e dalla sua leader Marine Le Pen, già pronta per le elezioni primaverili e, come dicono i ben informati, già concentrata sul ballottaggio presidenziale. Intanto, l’inverno sta arrivando e le barriere pensate per contenerlo sembrano scricchiolare alla sola immagine di un mantello. (3. Fine)
Quando si segue una campagna elettorale in Calabria per motivi di cronaca giornalistica bisogna tenere in considerazione una variabile temporale fondamentale: l’orario che solitamente si mette sulla locandina è quello in cui l’ospite atteso atterra all’aeroporto. Nell’ultimo mese, giovani (Maria Elena Boschi) e meno giovani (Paolo Cirino Pomicino) hanno fatto visita qui, nella terra dei due mari, parlandone con distacco e in alcuni casi anche con desolazione. Però, indipendentemente dalla scelta finale, quello del referendum è anche un «voto per il futuro dei calabresi». Come sempre.
Alessandro Pace è uno dei più noti costituzionalisti italiani. Docente e presidente del Comitato per il No, arriva al palazzo del governo provinciale di Cosenza con un faldone che a fatica riesce a trasportare. «Due dichiarazioni per la stampa?» Sguardo profondo, casino insopportabile, apre una porta, poi un’altra. Siamo nel bagno del palazzo provinciale «Bene, vede questo Parlamento…».
Cirino Pomicino in campagna elettorale a Cosenza
C’è un odore che è tipico, quello dei vecchi. (Per chi ama il cinema ricorderà ne “La Grande bellezza” la scena di Jep Gambardella che confessa di preferirlo all’odore della fessa). Quello è l’odore di Paolo Cirino Pomicino. Perché è tutto un gioco di profumi, tipo quello del teatro de l’Acquario che lo accoglie. Merita una doppia menzione perché riceve l’accoglienza più bella. Sul lungo telo bianco una diapositiva, la prima pagina de il Manifesto dal titolo “Non moriremo tutti democristiani”.
«Oh tu che ne sai, ma Casini per che vota?» Panico tra i cronisti. Il referendum riesuma PierFendi Casini, l’incarnazione della vanità. Rilascia per ben cinque volte una dichiarazione al tiggì regionale, che lo trasmetterà poi al nazionale (È la Rai bellezza!). Nonostante il buon ritardo, fa un lungo tour del palazzo provinciale, poi si ferma e chiede «si può avere un tè?» Panico nell’ufficio presidenziale. La probabilità di una richiesta del genere è pari a quella di vincere 106 milioni di euro a Vibo Valentia. Ma tant’è, arriverà anche il tè con il ritardo dovuto (È la politica bellezza!).
Città blindata. Arriva Maria Elena Boschi. Tailleur nero, camicia di seta bianca. Bene, subito le informazioni che più vi interessavano. Scoop: la ministra ha mangiato un panino con la mortadella. In realtà la cosa su cui c’è poco da scherzare è che la ministra non si è concessa a nessuno. Giornalisti intendo, e della sua apparizione in Calabria rimane la cronaca del lungo comizio che ha tenuto e il video dei giornalisti bloccati alla porta (VEDI QUI).
Sapete con chi sarebbe bello andare al cinema? Con Gianni Cuperlo. A parte l’analisi della vittoria di Donald Trump spiegata con l’ultimo film di Ken Loach e il paragone con alcuni film neo-realisti italiani, l’intervento di Cuperlo a Cosenza è stato uno di quelli appassionati di sinistra. Com’è fatto un vero uomo di sinistra? C’era in platea per Gianni. Allora: sciarpa rossa di lana, un grande libro sulla gamba sinistra, il quotidiano nazionale e regionale sulla destra, un cappello di quelli retrò sempre in testa anche dentro. Applausi dosati. L’anziano signore si è visibilmente commosso quando Cuperlo ha focalizzato la sua attenzione sui diritti da tutelare. Della riforma costituzionale non fa proprio cenno. Un dubbio mi viene. Voterà No?
Maria Elena Boschi all’Auditorium Guarasci di Cosenza
Il solitario Alfredo D’Attorre arriva nella Yaris di un ragazzo che ne ha curato l’incontro a Cosenza. In concomitanza c’è Franco Marini. Lui non demorde 101 iniziative in difesa della Costituzione, mica bruscoletti. Faccia triste, quasi colpevole, finisce giusto in tempo per l’ora della pizza. «Margherita compagni?»
Una cosa che ha spiazzato davvero tutti è la sicurezza con cui il socialista Riccardo Nencini asserisce che con la riforma costituzionale sarà finalmente introdotta la parità di genere in Costituzione. È l’unico che usa questo argomento e presto detto, lo sconfessa la docente Anna Falcone su Rai News. Lui ne è convinto, gli altri un po’ meno.
Luciano Violante. Dell’incontro a Rende gli vanno dati due meriti. Nel primo riesce a non consumare la batteria dello smartphone nel corso dell’estenuante intervento del docente Renato Rolli. Nel secondo riesce a prendere sul serio un gruppo di ragazzi che percorrono a piedi l’Italia per spiegare ai cittadini le ragioni del Sì. Chi lo avrebbe mai detto
In generale sapete cos’è davvero mancato in questa campagna elettorale per il referendum? Un testo della Costituzione. Si quel libricino di carta dove sono scritti tutti gli articoli. Sarebbe stato bello vederlo, magari anche vedere le edizioni diverse, posato sul tavolo a favore dei fotografi.
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Le foto le vedete qui per gentile concessione di Federico Treggiari
«Nun te move che vado a pia’ un secchio d’acqua». Dal primo piano di Villa Lubin vorrebbero togliersi quella che potrebbe essere l’ultima soddisfazione. In un paese che assiste alle ultime ore del testa a testa referendario, se c’è una Stalingrado del “No” si trova in queste mura di grande bellezza. Non è conservatorismo, si tratta più di spirito di conservazione. Il Governo con la riforma proposta al popolo elettorale intende infatti abolire l’articolo 99 della Costituzione che disciplina il “Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro” ospitato da questa struttura barocca nel cuore di Villa Borghese a Roma.
Villa Lubin, sede del Cnel.
Tra i cambiamenti previsti dalla riforma, complice il trend delle polemiche sui costi della politica, questo sembra l’unico capace di mettere tutti d’accordo, con il fin qui poco conosciuto organo di rilievo costituzionale diventato, suo malgrado, una specie di emblema dello spreco.
Si calcola infatti che dalla sua istituzione con legge ordinaria del 1957, il Cnel sia costato allo Stato più di un miliardo di euro a dispetto di un’utilità pubblica rivedibile (14 disegni di legge in 60 anni di attività), ma in realtà il costo è stato ridimensionato dalla legge di stabilità del 2015, che ha abolito indennità e rimborsi per varie ed eventuali e nel bilancio di previsione che si può trovare sul sito dell’ente si può leggere che il tutto ora ammonta ad una spesa per lo Stato di euro 8,715 milioni l’anno. Di certo c’è che quando di milioni di euro ne costava anche 20 ogni anno, il CNEL poteva contare su ben 121 consiglieri, poi il DPR del 20 gennaio 2012 ha portato il numero a 64: 10 esperti nominati dal Presidente della Repubblica (8) e dal Presidente del Consiglio dei Ministri (2); 48 rappresentanti delle categorie produttive; 6 rappresentanti delle associazioni di promozione sociale e delle organizzazioni del volontariato. Polmone di un paese che doveva fondarsi sul lavoro, oggi naviga nella disoccupazione generale con solo 24 consiglieri, soprattutto perché i 40 rappresentanti che si sono dimessi negli anni non sono mai stati sostituiti. A questi si aggiungono 57 dipendenti che anche in caso di vittoria del “Sì”, in quanto dipendenti pubblici, non possono essere licenziati e che finiranno alle dipendenze della Corte dei Conti.
L’ingresso per le auto affacciato sul cuore di Villa Borghese.
Anche per questi motivi, l’atmosfera all’uscita della Villa che i rumors vogliono nel mirino del Consiglio superiore della magistratura (circa 3 milioni all’anno gli oneri di manutenzione per sale ricche di affreschi e un villino attiguo con una biblioteca da oltre 75mila volumi), è tutto sommato rilassata. Dal piccolo sciame che per la pausa pranzo scende dalle scale liberty disegnate da Pompeo Passerini si mimano labbra cucite, ma dopo, a pancia piena, ai piedi della “Fontana della Spigolatrice” realizzata in bronzo da Luigi De Luca qualche fessura si apre e Renzi non è proprio la parola preferita fra quelle fuori dai denti. «Tutti i governi europei hanno una struttura simile a questa», sostengono a microfoni spenti professionisti che per primi riconoscono i limiti delle gestioni passate, dimostrandosi ansiosi di mettere le proprie competenze al servizio del paese. Razionalizzando il funzionamento dell’ente, insomma, per i lavoratori del Cnel si poteva evitare di chiedere di buttare bambino e acqua sporca. «Ma hanno preferito sacrificarci sull’altare del populismo».
Andando via, il traffico di taxi su via Washington e gli Aerosmith a palla non turbano la siesta dell’autista di un auto blu “Thema” che risulta a noleggio; tutt’intorno l’atmosfera di Villa Borghese si abbina perfettamente a quello di una calma attesa. Su un tappeto di foglie rosse un uomo in loden verde dice al suo interlocutore: «Ne riparliamo dopo il referendum, buon fine settimana». Se lo sarà davvero lo diranno gli elettori.
“E quel ponte lì?”, mi domanda la mia ospite parigina, mentre nei suoi occhi ancora riflettono le centinaia di piccole luci che ogni sera, alle 19 in punto, illuminano a intermittenza la Tour Eiffel dando vita al fenomeno che nello slang parigino viene definito clignotage. Seguendo il suo sguardo, noto che indica le quattro statue dorate che, adagiate sui piloni di ingresso del ponte Alessandro III, controllano il passaggio juste en face alla Tour. Le racconto che il ponte sta lì dalla fine dell’Ottocento a siglare l’amicizia franco-russa messa per iscritto dall’imperatore di tutte le russie Alessandro III, appunto, e il Presidente de la République Sadi Carnot. Non faccio quasi in tempo a dirle che fu inaugurato durante l’Expo (come si direbbe oggi) parigina del 1900 che la sua espressione di stupore mi fa sorridere. “Un’amicizia franco-russa?”, mi chiede, con un sorriso malizioso che mi ricorda l’indimenticata Anouk Aimée protagonista de “Un homme, une femme” (che in questi giorni i parigini hanno l’opportunità di rivedere al cinema in versione restaurata). Sì, le rispondo, un’amicizia franco-russa esattamente come quella che va, incredibilmente, configurandosi in queste ore…
Era infatti da poco apparsa in tv la dichiarazione dello zar attuale Vladimir Putin che, in un russo francesizzato dall’abitudine allo champagne, pronunciava il nome Fillon indicandolo come ottimo futuro Presidente della République. Il peso di tale dichiarazione è stata tale che 24 ore dopo, durante l’ultimo dibattito in diretta tv, Alain Juppé si è detto “stupito” di aver ascoltato una frase del genere, non spingendosi oltre nel giudicare il Putin in questione. Eppure, lo staff di Juppé aveva preparato il dibattito sapendo che il distacco da colmare è notevole (i soliti, inaffidabili, sondaggi parlano di una forchetta tra 17 e 24 punti percentuali, ma giusto una settimana fa prevedevano Fillon al terzo posto…): il vecchio politico doveva provare ad attaccare, a riprendere l’editoriale che Le Figaro aveva proposto mercoledì in suo supporto nel quale si evidenziavano i rischi della politica economica “thatcheriana” paventata da Fillon (500mila tagli nel pubblico, rigidità e rigore per almeno 2-3 anni) e si strizzava l’occhio a quella definita “chirachiana” che verrebbe portata avanti da Juppé (250 mila tagli nel pubblico e braccia aperte all’Unione Europea).
La prima pagina de Le Monde fotografa una Francia conservatrice
Di certo non necessario ma forse sufficiente a spegnere la suspense sul nome del vincitore di domenica, l’intervento dello zar Putin conferisce un nuovo sapore alle presidenziali primaverili. L’endorsement a Fillon fornito dall’ex kgb potrebbe rivelarsi per lui un boomerang, orientando i votanti moderati e liberali di centrodestra a scegliere altre strade? Al momento non vi è risposta a tale quesito, mentre tra 24 ore le urne si riapriranno per riaccogliere i francesi nella scelta del candidato finale di questo centrodestra che vira sempre più a destra e sempre meno al centro. Sul punto, ho avuto una articolata discussione ieri a colazione con alcuni colleghi dell’Ecole des Hautes Etudes, al termine del seminario che ho avuto l’onore di tenere nel corso della mattinata. Credete – chiedevo loro con una curiosità mista a interesse sociologico – che questa volta la Marine possa farcela? Oppure già domenica conosceremo il nome del Presidente? Come immaginavo, le risposte sono state discordanti: dal sociologo che reputava Le Pen incapace di reggere alla prova del ballottaggio e che quindi la vedeva crollare nel corso del voto decisivo, un po’ come si verificò alle recenti amministrative ed europee; al politologo che invece partiva proprio dai punti guadagnati dal Front National nelle ultime elezioni, come testimonianza di un radicamento del partito sul territorio francese e della “maturità ormai raggiunta da Marine per vincere finalmente un ballottaggio e vendicare, suo malgrado, quello storico tra Chirac e Le Pen senior del 2002, scontro che nessun francese potrà mai dimenticare”. Scontro, mi viene da aggiungere, che portò la Francia molto vicina a una deriva populista se non fascista che alla fine spaventò centinaia di migliaia di Francesi che nel segreto delle urne si affidarono alla confortante tradizione di Chirac.
Ad aprile saranno passati 15 anni da quel ballottaggio del 2002 e molti non avrebbero mai immaginato che la figlia di Jean Marie sarebbe stata (probabilmente) protagonista di una nuova sfida presidenziale in una Europa molto lontana ormai da quelle logiche di unità e collaborazione da Unione che fecero la forza di Chirac agli albori del Ventunesimo secolo. (2. Continua)
Cammino su Upper Richmond Road, al confine tra Putney e Barnes, nel sud-ovest di Londra, col mio zainetto in spalla. Esco da una casa e ne cerco un’altra. Il viale (abbastanza) alberato fa un po’ America. Penso di essere in compagnia e immagino un dialogo a Princeton. In realtà è la musica (Wicked Games di Parra For Cuva e Anna Naklab) che proviene dalle cuffie che mi fa viaggiare e sentire più cool di quello che sono. Invece un clacson mi fa ritornare su questo pianeta. Mi domando allora in che mondo viviamo e se senza quegli occhi puri, all’apparenza duri, che nascondono un mare a volte burrascoso, altre calmo, ma comunque sempre vitalità, sensibilità e dolcezza, riusciremo ancora a comprendere cosa ha da dirci il vento e se saremo in grado di parlargli.
La fermata della metro sull’Upper Richmond
Sarà forse la malinconia, oppure la preoccupazione per quello che mi circonda. Luis Sepulveda però suggerisce, e a ragione, che la tenerezza va protetta con la durezza e che non possiamo permettere che la paura ci paralizzi. Inizio a pensare che nel vivere quotidiano abbiamo dimenticato, o messo da parte, proprio sensibilità e dolcezza. Gli ultimi anni ci hanno portato le bombe su Aleppo e i predicatori di odio. I Donald Trump sono diventati i padroni delle cronache politiche fatte di insulti e isolazionismo, di rigetto del diverso e di avversari che diventano “nemici”. I greci soffrono e a molti interessano che le banche tedesche recuperino i soldi prestati scelleratamente. Che fine hanno fatto la solidarietà, la ricchezza della multiculturalità e i vantaggi di un’epoca in cui viaggiamo senza controlli alle frontiere? Perché proporre divisioni e temi nazionalisti anche dove non sono (quasi) mai esistiti? Come si può accettare che ci sia gente che vorrebbe rigettare in mare barconi di disperati che cercano una vita migliore?
É arrivato il momento di dire basta e reagire. In un mondo diventato improvvisamente “o bianco o nero” scordiamo troppo facilmente la gradazione dei colori e la bellezza degli arcobaleni che arrivano, appunto, dopo i temporali. Non si può più fare spallucce davanti a un mondo che deride il potere dei sogni e non considera l’importanza della “poesia” nella vita di ogni essere umano. La “mia” poesia è nel mare, in Arianna che diventa grande e aiuta i compagni meno fortunati, nel mio (secondo) fratello mulatto Lucas che inizia a parlare in tre lingue, in Sara che a due anni e mezzo ragiona meglio di un centinaio di leghisti che frequentano le discoteche dei presunti vip, in qualche ragazzo e ragazza che non si accontenta della superficie ma entra nelle cose, negli studenti di minoranze etniche che frequentano i miei corsi, in una studentessa che segue una mia lezione sentendosi un’esploratrice del cosmo e uscendo dall’aula mi ringrazia, nei racconti che ho iniziato a scrivere, in chi lotta contro la povertà, ed è anche nel sorriso di un senzatetto e nello sguardo di mia nonna. Ognuno dovrebbe trovare dentro di se quella poesia e quella sensibilità che permettono all’anima di riconnettersi con la ragione, e senza perdere di vista le cose per cui vale la pena combattere. Anni di austerità, precarietà e nazionalismi xenofobi hanno invece inaridito buon senso e sentimenti. Questo rischia d’influenzare seriamente la nostra esistenza.
A volte i miglioramenti hanno bisogno di rotture e “movimento” (oltre che di coraggio). Lo scrittore John Berger racconta che il vero senso della vita è nei segreti e non nei posti dove gli altri ti dicono di guardare – e quindi negli schemi sociali, nelle convenzioni e nelle imposizioni. Abbiamo forse davvero smesso di sognare? Il nostro passaggio sulla Terra necessità della nostra voglia di cambiare il mondo. Da questo punto di vista allora possiamo davvero proteggere ragione e poesia con la durezza, reagendo alla violenza verbale, all’idiozia, a chi vuol farci credere che esistono “razze” umane, a chi commenta i miei articoli (firmandosi) con frasi come “quando vedo un nero mi viene da vomitare”. Democrazie e diritti umani non sono immutabili e nemmeno conquiste stratificate da millenni di storia. Reagiamo quindi prima che una minoranza dei clic e dei likes, o quella che vorrebbe bruciare i libri, ci riporti al clima degli anni venti e trenta.
Sappiamo tutti bene come è andata a finire. Penso che Arianna, Lucas e Sara, oltre a tutti i figli e figlie di guerre e fame, meritino qualcosa di molto meglio.
Dopo giornate di cielo terso e temperature gradevoli, per quanto autunnali, nuvole e veli accompagnano lo svilupparsi di questa domenica di novembre, consacrata in Francia al primo turno delle elezioni primarie per scegliere il candidato alle Presidenziali di primavera.
Jamais à droite. A droite jamais!, urlavano gli studenti del maggio parigino, mentre un giovane Pierre Bourdieu li intervistava per confutare la tanto declamata uguaglianza nell’accesso alla cultura attraverso la frequentazione delle scuole francesi. Mai come in questa giornata tale urlo è messo in discussione, di fronte alla “partecipazione eccezionale” (copyright BFM TV) che gli elettori francesi stanno facendo registrare in queste ore.
L’apertura di un seggio a Parigi domenica mattina.
Passeggiando, come di consueto, attraverso il quinto e il settimo arrondissement, in tarda mattinata, alla disperata e vana ricerca di una boulangerie aperta, Parigi si mostrava come sempre sonnacchiosa nei giorni di festa, tra studenti in partenza-arrivo, sportivi diretti al Jardin du Luxembourg e anziane signore di ritorno dalle celebrazioni religiose. Ma ci pensavano gli edicolanti a ricordare a tutti il tema principe della giornata. Da Le Figaro (diretto protagonista), a Le Monde, da Le Canard a Libération fino al Journal du Dimanche era tutto un susseguirsi di titoli dedicati “al giorno”. Prima volta delle primarie del centrodestra, con sette – dico sette – candidati (soltanto una donna) e, soprattutto, con una profonda incertezza riguardo al nome dei due vincitori che andranno a sfidarsi domenica prossima nel ballottaggio decisivo. I tre moschettieri in ballo sono vecchie volpi della politica transalpina (Alain Juppé, già Ministro e braccio destro di Jacques Chirac; Nicolas Sarkozy, già Presidente; e François Fillon, già Primo Ministro e in fortissima rimonta nelle previsioni degli istituti di statistica).
Il dibattito all’americana fra i candidati alle primarie.
I sondaggi di ieri mattina – queste “scienze prive di sapere”, come Pierre Bourdieu insegnava oltre venti anni fa nel suo corso di sociologia al Collège de France – li davano praticamente alla pari, mentre diversi politologi vedrebbero di certo vincitore odierno il ‘vecchio’ Juppé in quanto supportato dalla coalizione più ampia. Eppure, un po’ tutti i quotidiani non hanno lesinato aperture violente venerdì mattina, il giorno dopo l’ultimo dibattito a sette in diretta tv. Titoli come “La carica degli sconosciuti” o “Si può votare il nulla” (lanciati chiaramente da giornali schierati a sinistra) che tuttavia lasciavano percepire la paura del “grand fantôme” di queste elezioni: quella Marine Le Pen che non partecipa in quanto molto più a destra dei sette candidati e, soprattutto, troppo smaliziata per prestarsi a valutazioni in anticipo rispetto all’obiettivo delle Presidenziali. Le ombre non lanciano frecce e all’alba spariscono. Marine ha sapientemente ignorato qualsiasi confronto con i candidati in ballo, conscia che la guerra la si muove quando il vero nemico si sarà materializzato all’orizzonte.
Marine Le Pen, leader del Fronte National.
Ma rientrando in casa ho avuto la sorpresa: tutti i canali televisivi hanno aperto le edizioni di metà giornata sottolineando l’enorme partecipazione registrata ai seggi in mattinata: ben oltre un milione di votanti secondo il comitato organizzatore alle ore 12. Folla trainata dagli organismi partitici o presa di responsabilità democratica da parte dei Francesi? Ho rivolto questa amletica domanda ad alcuni amici con cui ieri sera ho avuto il piacere di condividere una degustazione di vini provenienti dalla zona del Rodano nella fidata enoteca “Le vin qui parle” à Saint-Germain: sia Loïc che Rodolphe, da me interpellati, temono l’onda lunga dell’elezione di Trump su suolo francese: una “distruttrice” come Marine Le Pen, che fa della chiusura all’esterno la sua forza, potrebbe rappresentare la ‘terza’ sorpresa in questo mondo occidentale dove tutto sta cambiando? Dopo la Brexit e l’elezione di Trump, la Francia potrebbe chiudere la trilogia di quelli che passeranno alla storia come gli eventi che sconvolsero la geopolitica mondiale?
Di parere opposto è la mia vicina di casa, la signora Josephine di anni 80 che stamattina, fermandomi nell’androne del palazzo, mi racconta che certo è andata a votare e lo ha fatto per Fillon, perché il più “rassicurante” tra i tre: Juppé è vecchio e Sarkozy è troppo legato al mondo della finanza – mi confessa. E poi, non prima di avermi gentilmente invitato a bere qualcosa di caldo su da lei, mi confida con certezza mista a speranza che Marine non vincerà mai, perché i parigini la associano al padre e ai suoi proclami fascisti. Come tale, non potrà mai trionfare – continua la dolce Josephine – e quindi il vincitore delle Presidenziali uscirà da queste primarie (la Sinistra non viene neanche presa in considerazione dopo gli anni di Hollande). C’è da sperarci, continuo a ripetermi mentre apro un rosé di Provenza, ben conscio che i Parigini fanno storia a sé, lo hanno sempre fatto e no, cara Josephine, non corrispondono per nulla al resto degli elettori Francesi.
Sta arrivando l’inverno. Al Sud, soprattutto i più giovani, il sole lo cercano altrove. Tre anni fa a Lamezia Terme è nato C.R.A.C (Centro di Ricerca per le Arti Contemporanee): il ponte culturale che vuole collegare la Calabria con le altre realtà internazionali, permettendo agli artisti emergenti di esprimersi al meglio. Lo scorso 28 ottobre, si è aperta la seconda stagione organizzata dal Centro lametino, “Lights in the storm”. Il titolo nasce proprio dalla riflessione sul senso di rabbia che fino a qualche anno fa un giovane calabrese poteva provare non trovando qualcosa di stimolante da fare, partendo da un semplice concerto o una mostra. La luce è arrivata pure a Lamezia.
LE MOSTRE – Gli scatti sono quelli di due artisti calabresi, Valentina Procopio e Guido Guglielmelli. Le loro mostre sono entrambe incentrate sul rapporto tra i costumi e le tradizioni dei loro territori e rimarranno aperte fino al prossimo 13 novembre. Il progetto di Valentina è “Luce Madre Casa“, con cui la fotografia diventa un mezzo per analizzarsi, la luce per analizzare una cultura locale. Come? Attraverso un simbolo religioso. Non c’è casa nel piccolo borgo di San Pietro Magisano (CZ), infatti, in cui manchi una statuetta della Madonna della Luce, madre protettrice del paesello. Secondo la giovane fotografa, questo è il punto di partenza per raccontare qualcosa delle famiglie che l’accolgono, perché ognuno lo fa in modo diverso, ma mai in maniera banale. Attraverso la chiave religiosa si può spiegare il titolo scelto dalla Procopio. Luce è metafora della fotografia stessa, madre come femminilità, pilastro del progetto e poi casa come il caldo focolare che l’accoglie.
LA GALLERY – “Luce Madre Casa”
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Guido, invece, ci racconta attraverso i suoi scatti A Pitë (la Festa dell’Abete), una tradizione per Alessandria del Carretto, nel cuore del Sud, sul Pollino. Secondo la leggenda, nel 1600 un martire trovò all’interno di un Abete bianco l’immagine di S.Alessandro Martire. Da allora, per devozione, ogni anno gli uomini alessandrini trainano a mano un enorme abete bianco dai monti più alti giù fino in paese. L’abete viene trascinato rigorosamente a mano lungo un percorso di circa 6 km. La popolazione è in festa e gli uomini vengono incitati continuamente con canti e balli tradizionali, degustando prodotti tipici e bevendo del buon vino locale. Nei giorni successivi l’albero viene levigato e issato a mano. All’estremità dell’abete viene fissata la cima di un secondo albero, a cui vengono appesi dei doni che potrà avere solo chi è in grado di scalare la Pitë. La gara è aperta, e gli abitanti di Alessandria sono tutti con il fiato sospeso. Al tramonto la gara può concludersi. La Pitë viene abbattuta, inizia il conto alla rovescia per il prossimo anno. Ho scelto di raccontare una delle tradizioni più suggestive della mia terra. Questa festa riesce a riconciliare l’uomo la natura, con le antiche tradizioni e con le proprie radici. Tutti sono indispensabili per la buona riuscita dell’impresa, la solidarietà e l’uguaglianza tra tutti i partecipanti sono valori preziosissimi che vengono tramandati di generazione in generazione.
Che fine fanno persone come quelle sgomberati dal campo di Idomeni? Un camper sta ripercorrendo la rotta meridionale dei migranti in Italia per scoprirlo. Un viaggio di due mesi, dalla Sicilia a Roma, dentro e oltre la rotta del Mediterraneo centrale: 32 tappe, 3.400 chilometri. Sono i numeri della campagna #overthefortress, un’azione di inchiesta e comunicazione indipendente salpata dal Porto di Igoumenitsa e sbarcata al sud Italia al fianco dei migranti e delle realtà locali per mettere in discussione luoghi comuni e narrazione dominante, per fare spazio alle politiche di buona accoglienza, solidarietà e impegno civile.
Nel marzo scorso la marcia della campagna #overthefortress, partita da Ancona e Bari per raggiungere il campo informale di Idomeni, sul confine greco macedone, si era ricompattata proprio in questa cittadina portuale. Da marzo la situazione per i rifugiati bloccati in Grecia, a seguito dell’accordo con la Turchia e la chiusura quasi ermetica della Balkan Route, è drasticamente peggiorata. Costretti a permanere in campi governativi in condizioni indegne, le loro speranze di raggiungere un altro paese europeo dove avere protezione, o di ricongiungersi con i propri familiari, sono appese al filo di un farraginoso e lento meccanismo burocratico. Per i siriani il relocation program è una ruota della fortuna che per molti di loro non girerà nel verso giusto, mentre per le persone provenienti da altre zone di guerra o miseria quel filo esile di speranza si è del tutto spezzato e le scelte, oramai, sono poche: richiedere asilo in Grecia, e in caso di diniego rischiare di essere deportati nel paese di origine, o pagare un trafficante, rischiando di essere respinti dai “cacciatori di migranti” alle frontiere militarizzate oppure di venire bloccati in uno dei paesi lungo la rotta dei balcani.
“Di fronte a un sistema emergenziale, alla violazione dei diritti, alla disumanitá che si propaga come una metastasi letale, sentiamo la necessità di metterci nuovamente in viaggio per raccontare, denunciare e agire assieme a coloro che non si sono assuefatti a questo presente”.
#overthefortress
La traversata del Mediterraneo non ha mai cessato di essere il tragitto più pericoloso del mondo e nell’ultimo anno sono più di 4.000 le vittime delle attuali politiche europee che non permettono di raggiungere in modo sicuro il vecchio continente. Pur se con numeri inferiori alla Grecia, gli arrivi in Italia (circa 145.000 persone) dimostrano come la rotta Mediterranea, in questo momento, sia l’unico varco aperto e, al tempo stesso, che il flusso migratorio dal nord Africa, per una serie di cause economiche, ambientali e sociali, sia da considerarsi strutturale e non possa più essere definito “eccezionale”. L’Italia è storicamente il paese di approdo della Rotta, ma da territorio per molte persone solo di transito (nel 2014 a fronte di 170.100 arrivi solo 63.456 richiesero l’asilo, nel 2015 su 153.842 persone sbarcate la cifra fu di 83.970 – Fonte:Eurostat), da quest’anno è un paese a stanzialità forzata perché di fatto viene proibita la possibilità di oltrepassare le frontiere a nord (leggi il nostro reportage “Aspettando Como“). Questo “nuovo” approccio delle politiche europee che attraverso i centri hotspot localizzati nel sud Italia impone ai migranti l’identificazione anche con l’uso della forza, da una parte è stato ulteriormente peggiorato dal cosiddetto Piano Alfano che ha sancito una prassi di deportazioni delle persone ferme a Ventimiglia e Como soprattutto verso l’hotspot di Taranto. Dall’altra, il blocco forzato nel paese e la sola possibilità di fare richiesta d’asilo per i migranti, ha messo in luce in modo evidente tutti i limiti del già precario sistema d’accoglienza italiano, per lo più legato a logiche di business e massimizzazione del profitto, palesando l’assenza di servizi adeguati e opportunità di inserimento sociale e lavorativo per i migranti. Questa colpevole improvvisazione, visibile soprattutto nella filiera dell’accoglienza straordinaria dal nord al sud Italia, è oltremodo evidente in quelle aree del paese dove i richiedenti asilo e, in generale i migranti, sono braccia senza diritti inseriti nel sistema di sfruttamento lavorativo del settore agricolo, spesso favorito dalla grande distribuzione.
A fine ottobre il camper della campagna solidale #overthefortress è sbarcato a Brindisi e per due mesi attraverserà le regioni del sud Italia. Partendo il 29 ottobre da Pozzallo in Sicilia, tappa dopo tappa, incontrerà e darà voce alle realtà sociali che lavorano con i migranti e che lottano con loro per ottenere diritti, monitorando nel contempo quanto accade nei territori.
PS. questo è un viaggio indipendente e autofinanziato, è attivo un crowfunding su Produzioni dal basso per sostenerlo. Con 5 euro si possono far percorrere 10 chilometri al camper. (In copertina, foto di Alfredo Bini)
Chi l’ha detto che i confini dividono? A Belmonte Calabro, piccolo borgo della costa tirrenica calabrese, arriva “Rifugi d’aria: Border”una festa di comunità che ha come prospettiva l’incontro e il continuo scambio culturale. Dal 21 al 23 ottobre, attraverso talk, laboratori, performance e walkabout si proverà a capire quali sono le condizioni di salute delle comunità, le possibili visioni, le buone pratiche che le attraversano o che potrebbero attraversarle. Un vero e proprio cantiere culturale, in cui verrà abbattuta un’dea ormai pericolante, secondo la quale i confini sono solo delimitazioni geografiche e privazione di inclusione sociale; e ricostruita quella più innovativa della contaminazione culturale, attivando diversi momenti di confronto. Quello del border sarà il tema base di queste tre giornate di musica, teatro e performing media.
VENERDI 21 OTTOBRE alle 11:00 con un workshop su videostorytelling per il rural marketing a cura di Pensiero Meridiano. Alle 16.00, il lab sul performing media storytelling per lo sviluppo global tenuto da Carlo Infante per Urban Experience. In chiusura la proiezione del docufilm “Triokala” del regista agrigentino Leandro Picarella.
SABATO 22 OTTOBRE sarà dedicato a esperienze di Walkabout, a cura di Carlo Infante e Massimo Ciccolini per Urban Experience. Attraverso il sistema di whisper radio, quello usato dalle guide turistiche, si darà il via a conversazioni ludico-partecipative. Non dimenticate di portare dietro gli smart-phone, fondamentali per scegliere i brani da ascoltare nella trasmissione radio, per pubblicare foto e tweet sui social e per spostarsi con le mappe interattive del geoblog che traccia i percorsi. Quello che ne uscirà fuori saranno dei veri e propri radio-walkshow, che lanceranno una sfida al dominio dei talk show televisivi.
Alle 17:00, i talk dal titolo “Un paese c’è già: nuove marginalità”, con interventi e relazioni di Carlo Infante, Consuelo Nava, Emmanuele Curti, Francesco Lesce, Giuseppe Mangano e Leandro Pisano e il dibattito: “Amministrare borderline o non amministrare? Dal basso per produrre nuove pratiche?” con il sindaco di Sant’Alessio di Aspromonte Stefano Calabrò.
Infine la performance teatrale “In bocca al lupo – ovvero l’uomo nero arriva dal mare” a cura di Piccola Compagnia Palazzo Tivoli e in concerto alle 22:30 la Fanfara Station in residenza presso l’Ex Convento dal 19 al 23 ottobre 2016.
DOMENICA 23 OTTOBRE, nella frazione di Santa Barbara, ci sarà un confronto con le varie realtà culturali, che da anni si battono per la valorizzazione dei borghi calabresi spesso abbandonati e dimenticati.
Un talk dal titolo Vecchie e nuove feste con festival come Radicazioni, Joggi Avant Folk, Felici e Conflenti, Cleto Festival.
Quando milioni di giovani in tutto il pianeta manifestavano per la pace in Vietnam non potevano immaginare che un giorno neanche troppo lontano quello sarebbe diventato uno dei pochi paesi al mondo senza guerra. Dieci, sono solo dieci i posti in cui si vive in pace – senza conflitti esterni o interni – nel 2016: Botswana, Cile, Costa Rica, Giappone, Mauritius, Panama, Qatar, Svizzera, Uruguay e Vietnam. In tutti gli altri ci sono conflitti più o meno striscianti. Poveri e profitti, oppressi e oppressori. E tanti, tantissimi ignavi che non lo sanno o che fanno finta di non saperlo.
13,600 miliardi di dollari e’ la cifra che il mondo impiega per darsi battaglia.
A fotografarlo è il Global Peace Index che, nel 2007 ha pubblicato per la prima volta l’immagine del mondo tra guerra e pace e da allora non fa che aggiornare l’escalation. L’indice è concepito dall’Institute for Economics and Peace (PEI) in collaborazione con una équipe internazionale di esperti di pace, da istituti di ricerca e da think tank (organismi sociali apolitici), su dati forniti e rielaborati dall’ Economist Intelligence Unit (società di ricerca e consulenza che fornisce analisi sulla gestione di stati e aziende).
Sono 81 i paesi in cui la condizione di pace è migliorata, ma in altre 79 nazioni la crisi mediorientale, le guerre del nord Africa e della penisola araba, il terrorismo hanno generato un peggioramento di vivibilità. “Afghanistan e Iraq sono in guerra da oltre 10 anni. A questi, si sono aggiunti Siria, nel 2011, e ancora Libia e Yemen – dichiara Steve Killelea, l’imprenditore australiano fondatore del PEI – L’incapacità di trovare possibili soluzioni a questi e ad altri conflitti ha fatto precipitare il mondo in uno stato di inuguaglianza e lontananza dalla pace. Se si eliminasse la zona Medio Orientale dalla cartina geografica ci si renderebbe drammaticamente conto del fatto che il mondo vivrebbe una condizione di tranquillità maggiore: Siria, Iraq e Afghanistan insieme, per esempio, generano il 75% di morti in battaglia rispetto al resto del mondo”.
CONFLICT | UNA MINISERIE SUI REPORTER DI GUERRA
MA COSA NE SA LA GENTE COMUNE DELLE GUERRE CHE INSANGUINANO IL MONDO IN QUESTO MOMENTO? Nulla. L’organizzazione non governativa International Crisis Group, che dal ’95 svolge un ruolo di ricerca e analisi dei conflitti in un’ottica di prevenzione e risoluzione, ha stilato un elenco delle 10 guerre da monitorare nel 2016 per le sorti umanitarie del mondo, ma nessuno se li fila. Il comunicato inserisce tra i conflitti a cui prestare maggior attenzione, prima di tutti, quello in atto in Siria (1) e Iraq (2), dove dietro la guerra al mostro Isis, o al conflitto religioso fra sunniti e sunniti, si nasconde la volontà geopolitica di potenze territoriali (Iran vs Turchia) o di potenze mondiali (Usa vs Russia) di mettere le mani su una delle regioni più ricche di giacimenti energetici del pianeta. C’è anche la guerra interna in Turchia (3) con Erdogan contro il Pkk, la nuova Intifada fra Israele e Palestina (4) a Gerusalemme e non manca nell’elenco l’Afghanistan (5), paese che è in balia di una guerra ormai decennale. Ma l’elenco identifica quattro conflitti africani fra quelli più sanguinosi. A nord è segnalata la Libia (6), dove la situazione d’emergenza e di scontri è continua anche in seguito al consolidarsi nella regione dello Stato Islamico. Per quel che concerne l’Africa sub sahariana le tre aree prese in considerazione sono quella del Sud Sudan (7), del Burundi (8) e del Lago Ciad (9). Il Lago Ciad è il centro degli scontri tra Boko Haram e la coalizione internazionale che lo fronteggia. Del Sud Sudan ci occuperemo più giù, mentre sul Burundi sappiamo che da aprile vede fronteggiarsi i governativi di Nkurunziza con l’opposizione, e sembrano riaffiorare ogni giorno di più gli spettri di un passato di morte che ha caratterizzato la storia recente del Paese.
Viene inoltre segnalata come zona di rischio l’area del Mar cinese meridionale, nella quale le contrapposizioni tra Stati Uniti e Cina hanno raggiunto livelli di tensione molto alti. Infine, ultimo Paese considerato sensibile è la Colombia (10), la terra della più longeva guerriglia del continente. Nonostante la prosecuzione dei colloqui di pace tra Farc e governo a L’Avana, una vera e propria cessazione delle ostilità nel paese latinoamericano non sembra arrivare, tanto che solo ieri (17 ottobre) l’esercito ha ammesso di aver catturato e ucciso un ribelle dell’Eln.
Parliamoci chiaro: accorgersi di queste sanguinose guerre sui nostri media è impossibile, eppure ogni giorno muoiono e soffrono milioni di esseri umani e l’Italia ha un ruolo (nemmeno tanto marginale) in diversi conflitti sparsi nel mondo: proviamo con un breve focus quindi a vedere da soli cosa sta succedendo in alcuni di questi scenari di guerra dimenticati dai grandi media.
LA FAIDA IN SUD SUDAN
Il Paese “più giovane” al mondo, nato nel 2011 con un referendum che ne ha sancito la separazione dal Sudan è tormentato da una guerra civile senza sosta. Le autorità militari sudsudanesi hanno affermato lunedì 17 ottobre che 56 ribelli sono stati uccisi negli ultimi due giorni in scontri tra governativi e forze d’opposizione vicino a Malakal, località nel nordest. Dall’inizio della guerra civile tra Kiir e Machar il Sud Sudan sta scivolando verso la catastrofe umanitaria. Secondo varie organizzazioni internazionali, da 4 a 5 milioni di persone rischiano di morire di fame e malattie per mancanza di cibo.
IL KASHMIR CONTESO
Il Kashmir indiano sta vivendo un periodo di proteste tra i più violenti degli ultimi anni. Coprifuoco, social network oscurati e giornali chiusi fanno da contorno a un clima che rimane fortemente instabile e vive negli ultimi giorni una escalation di tensioni, con operazioni militari lungo il confine. Una crisi, quella fra India e Pakistan, che viene da molto molto lontano, più precisamente dalle guerre indopakistane di fine anni 40, dovuti alla divisione della Colonia Inglese. Ancora oggi quei confini sono contesi col sangue; nello scorso anno sono iniziate le proteste e questa estate è scoppiata la guerriglia: il 30 settembre l’India ha chiesto il rilascio urgente di uno dei suoi soldati catturati dalle truppe pakistane nel Kashmir, il territorio conteso in cui Nuova Delhi ha detto di aver condotto “attacchi chirurgici” pochi giorni prima. Nella regione il coprifuoco è stato imposto dopo che, durante alcune manifestazioni per l’indipendenza dall’India, i militari hanno ucciso Burhan Wani, un giovane leader ribelle. Almeno 50 persone sono morte e centinaia sono rimaste ferite in due mesi di scontri.
INTIFADA PALESTINA
Gli ultimi dodici mesi hanno visto, nel silenzio del mondo intero, intensificarsi le violenze sui territori palestinesi occupati. Il centro dei disordini è nella west bank: intorno a Gerusalemme sono morte 274 persone nei passati 12 mesi, l’85% delle quali erano cittadini palestinesi. L’età media degli uccisi è di 22 anni, tuttavia è 19 anni l’età in cui muoiono più ragazzi. L’ultimo mese ha visto una escalation di uccisioni, l’ultima vittima è Naseem Abu Meizar, ucciso il 30 settembre dalle forze israeliane.
LA STRAGE IN YEMEN
Le Nazioni Unite hanno annunciato il 17 ottobre un cessate il fuoco di 72 ore su tutto il territorio dello Yemen nella speranza di mettere fine a un conflitto che in diciotto mesi ha fatto quasi settemila morti e ha innescato una gravissima crisi umanitaria. La guerra ha costretto almeno tre milioni di yemeniti ad abbandonare le loro case dopo che nel marzo del 2015 è entrata in azione una coalizione militare araba sotto il comando saudita per sostenere le forze del presidente Hadi. Altri tre milioni di persone hanno bisogno di aiuti alimentari immediati e 1,5 milioni di bambini soffrono di malnutrizione, denuncia l’Unicef. I negoziati di pace, che si svolgevano in Kuwait con il patrocinio dell’Onu, sono stati interrotti il 6 agosto dopo tre mesi di colloqui infruttuosi. Per il controllo del paese a Sud della penisola araba le forze occidentali (Stati Uniti in testa, ma anche Gran Bretagna, Germania, Francia e Italia) stanno supportando i principi sauditi in una serie di violenze inaudite. In una conferenza stampa a Sana’a, il ministero ha aggiunto altri 751 civili che sono stati uccisi e feriti negli attacchi aerei dell’8 ottobre; la coalizione ha distrutto anche centinaia di ospedali e scuole del paese.
D’inverno cade sempre la neve, nel resto dell’anno piove quasi ogni giorno. Il sole si vede poco, la pace di meno. Questo pezzo di terra fino al 1992 componeva il mosaico Jugoslavia, oggi la chiamano Bosnia ed Erzegovina. Ma potrebbe durare poco; ieri il 99 per cento dell’etnìa serba ha scelto il mantenimento della festa nazionale il 9 gennaio, un fatto che secondo il governo è una provocazione secessionista senza precedenti.
Quasi al centro del Paese c’è Sarajevo, capitale, “Gerusalemme d’Europa” e “meeting of cultures” come recita una scritta incisa su una delle strade principali della città. Su quella strada passano i piedi di donne integralmente velate e di uomini biondi, di imam e rabbini, sacerdoti cattolici, di ragazze italiane o francesi con i jeans strappati ad altezza del ginocchio. Vivono insieme ogni giorno, affrontando le conseguenze quotidiane e gli strascichi di un passato macchiato di sangue, componenti di tre diverse etnie: croati cattolici, serbi ortodossi e bosniacchi musulmani. La Bosnia ed Erzegovina fa i conti ancora adesso con tutto ciò che è stato; cerca di ripartire senza dimenticare il dolore subìto: i palazzi e i segnali stradali mostrano ancora i buchi dei proiettili. È uno Stato che ha seppellito troppi morti in fosse comuni, ha pianto troppe donne stuprate, ha assistito impotente alla distruzione di troppe case.
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A circondare Sarajevo, fino ad arrivare pian piano ai confini nazionali, piccole realtà di montagna arretrate e spesso protagoniste del massacro degli anni ‘90. Tra le più colpite, a 11 km dal confine serbo, c’è Cerska, un piccolo villagio di pochi abitanti (circa 1500) della zona montuosa orientale bosniaco- erzegovese. Durante gli anni del conflitto fu parte dell’enclave di Srebrenica e fu tra i primi paesi ad essere devastato dai soldati serbi guidati da Mladic. Per un attimo i giorni della guerra sembrano essere lontani ma invece tutto, lì, ricorda ancora i giorni che sono stati e che non dovranno più essere. Poche case di mattoni a vista molto distanti tra loro, mezzi di trasporto e di comunicazione quasi assenti: internet è un lusso, i bambini vanno a scuola (due le scuole elementari della zona) a piedi anche dopo le nevicate dei mesi invernali.
Nuclei familiari che hanno ereditato e si trascinano dietro un dolore enorme vissuto o raccontato. Arrancano a fatica in esistenze semplici con la loro povertà in case mai terminate: un orto sul retro, qualche gallina, un cane da guardia, abiti ricevuti dalle organizzazioni e fondazioni europee che operano sul territorio.
È in una di queste case che vive la madre di Samra, dodicenne con un tumore al cervello e crisi epilettiche. Con la piccola e sua madre vivono i due figli più grandi e il marito. Tutti gli uomini di casa sono disoccupati ma vorrebbero, un giorno, aprire un negozio di articoli tessili. Entrano dalla porta d’ingresso con delle pannocchie in mano e con addosso tre magliette identiche della Lazio (dono di una famiglia di Ostia che li aiuta a distanza). Tre le stanze in cui vivono: una cucina, un bagno con la doccia rotta, una camera da letto grande con un divano e i materassi impilati che la notte vengono poi distribuiti sul pavimento.
Non c’è spazio per i letti nelle case di Cerska. A venti minuti di distanza abita Elvira. Tante sono le lapidi disseminate lungo il percorso che separa le case. Lapidi singole o raggruppate, a volte cimiteri nel verde, tra gli alberi. Elvira ha due bambine, il marito è scomparso a causa di un infarto già da un paio di anni. Piange mentre lo racconta e fissa un quadro con una moschea in bianco e nero incorniciata e appesa su una piccola poltrona in finta pelle. Racconta con imbarazzo quanto è difficile fare la spesa per i pasti. Mentre lo dice lo sguardo si sposta sui fiori che ha appena raccolto e sistemato sul tavolino della cucina.
Una ragazza di Cerska (FOTO Camilla Cattabriga)
La bambina vive con le zie, la madre e altri cinque bambini nelle montagne di Cerska. (FOTO Camilla Cattabriga)
La solitudine di un giovane nella sua casa di Cerska (FOTO di Camilla Cattabriga)
Altri chilometri di salite e altre lapidi bianche per arrivare da Hava: sessant’anni, un figlio morto perché ferito e non curato per mancanza del denaro necessario. La sua abitazione è senza tetto da quasi quindici anni. Un coniglio in gabbia in un angolo di quella che è praticamente una capanna, un materasso sporco nell’angolo opposto con qualche coperta vecchia gettata a caso e proprio lì accanto un fornellino elettrico.
La Bosnia ed Erzegovina oggi è in parte (in gran parte) ancora questa.
È stata ed è ancora la vernice rossa gettata nei solchi lasciati dalle granate che hanno distrutto. Quella vernice è diventata un fiore che copre la ferita, una rosa che ingentilisce la cicatrice. Sono le stelle, tantissime, che riempiono il cielo. È il contadino che ringrazia della visita staccando delle pere dal suo albero, la moglie che porge – quasi vergognandosene – una busta di prugne (e mostra anche come sbucciarle). L’odore di fumo e a volte di sporco che entra nelle narici quando si varcano gli usci delle case. I denti rovinati o mancanti, anche nelle bocche dei bambini, che compongono sorrisi spenti, storti, vuoti. Sono le mani di una vedova che sistema in un vassoio dei biscotti nonostante abbia appena smesso di piangere per dei debiti che non sa come saldare. È l’abbraccio grato di chi vive col niente. Sono gli occhi persi nel vuoto e gli spasmi di un ragazzo ormai perso nella sua malattia a causa di un intervento fallito quando aveva solo sei anni. Sono i piedi scalzi che camminano sui tappeti della case dei bosniaco-erzegovesi di fede islamica e le orecchie che ascoltano il richiamo alla preghiera che proviene dalla moschea. Sono le braccia di altri sulla schiena mentre si ballano in cerchio danze del posto, danze veloci e travolgenti. È la ruga che attraversa la fronte di donne e uomini sui cui volti il tempo ha avuto troppa fretta di passare e scavare. È la certezza che arriva dritta nello stomaco appena te ne vai che di Bosnia ed Erzegovina bisogna continuare ad occuparsi, che comunque si chiamino in futuro, qui si deve andare e poi tornare. Si deve tornare per i gesti, per il dolore, per la rinascita di Samra e di sua madre, di Hava, di Elvira e di ogni singola persona che tra quelle montagne continua a soffrire.
È Lercio o non è Lercio? 70mila fan su Facebook e 15mila su Twitter. In poco tempo sono diventati un fenomeno virale sul web. Sono stati premiati, per la seconda volta consecutiva, al Macchianera Italian Awards come “Miglio Sito” e “Miglior Battuta”. Hanno ricevuto il “Premio Satira Politica” di Forte dei Marmi. Ora sbarcano al Teatro Rendano di Cosenza (23 settembre 0re 19) con uno spettacolo spumeggiante che sarà il fiore all’occhiello dell’area editori della nuova edizione del Festival del Fumetto. Ebbene sì, è proprio Lercio.
La redazione di Lercio premiata ai Macchianera Awards
Patrizio Smiraglia mi risponde in mattinata dalla redazione di Lercio.it; domanda inevitabile: cosa pensi della vignetta di Charlie Hebdo su Amatrice e delle reazioni che ha suscitato in Italia?
«Ci sarebbe tutto un discorso da fare sulla satira, la tragedia o sulla tragedia + spazio-tempo come dice Luttazzi. La vignetta in sé è brutta. Diciamo che una vignetta simile fatta da un italiano sarebbe inconcepibile. Un francese, invece, essendo lontano dalle vittime, non le sente, non gli riguarda. Il tentativo di spiegarla il giorno dopo, non mi è piaciuto, perché se il significato era che ancora in Italia nel 2016 si muore per un terremoto, quando in realtà ci sarebbero tutte le tecniche antisismiche per evitare queste tragedie e quindi una critica all’Italia e al suo modo di fare politica o alla mafia, che si infiltra sempre negli appalti, il significato potrebbe essere anche accettabile. Ma nella prima vignetta questo significato non c’era. C’era solo uno sfottò alle vittime, che sono “schiattate” e sono diventate come una lasagna. È stata indelicata e non è stata salvata dal secondo tentativo».
Al di là dei troll, c’è ancora chi commenta e condivide i vostri link credendo siano notizie vere o, peggio, bufale: c’è rimedio per chi non capisce l’ironia?
«Ironia: devi arrivare a capirla. Comunque ancora non ci conoscono tutti, quindi una persona che si avvicina per la prima volta a un computer, magari anche di una certa età, è chiaro che ha difficoltà a distinguere cosa è vero da cosa è falso o cosa è scherzoso. Tra l’altro il linguaggio è molto simile a quello giornalistico, Lercio nasce per questo. Il fatto che qualcuno non capisca non è un buon motivo per non continuare a fare ironia anzi, dobbiamo continuare così la prossima volta potranno capirlo anche loro. Poi nel Paese c’è un grande problema di analfabetismo funzionale, oltre che digitale. Qualche giorno fa l’ISTAT ha certificato che in Italia c’è un 47% di analfabetismo funzionale: gente che legge un testo senza capire cosa ci sia scritto. Quindi parliamo di un Paese facilmente manipolabile dalla propaganda, anche televisiva oppure in questo periodo possiamo parlare di quella sul referendum, con cui si punta proprio sul manipolare la gente».
– I manifestanti pro Silvio pagati 10 euro a testa.
– Ma non si vergognano?
– Sì, per altri 10 euro.
(Patrizio Smiraglia)
Nell’ultimo periodo siete spesso superati dalla realtà: qual è la notizia che ti ha fatto dire: “Ah ma non è Lercio!”
«Sì. Di recente, ce n’è stata una, davvero assurda, sul Corriere Adriatico che diceva “Uomo nudo ruba un cavallo e scappa per i boschi: task force per fermarlo”; un’altra è stata la polemica su Gianni Morandi che va a fare la spesa di domenica: una così così stupida che voglio pensare che sia artefatta; ma soprattutto, in questi giorni, c’è la campagna del “Fertility Day” della Lorenzin, per esempio fra le ultime immagini ci sono le compagnie da frequentare e le cattive compagnie, di cui poi lei ha detto di non sapere niente e che addirittura rimuoverà il dirigente – poverino! – ma la Lorenzin sta facendo figuracce una dietro l’altra! È tutto un modo di fare politica che crea una visione distorta della realtà, della società: i ragazzi veri non sono quelli delle pubblicità “belli” e “perfetti”».
Lercio.it ha così preso in giro le discusse campagne pro fertilità del ministro della Salute
Lercio è un caso particolare, ma anche sul vostro sito la maggior parte dei lettori si ferma al titolo? Se sì, avete in mente qualche iniziativa per far rimanere di più il pubblico sul vostro portale?
«Noi abbiamo le “ultim’ora” che si fermano al titolo e gli articoli lunghi. Sicuramente, dovremmo fare qualcosa per portare un po’ più di traffico sul sito, perché abbiamo dei numeri pazzeschi sulla pagina Facebook, ma non sul sito. Il fatto è che, purtroppo, molti lettori, anche i più affezionati non hanno ancora ben chiara la differenza tra ultim’ora (notizia breve) e articolo. Ancora molti mi chiedono perché a volte c’è solo la foto, perché non trovano la notizia. Stiamo facendo di tutto per chiarire questa confusione».
Siete partiti sfottendo i siti di informazione “fast food” e sensazionalisti, che dati avete nel pubblico giovane? Secondo te c’è speranza per la satira e la denuncia o andremo sempre peggio?
«Io spero ci sia un ritorno della qualità. Sarebbe più furbo per un editore puntare su questo, visto che ormai il trucchetto di scrivere i titoli sensazionalistici, titoli inutili, lo usano tutti. Purtroppo anche i grandi giornali, che si sono adeguati al ribasso, al “fast food”. Un’anticipazione della notizia nel titolo invece mi ingolosirebbe di più. Un giornale che si voglia distinguere dovrebbe puntare sulla qualità e dovrebbe dare una discreta spiegazione nel titolo e convincere con gli argomenti il lettore a cliccare sulla notizia. Sarebbe anche più facile, perché lo stratagemma del titolo sensazionalista ormai ha scocciato un po’ tutti».
Avete deciso di allargare la vostra comunità offline con un libro e uno spettacolo teatrale, com’è nata questa decisione, che aspettative avete?
«Noi abbiamo vinto il premio “Macchianera” del 2014 come “Miglior Sito d’Italia”, di sabato; e il lunedì siamo stati chiamati dalla “Rizzoli” per fare un libro. Eravamo contentissimi! In un mese abbiamo confezionato il libro, che è stato mandato in stampa; è uscito per Natale e poi la Rizzoli se l’è totalmente dimenticato, visto che non lo ha mai pubblicizzato. Quindi abbiamo iniziato noi a portarlo in giro, organizzando varie presentazioni. Ma molti, molti dei nostri fan non lo sanno nemmeno che abbiamo un libro! A giugno scorso comunque è andato in ristampa, perché siamo 40 ragazzi sparsi in tutta Italia, abbiamo fatto molte serate ognuno nelle proprie zone, nelle librerie e siamo riusciti a vendere tutta la tiratura, tanto che la Rizzoli l’ha ristampato, ma sempre per tenerlo in qualche cassetto, perché se non ci pensiamo noi, nessuno ci aiuta! Lo spettacolo invece è nato probabilmente da una partecipazione alla trasmissione di Serena Dandini e abbiamo visto che funzionava leggere le nostre notizie in studio. Poi abbiamo iniziato a proporla nei locali ed è andata bene. E alla fine abbiamo deciso di scrivere un copione, fatto dalle nostre notizie più varie rubriche, quindi un vero e proprio Tg satirico, fatto anche di un gioco interattivo con il pubblico, in cui si deve distinguere la notizia di Lercio da quella della stampa – per dire – “seria”. Ci stanno chiamando in molti, quindi sta andando bene».
Mente, non mente e chi lo sa e forse poco importa. Non è pigro di testa, non lo è stato mai. Forse oggi è più ben vestito che anni addietro. Giovanni Lindo Ferretti inizia il check sound della sua tappa calabra del tour “A cuor contento” portando con sé una specie di tavoletta avvolta da un panno. Al suo fianco, nel check come nel concerto, ci sono i musicisti Ezio Bonicelli e Luca A. Rossi. Da quella tavoletta non toglie fuori un temibile iPad ma dei fogli di carta con testi e salmodie. Cambia il tempo, cambiano le sue opinioni ma continua a mantenersi distante dalla tecnologia se eccessiva. La data del concerto è suggestiva: 11 settembre. Quindici anni prima, dopo l’attacco alle Torri Gemelli e dopo le sue dichiarazioni su Occidente, Oriente, Cristianesimo e mondo musulmano, tanti dei suoi fan lo hanno additato come un traditore.
Giovanni Lindo Ferretti a La Sila Suona Bee ’16 (FOTO Domenico Orfeo Zauber)
Archimedia lo voleva portare in cima alla Sila, sul Monte Curcio dove già suonò Capossela, ma «qui comanda l’acqua, qui comanda il vento», si rassegna Ferretti e si canta in una palestra di Camigliatello. Come fossero gli anni Ottanta perché, in trittico con Bonicelli e Rossi, in fondo sembra di assistere ad un concerto dei Cccp senza Annarella e Fatur ma suonato molto, molto meglio di chi partecipava a quei mistici spettacoli. Fuori c’è il temporale, dentro un po’ di diffidenza, anche fra i fan più fedeli alla linea. La linea c’è. Eccome se c’è. La si vede chiara quando Giovanni Lindo intona Tomorrow, Mi ami?, o Tu menti. Il tour di A cuor contento racconta anche i Csi. Brani come Cupe vampe, Del mondo o Occidente fanno smettere a quel fesso in prima fila di alzare il terzo dito verso il cantante. Ferretti conquista e riconquista gli scettici convincendoli che il vero punk è ancora lui che continua a far parlare di sé da 30 anni. Si rinnova nella sua tradizione e il pubblico, racconta lui a fine concerto, «non lo ingannerebbe mai con qualche furbata» perché «io dico sempre e solo quello che penso anche quando salgo sul palco». Fra And the radio plays e Battagliero c’è spazio per la rivisitazione di Radio Kabul che diventa, oggi che la guerra è diversa da quella della fine degli anni Ottanta, Radio Mosul dove le grida e il sangue però si assomigliano sempre. La terra, la guerra sono sempre una pubblica questione privata che Giovanni Lindo Ferretti continua a portare dentro il suo animo e fuori dalla sua voce. E grida, grida e non vuole finire nemmeno quando insieme a lui il pubblico intona che «La terra è pesante, pesante da portare» o quando dalle vette della piovosa Sila, Emilia paranoica riecheggia come una canzone di casa. S’è fatto pensiero del Consorzio suonatori indipendenti, protagonista del cambiamento dei Per grazia ricevuto, s’è preso le critiche per i suoi progetti da solista ma con A cuor contento, Giovanni Lindo Ferretti permette di capire che l’anima che resta dentro di lui è quella che andava da «Carpi al Tuwat». Applausi e zero critiche. Sorridete, Cccp è (ancora), con voi.
Istantanee del concerto di Giovanni Lindo Ferretti realizzate da Francesco De Vuono
Ammazzare la vita o farsi ammazzare dalla vita. Sanno tutti qual è stata la scelta di Alessandro Bozzo, 40 anni, giornalista come sanno esserlo pochi. Alle Idi di Marzo dell’anno numero 2013 ha preso congedo dalla redazione centrale di Calabria Ora come non faceva mai, si è chiuso in casa sua a Marano Marchesato e si è sparato un colpo a bruciapelo con la beretta semiautomatica 98fs calibro 9×21 legalmente detenuta. Ha lasciato tre pagine ai suoi cari per spiegare il gesto. Sul corpo, come da prassi, è stato disposto l’esame autoptico.
Lui, rapace cronista di Donnici, le scriveva esattamente così. E così voleva che le scrivessimo. Poche storie, ti faceva sedere accanto a lui e falcidiava senza remore, con tocchi sulla tastiera pronunciati come echi di guerra, tutta quella roba da mammolette che non aveva a che fare con la notizia. Diceva proprio così.
– “Frasi corte e pochi aggettivi, cazzo”.
Il silenzio era interrotto solo da commenti capaci di farti sprofondare un metro ad ogni risatina dei colleghi. Poi si alzava per andare a fumare, soddisfatto. Aveva praticamente riscritto di sana pianta la cosa. Infine si girava già con la sigaretta pendula dalla bocca, ti dava una pacca e diceva:
– “Hai fatto un buon lavoro”.
Gridava come un pazzo se ti scappava il racconto in prima persona e forse perché ora vorrei che lo facesse per coprire questo silenzio che scrivo così. Che io scrivo. Perché di noi restano le parole. Questo di una lunga serie è il suo ultimo insegnamento. Le strampalate espressioni da film western continuano a rimbombare su quei pezzi di carta, come se quella voce inconfondibile nel nulla dei perché riuscisse a ricoprire anche il sordo rumore dello sparo. Le parole sono forti. Estranee all’anagrafe quelle con cui chiamava le vite degli altri; nomignoli capaci di reinventare il ruolo svolto da ognuno nella farsa dell’esistenza. A ripassarli ti pare di essere nell’ambientazione di uno dei romanzi che adorava citare. Per le qualità che dimostrava ogni fottuto giorno al lavoro Alessandro avrebbe meritato di commentare le semifinali di Wimbledon, o comunque di ricoprire i più alti ruoli all’interno dei giornali in cui ha lavorato con abnegazione unica, ma – lo sanno tutti – non è andata così.
L’impatto del giornalismo sulla società, soprattutto a latitudini meridiane, è in profonda crisi perché i molti pavidi si sono imposti sui pochi Bozzo. Lui sapeva benissimo che non esistono poteri buoni e sapeva anche che la libertà di stampa è un gioco lento e buio, fatto di partite perse, di censure d’ogni tipo. Ogni giorno, santo o dannato che fosse, lasciava agli altri le luci della ribalta e si dedicava con una concentrazione bizzarra quanto inviolabile a quelle del suo monitor. Questo fino a quando non mandava alle stampe le sue pagine, che a volte lo tradivano e si chiudevano da sole, facendolo smadonnare contro i tecnici. Quando finiva, a tarda sera, soddisfatto alzava a palla il volume di una videoclip musicale di Youtube per poi bitumare il primo che gli capitasse a tiro. Odio e amore, l’oscura passione per il suo lavoro lo faceva sentire come l’Andrè Agassi di Open, l’ultimo libro di cui abbiamo discusso.
Ha sempre lottato per essere libero nella stampa. In anni lunghissimi. Nei giorni dell’ennesimo disastro, dopo una grossa notizia che provarono a censurare dalla Regione e un susseguente truculento braccio di ferro con l’editore, la spina dorsale della redazione, direttore compreso, si era liquefatta in una lettera di dimissioni. Per i colleghi più giovani in quelle ore di ammaraggio impersonò l’uomo della salvezza; ma lui subito si affrettò a spiegarci che era ormai tramontata un’epoca di lotta collettiva, che da quel momento in poi saremmo stati ognuno da solo contro i mercanti di tappeti. Come sigarette che bruciano, pendevamo dalle sue labbra e, nel caso a qualcuno fosse lo stesso sfuggito il concetto, fu pronto a rimarcarlo: quei tappeti eravamo noi e il mercante era il più tremendo che potesse capitarci.
Amava la politica, ma odiava potenti e arroganti. Aveva l’amicizia e la stima di molti politici, ma il suo lavoro non è stato amico di nessuno di loro. Il giorno che morì prematuramente il già presidente della Provincia di Cosenza Antonio Acri, raccontò di quando davanti a tutti venne da lui indicato prima di queste parole:
– “Attenti a questo qui, lo considero un amico, ma per dare una notizia non guarderebbe in faccia nemmeno alla madre”.
Alessandro Bozzo rispose a voce alta che quello era il più bel complimento che gli avessero mai fatto. Teneva le sue idee politiche lontane dal suo lavoro, ma la sua coscienza civile c’era sempre. Sapeva farsi rispettare e quando non poteva scrivere una notizia in un pezzo cercava di infilarcela diversamente, con un ghigno beffardo di soddisfazione. Un esempio ne sia la sera in cui fece quella matta copertina, sapendo che non l’avrebbero mai fatta passare. Si era organizzata in Comune la visione collettiva dell’insediamento di Obama, una cosa obiettivamente pleonastica. Mise a tutta pagina l’ottima foto che ritraeva il primo cittadino seduto di spalle nella sala deserta, mentre sullo sfondo compariva il maxischermo con l’immagine di Barack. In basso il titolone, in carattere Georgia, cubitale sullo stile de Il Manifesto:
“CAZZONE AMERICANO”.
Bozzo era capace di far cadere una giunta con una didascalia ironica, diceva:
– “Prendili per il culo i potenti, falli incazzare e litigare fra loro così domani abbiamo un ritorno, e se ti rompono il cazzo dai sempre la colpa a me. Poi se mi chiamano chiaramente gli dico che sei un coglione”.
Poliziotto buono poliziotto cattivo, ci giocava anche con se stesso. Nelle maglie della Procura di Castrovillari era stato messo alle strette da uno scorbutico magistrato insieme a Luigi Brindisi, suo giovanissimo pupillo. Doveva dare conto di una telefonata fatta sul cellulare del piemme per verificare una notizia, erano gli anni de La Provincia Cosentina dei record, quando lo mandarono per un praticantato nella città dormiente. Era un’opportunità che viveva come un esilio, visto quante volte aveva pestato i piedi ai potenti animali politici della infida foresta bruzia. Quella sera disse male. Sbagliarono numero, beccando il Procuratore della Repubblica sbagliato:
– “Chi parla? Questo è un numero di servizio di conoscenza esclusiva alle forze dell’ordine in servizio, voglio sapere come l’avete avuto, altrimenti sappiate che su questa storia apriremo un fascicolo”.
Così gridò ai due ragazzi di stampa l’uomo di legge, chiedendo le loro generalità.
– “Bbi, bbi, o, zeta, zeta, o. Bo-zzo. Buonanotte”.
E chiuse il telefono senza scomporsi. Proprio come quell’altra volta in cui il cazziatone dovettero sorbirlo da un altro Procuratore nei corridoi del Palazzo di Giustizia. Finalmente interrotto il diluvio verbale, con il giudice convocato nella stanza del suo superiore, Luigiuzzu indirizzò le antenne, pronto a recepire il commento dell’amico e maestro sul da farsi:
– “Che cazzo fai lì impalato, entra e fatti uno squillo dal suo telefono così ci prendiamo anche questo numero. Io ti faccio il palo e ti avverto se torna!”.
Inarrivabile. In quindici anni di carriera circa venti fra querele e citazioni. Che io sappia non è mai stato condannato, neanche quella volta che un politico gli chiese 250mila euro per un suo pezzo su finanziamenti illeciti. Me lo raccontò quando gli dissi che l’assessore che aveva fatto avere lo stipendio da vigile urbano al nipote meccanico me ne chiese 180mila per un titolo che lo accostava alla parola Parentopoli. In caso di condanna avremmo saldato il conto in dodici vite di lavoro, al patto di sommare gli stipendi, dicevamo stemperando.
Se era in vena iniziava a parlare di vino, razze di uccelli e distese del Canada per moltissimo tempo, senza farti fiatare. Quando invece c’era da andare sul posto il silenzio della battaglia attanagliava il suo spirito guerriero. Era il primo ad alzarsi dalla scrivania, veniva posseduto da un demone. Come quella volta che si fiondò nelle campagne di Morano intontite dalla neve, o quell’altra volta alla partita di calcio con ammazzatina.
Ogni sconfitta lo feriva, ma ogni vittoria lo esaltava. Quando leggeva su altri giornali le notizie che non ci avevano fatto scrivere faceva un plateale gesto di disappunto, ma in fondo si vedeva che era contento lo stesso; lo riteneva un pareggio, perché il suo unico padrone era la notizia. Ricordo che andò così quando arrivò l’ordine di lasciar stare la storia della Curva Nord dello stadio di Cosenza interamente dedicata al boss uscito dal 41bis. Dopo l’esame da professionista lo cacciarono, ma poi arrivò il nuovo giornale, e nei primi tempi, molto prima di quella domenica di mafia e di sport, di vittoria ne ottenemmo qualcuna.
Un pomeriggio arrivai in redazione con i documenti che dimostravano stranezze negli appalti di funerali e tumulazioni dei defunti ospiti di una clinica privata della Sibaritide convenzionata con la Regione Calabria. Non mi era ancora concesso di partecipare alle riunioni, così aspettai su uno squallido divanetto rosso e nero il responso. Uscì per primo, mi diede un calcio e mi schernì, contento perché il fottuto presilano aveva spaccato con una notizia cazzuta. Disse proprio così.
– “Comunque il tuo pezzo migliore resterà sempre quello del prete che se l’è svignata”.
L’occhiolino diceva tutto. La notizia del racket del caro estinto non sarebbe mai uscita, mentre quella della misteriosa fuga del parroco era la prima vittoria che riuscimmo a fare insieme. Era un’altra domenica pomeriggio, lo telefonai direttamente dalla casa del prelato che non si presentò a messa, prima ancora che arrivassero i carabinieri per le verifiche. Mi parve di capire che era a pranzo con ospiti e che si chiuse in bagno ad esultare perché quella notizia l’avremmo avuta solo noi. In redazione chiamarono in tanti fino alla notte, dalla sede vescovile e altro ancora. Per qualche motivo che non capivo bene, volevano a tutti i costi che non la pubblicassimo e provarono in ogni modo a fermarci. Al cellulare un funzionario delle forze dell’ordine mi minacciò in modo nemmeno tanto velato, mi disse che mi avrebbe reso la vita impossibile – e così per qualche settimana fece – ma il direttore intervenne a nostra difesa, dandoci la forza di andare fino in fondo. Il giorno dopo venne giù l’arco celeste. Pietrificato, senza riuscire a dire una parola per ore, mi trascinai tremolante in redazione. Poi arrivò Bozzo, che come un gringo già dal parcheggio gridava parolacce di giubilo con il giornale in mano come fosse un Winchester. Scoppiammo tutti a ridere.
I giorni continuano a sovrapporsi nel ricordo, confusi e infelici. In uno c’è la Digos in redazione a cercare nei cassetti per censurare la pubblicazione della relazione d’accesso di un prefetto al Asl di Locri, in un altro c’è la lettera gialla sulla sua tastiera bianca. Se non la smetteva con la politica e con Cassano, gli avrebbero fatto saltare la testa, a lui e all’editore. Così c’era scritto. Si girò, ce la fece leggere, ci scherzò su e continuò a lavorare. Il giorno dopo tornò preoccupato, ma mentre i colleghi perdevano delle ore a rimpastare le dichiarazioni di solidarietà che arrivavano alla redazione, lui in un attimo le sostituiva con una riga:
“Diffusa solidarietà dal mondo della politica”.
Oggi farebbe lo stesso, non accetterebbe ipocrisie da parte di nessuno. Questa sua visione del mestiere emerge già dagli scritti giovanili su un giornale di quartiere che si chiamava Risvegli. C’è un articolo particolare del 1993, brillante quanto sconosciuto, su Kafka, nel quale Bozzo usando la prima persona (tiè!) analizza il rapporto fra le parole e il lettore. Inizia così:
“Io somiglio a quei selvaggi di cui si dice che non desiderino altro che morire, o meglio, non hanno nemmeno più questo desiderio, ma è la morte che ha desiderio di loro e loro le si abbandonano, anzi non le si abbandonano nemmeno, ma cadono semplicemente nelle sabbie e non si rialzano più”.
Sosteneva quindi che gli scritti non si muovono verso il lettore per comunicargli un messaggio o imporgli un senso, ma esistono nella ricerca della propria “morte”, che significa azione. Quando trovano un lettore che ha “desiderio” verso di loro, semplicemente gli si abbandonano, come in un sogno, o qualcosa del genere. Scrisse proprio così. Basterebbe questo stralcio a spiegare perché il suo esempio è da collocare accanto a quello dei migliori nel giornalismo meridionale, ma odiava i complimenti retorici, figuriamoci postumi. Se te ne voleva fare uno, al massimo ti diceva che eri un duro. Altrimenti eri un filisteo. Del resto i capelli lunghi che Alessandro Bozzo amava intrecciare fra le dita erano un segno distintivo al pari del mito di Sansone. L’imbattibile eroe dalla forza prodigiosa, astuto con gli uomini quanto ingenuo con le donne, che comprese come quello di far crollare il tempio fosse l’unico modo per vendicarsi dei nemici, anche a costo della propria vita.
Sansone è morto, a morte i filistei.
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Tratto da “Sacro Fuoco, storie di libertà di stampa”
Non è l’albergo a cinque stelle citato dai razzisti, ma non è nemmeno una bettola. Il Centro di accoglienza straordinaria di Conflenti, nel catanzarese, è migliorato molto dall’ultima visita della rete LasciateCIEntrare. Lo gestiva una cooperativa che oggi non ha più la possibilità di chiedere al prefetto l’attivazione di un Cas. Tre lettere che in questa estate calabrese sono diventate “magiche” per alcuni. I centri di Accoglienza Straordinaria (CAS) sono stati immaginati per sopperire alla mancanza di posti nelle strutture ordinarie di accoglienza. La permanenza dovrebbe essere limitata a poco tempo, ma ormai tutto questo è diventato la norma. Di colpo i migranti non sono più un problema ma sono diventati una risorsa (economica), grazie alla facile possibilità di aprire un Cas con un’associazione, una cooperativa o un’azienda. Basta andare in una Prefettura, dimostrare di avere una struttura e si ottiene il permesso. Facile. Fin troppo: è il Motel Migrante.
In Calabria, questa estate, sono sbarcati quasi tremila migranti. Molti di loro sono dei rifugiati politici e chiedono di accedere al programma Sprar che dovrebbe consentire allo Stato italiano di metterli al sicuro dalle guerre e dalle violenze da cui sono costretti a scappare. Nella gran parte dei casi, se non fosse per le associazioni a cui vengono affidati i progetti dello Sprar, queste persone sarebbero totalmente allo sbando. Yasmine Accardo è la responsabile territoriale di LasciateCIEntrare, vive fra la Basilicata (“la Lucania”, come dice spesso lei), e la Calabria. In Calabria questa estate è venuta molte volte. O lei o qualcuno dei suoi colleghi, perché i Cas nella regione sono diventati molto appetibili: sono finiti nei business di alcune delle famiglie della politica o di quelle che si occupano di sanità privata; sono entrati un po’ nel mirino di tutti, persino nel mirino di chi possiede un hotel. Accade a Rende, a un passo da Cosenza (città in cui passano molti migranti perché, fra loro, si è sparsa la voce di come il sistema accoglienza alternativo a quello della burocrazia funzioni molto bene), per esempio dove un residence è diventato prigione dorata per 20 persone, tutte richiedenti asilo provenienti dal Togo, dalla Nigeria, dalla Guinea, dall’Eritrea. Con Yasmine a far visita a questi centri ci sono Emilia Corea dell’associazione La Kasbah di Cosenza e l’attivista Francesco Formisani.
La zona notte di un Cas nella Sila Cosentina
Immagini di quotidianità dai nuovi Cas nella Sila Cosentina
Un centro di accoglienza straordinaria nella Sila Cosentina
A Conflenti, qualche mese fa, la situazione era molto critica: uomini e donne vivevano tutti negli stessi spazi, problemi con il cibo e con i pocket money. Già i pocket money: lo Stato paga, per ogni migrante presente in un Cas, 35 euro, questi soldi dovrebbero servire per “gestire” le esigenze degli ospiti come telefono o all’acquisto di beni primari. Ad ogni migrante del Centro vanno 2.50 euro giornaliere che però vedranno solo a fine mese. Molte volte questi spiccioli vengono pagati in ritardo oppure non vengono spesi realmente per le esigenze dei migranti, ma in una parte dell’opinione pubblica ormai “loro” vengono qui a rubarci i nostri soldi, a rubare le tende ai terremotati. In questi giorni però il razzismo da bar ha subìto un duro colpo: i settantacinque migranti delle strutture Sprar di Gioisa Ionica hanno deciso di donare i 2.50 euro giornalieri del loro pocket money alle popolazioni terremotate di Lazio, Umbria e Marche. Hanno voluto aiutarci a casa nostra. Tanti i migranti che sono andati a spalare macerie nelle zone del terremoto. Ma queste sono cose che ai Bertolaso da bar non interessano. A Conflenti scopriamo che i Cas gestiti da Erima sono due: uno per donne e uno per uomini. A separarli, in questi giorni, c’è la festa patronale che impedisce alle auto l’ingresso in paese. Le donne sono 13 e c’è lì una bambina che ha meno di due anni. Non c’è nessun operatore quando arriva la delegazione. Le donne vengono quasi tutte dalla Nigeria e una dal Mali, sul volto qualcuna porta i segni dell’etnia d’appartenenza, altre della violenza. Due delle ragazze dicono di avere “eighteen years” ma abbassano lo sguardo quando lo dicono. Meglio stare con i maggiorenni che essere sbattute in centro per minori avranno pensato. Quattro donne sono incinta, una di loro ha la pancia così bassa che hai come l’impressione che ti partorisca davanti agli occhi. Il medico non lo vedono da tempo e quelle arrivate da pochissimo non hanno fatto ancora nessuna visita, non hanno iscrizione al Servizio sanitario nazionale e lamentano che l’acqua arrivi solo dal cassone. Aprono il rubinetto e si sente l’autoclave partire. La tv è accesa sul canale della Paramount perché ha il doppio audio e la si ascolta in inglese. Tredici donne africane guardano le storie dei protagonisti del cinema americano sognando di stare altrove e non in quella struttura. Arriva uno dei responsabili della cooperativa e gli attivisti raccontano delle istanze che hanno sentito. Lui garantisce che tutto è ok: c’è lo psicologo, il medico, l’avvocato e tutto quello che serve ma, quando Emilia, Yasmine e Francesco insistono dice che accontenterà le altre richieste delle ragazze anche se «c’è sempre qualcosa per cui lamentarsi».
Letti senza materassi in un Cas nella Sila cosentina
Il pasto per gli ospiti di un Cas nella Sila Cosentina
Immagini di un centro di accoglienza straordinaria nella Sila Cosentina
Al Cas degli uomini, come dalle donne, i migranti possono cucinare da soli ciò che mangiano. E’ un fatto eccezionale perché quasi sempre viene imposto un servizio di catering che non tiene conto di gusti o esigenze religiose. Gli attivisti vedono che le cose sono migliorate rispetto alla precedente gestione. Ci sono diciannove uomini nella nuova struttura (una ex casa famiglia), e undici che stanno nel mattonificio lì vicino presto dormiranno sotto lo stesso tetto degli altri. Qui gli ospiti arrivano anche dall’Iraq, dal Camerun oltre che Nigeria e Mali. Ci sono anche una donna che sta aspettando di andare a Foggia dove il marito ha trovato lavoro e due minori affidati ad uno zio.
Tutti però raccontano di come il posto sia isolato e questo riporta al tema principale: mettere in piedi un Cas oggi è fin troppo facile e questo fa in modo che vengano aperti in località molto periferiche. Nella turistica Camigliatello, trenta chilometri da Cosenza, la prefettura ha fatto chiudere un Cas dopo che le associazioni hanno denunciato la situazione in cui i migranti vivevano. Una situazione di degrado. Una foto vista troppe volte in questa calda estate italiana.
Il Cleto Festival ci lascia in eredità un fiume di pensieri sparsi e uno zaino zeppo di impegni sociali e civili che andrà ben utilizzato in questo anno che ci apprestiamo a vivere prima di ritornarci. Chi vede in questo festival solo un’occasione per rivedersi con gli amici alla fine della stagione estiva, oppure esclusivamente una piazza festante a botte di musica e bicchieri di vino sbaglia, e di grosso. Cleto è un festival auto prodotto, con pochi sponsor, ricercati tra le aziende più oneste, attente al sociale e all’ambiente sul territorio. Un laboratorio umano alimentato dal lavoro certosino e silenzioso di un gruppo di ragazzi, quello dell’associazione La Piazza e di tutti gli altri collettivi che riescono a coinvolgere, che ha deciso di non abbandonare il proprio paese, ma di viverlo e vivacizzarlo in tutto l’arco dell’anno. Cleto è il luogo della Resistenza umana, della creatività e della fantasia, della ricerca di un modo diverso di vivere la nostra terra sganciandosi dalle solite dinamiche clientelari. Cleto è il posto dove la mediocrità non è di casa, dove qualsiasi forma di arte trova spazio tra i vicoli del borgo ad esclusione dell’atavica arte di sopravvivere accettando le briciole dei potenti di turno. Cleto è il posto della discussione libera, della riflessione nella musica, nel teatro, nell’arte, nella gastronomia.
(fotoservizio di Marco De Laurentis)
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Qui infatti si può bere e mangiare sano rispettando l’ambiente e contrastando le logiche dello sfruttamento delle multinazionali, stabilendo un contatto diretto con le piccole cooperative di contadini dell’America Latina e dell’Asia attraverso i prodotti del commercio equo e solidale. Anche solo per questo Cleto nei giorni del Festival diventa uno dei tanti momenti in cui si è orgogliosi di appartenere a questa terra; non ci sono “posti riservati” e gli unici politici che si intravedono nel borgo sono i piccoli amministratori dei comuni più virtuosi, quelli che hanno saputo valorizzare i beni comuni e dare dignità e forme umane all’accoglienza. Anche i giornalisti si distinguono, difficile trovare testate nazionali, e invece facile rintracciare in dibattiti e momenti di discussione quelli che amano raccontare le sacche di resistenza, non importa che abitino a Cosenza, a Roma o a Milano.
Così, ogni volta che si ritorna da Cleto ci si ritrova con un fardello pesante e pensante da portare a casa, una piacevole botta di energia che disorienta, che va metabolizzata, interiorizzata affinché possa essere spesa al massimo nella nostra quotidianità. Dalle piazzette tematiche dove si tengono gli incontri, si esibiscono gli artisti, si fa da mangiare, gli input lentamente si propagano scendendo a valle lungo il Savuto e raggiungendo la Salerno-Reggio Calabria. Scorrono nelle nostre vite diventando linfa vitale per i nostri futuri impegni civili, sociali e politici.
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Il Cleto Festival ormai rappresenta una droga di cui davvero non possiamo fare a meno, una rigenerazione per una generazione intera, soprattutto per chi ha deciso di restare tra mille ostacoli e mille peripezie. Risalire il borgo fino al castello diroccato rappresenta un momento catartico, quasi una metafora della nostra difficoltà a resistere in Calabria, eppure arrivati sopra basta un niente per rigenerarsi, basta guardare il mare e il sole che lentamente ci tramonta dentro, basta abbandonarsi collettivamente alla musica e alle parole e quel luogo che potrebbe benissimo rappresentare la nostra Fortezza Bastiani e farci diventare tanti sottotenente Giovanni Drogo in attesa dell’invasione dei Tartari ci rigetta a valle ricordandoci che la nostra vita adesso continua giù, dove c’è un nemico forte da combattere: la mediocrità, quella alimentata dai nostri padri, da chi ha pensato bene che abbassare la testa e accontentarsi degli spiccioli potesse essere l’unico modo per vivere tranquilli e sereni.
A noi spetta il compito di continuare ad incendiare il presente della nostra terra, in fondo nel nostro zaino portiamo dietro un libro chiamato NO LOGO che alla prima pagina recita un proverbio dei nativi americani:
“Puoi non vedere ancora nulla in superficie, ma sottoterra il fuoco già divampa”.
Una foto rubata, una birra fresca e poi tutti a saltare sotto al palco. È stata molte altre e tutte queste cose insieme la IV Edizione del Color Fest. Penso sia partito tutto verso le 18 del 12 agosto, quando la famiglia Color ha ufficialmente aperto le porte dell’Abbazia Benedettina di Lamezia Terme. Dopo mesi di duro lavoro, anche quest’anno, 50 ragazzi che anni fa hanno deciso di dare fiducia alla loro terra sono riusciti a far vibrare i cuori di circa 2500 giovani che in due giorni hanno dimostrato la loro voglia di ascoltare musica diversa da quella che propongono da queste parti e di incontrare occhi diversi da quelli che si vedono tutti i giorni. Lasci i brutti pensieri fuori dalle mura dell’abbazia e accetti di vivere per molte ore all’insegna della cultura e della condivisione, fai la fila e poi sei dentro. Dopo poco parte la musica.
I primi a salire sul palco sono i Parkwave, quattro ragazzi cosentini che con il loro sound hanno deciso di andare a cercare fortuna in America come tanti, solo che loro ci sono riusciti. Al Color hanno suonato e cantato qualche pezzo, fra questi anche “Wave“, singolo scelto come colonna sonora di un film indipendente britannico. Insieme a loro molti altri artisti emergenti, Scarda, Yosonu, Pop X, Wrongonyou, Carmine Torchia, L’Officina Della Camomilla, Captain Quentin. Tutti con qualcosa di unico e personale, uno stile che è riuscito a inchiodare i presenti sotto il palco. Beh inchiodati non proprio, diciamo che la noia era vietata: uccisa da un suono elettronico, un assolo di chitarra, un rullo di tamburi alla batteria, una frase d’amore urlata al cielo.
Ma fra gli antichi ruderi benedettini non ci sono stati solo concerti.
Lo Stato Sociale ha presentato un libro, “Il movimento è fermo – un romanzo d’amore e libertà ma non troppo“, scritto da due dei componenti della band elettro pop bolognese, Alberto “Bebo” Guidetti e Alberto “Albi” Cazzola.
“Faccio parte di quella generazione allargata, che va dai 30 ai 40, che ha vissuto in prima persona e ha accusato più di tutti l’arrivo “della crisi della crisi”, in cui non si è parlato più di futuro. Non c’era lavoro e dovevi fotterti con uno stage non pagato, perché “comunque fa curriculum”. E ci siamo trovati a non poter raccontare questa situazione, perché troppo indaffarati nel riuscire a capire cosa fare di noi come persone. Questo libro nasce dall’esigenza di spiegare cosa accade nella vita e nelle teste di noi trentenni che, probabilmente abbiamo perso il treno in quel momento, ma adesso stiamo sicuramente facendo una rincorsa“.
Con queste parole Bebo ha spiegato il perché di questo romanzo. Infine, Albi ha letto un capitolo del libro e si è aperto un piccolo dibattito con il pubblico. Io dopo ho provato a fare qualche domanda a entrambi:
E poi musica, musica e ancora musica.
Lo Stato Sociale ancora protagonista: sul palco tocca a Lodo Guenzi, cantante della band che, con in mano la sua chitarra, è entrato in scena con un live esclusivo, cantando brani del suo stesso gruppo e facendo omaggi ai più grandi, ricordando per esempio “L’avvelenata” di Francesco Guccini. In realtà non era da solo, sotto di lui c’era un gran coro che lo accompagnava. E non potevano mancare i ringraziamenti ai suoi compagni di vita, il resto della band. Così, quando lo ha raggiunto Albi ha dimostrato tutto il suo “amore” per lui con un bel bacio a stampo e una cantata insieme.
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E Calcutta? Lui è una romantica promessa della musica italiana, entrato da poco in scena (l’abbiamo intervistato qui). Dalla sua Latina, pure a Lamezia ha trovato il giusto sostegno. Anche perché quando non avrà più l’età diventerà un “Albero”, nel frattempo ascolta i consigli di “Gaetano” e magari un giorno capirà cosa le manca a fare e andranno insieme a Peschiera del Garda a fare un bagno.
Dopo una serata sentimentale, fatta anche di qualche sogno, è sempre utile quella successiva. Quella forte, fatta di ricordi un po’ meno “belli”. Altro momento carico di emozioni durante il festival, infatti, è stata la presentazione del secondo libro, “Ho un complesso rock“. Una raccolta di 200 articoli scritti dal giornalista, prematuramente scomparso, Stefano Cuzzocrea (ne parliamo qui)
“Stefano era una penna unica, fantasiosa e talentuosa. Si era inventato un blog, 2 Be Pop, quando aveva iniziato ad avere dei limiti con le grandi testate, per poter dire liberamente tutto ciò che a lui non piaceva dell’editoria musicale. Aveva creato un linguaggio suo, fatto di slang e termini dialettali che aveva reso quasi internazionali“.
Così, Francesco Sapone, ci presenta Cuzzocrea e non è l’unico. Anche Luigi Politano, della Round Robin, che ha edito il libro, ha molte cose da dire in merito. “In questo libro c’è l’universo della storia musicale italiana degli ultimi anni, raccontata da quello che noi amiamo definire il “funambolo delle parole”, colui che riusciva a parlare di musica usando anche parallelismi assurdi e alla fine ti rendevi conto che aveva ragione“. Fabio Nirta, al centro fra i due, ha avuto “la fortuna di conoscerlo personalmente”; spesso prende la parola. Si commuove, ma ci tiene a sottolineare che “gli stage dei festival non sono temporanei, sono definitivi” e che “finché festival come questo avranno vita, porteranno il nome di Stefano Cuzzocrea”.
E di brutti momenti ne sanno qualcosa gli Afterhours, quelli che urlano nel cuore della notte, accompagnandosi ai potenti suoni del rock. Sono tutti lì, che aspettano Manuel Agnelli per la sua unica data al sud e lui li accontenta. Sale sul palco, travolgendoli fino all’anima di “Folfiri e Folfox”, l’ultimo album. L’album che gli ha dato la forza di ripartire dopo la perdita del padre. Poi alcuni pezzi storici, come “Male di Miele”. In ogni caso cantate tutte allo stesso modo a memoria dai fan. Agnelli ha speso anche qualche parola rispetto a chi lo ha criticato per la scelta di fare il giudice a X-Factor, poco prima di intonare un pezzo scritto 20 anni fa, “Pop (Una canzone pop)”.
E con “Bye Bye Bombay”, gli Afterhours salutano e vanno via come cavalieri dell’oscurità.
La notizia più attesa degli ultimi due mesi e mezzo arriva nel tardo pomeriggio di un mercoledì di metà estate. Mauro Lucini, sindaco della città di Como, convoca una conferenza stampa congiunta col prefetto Bruno Corda e annuncia di voler smantellare la tendopoli antistante alla Stazione San Giovanni per allestire, un chilometro più avanti, un’area in grado di ospitare 300 migranti. Una soluzione finalmente strutturale, insomma. Nel parco però, senza docce e con quattro bagni chimici, vivono attualmente in numero di 500, tra bambini, donne e uomini. Qualcuno rimarrà escluso ed è necessario stabilire chi e quali saranno i criteri selettivi.
È una giornata concitata, fatta di attese spalmate in ore e giorni, sospensioni tipiche di un non-luogo. Ragazzi e ragazze giovanissimi ai quali con difficoltà si riesce ad attribuire un’età precisa, rimangono distesi a terra debilitati dal caldo e dalla mal nutrizione. Un canestro da basket attaccato ad un ramo e un pallone di pezza scucita permettono ai più attivi ed entusiasti di improvvisare una Rio in salsa comasca. Ritorna in maniera ossessiva e in un inglese zoppicante la stessa domanda, figlia di una narrazione menzognera: “news from Switzerland”? Ma dal confine, che dista pochi chilometri, non è in viaggio alcuna risposta. Il silenzio che rimbalza da quel muro di gomma sembra pregno di speranze mal riposte. Una distanza ironicamente breve e un percorso che i migranti conoscono ormai alla perfezione. Infatti da giorni ogni giorno tentano di superare la frontiera e puntualmente vengono respinti dalle forze dell’ordine che nelle migliori ipotesi li respinge a Como, oppure li trascina ancor più a sud, in territorio tarantino.
Non c’è nemmeno il tempo per acquisire i riferimenti spaziali indicati sulle cartine distribuite al campo che è subito necessario dimenticarle in favore di un imprecisato altrove nel quale coattamente verranno condotti.
Le ore si fanno sempre più calde, riusciamo ad avvicinare un ragazzo che non vuole farsi riprendere il volto, richiesta di tutti. Così come indicano i cartelli che a fatica si reggono ai tronchi e che recitano no foto ai volti! – no face pictures! I fotografi che si aggirano famelici per il campo non percepiscono l’esclamazione, tanto che anche i volti dei numerosi minori presenti finiranno per essere impressi su pellicola.
Stop interview if you don’t help us – ci dice un altro ragazzo -, non sono più gradite nemmeno le domande, la pazienza è al collasso. Lapidarie queste parole arrivano scardinando l’idea che interessarsi sia talvolta l’unico strumento disponibile per un aiuto concreto. Le parole però iniziano ad uscire senza pause, la forza dell’ingiustizia rompe il muro di reticenza iniziale e tutto prende forma: un viaggio affrontato in solitaria poiché troppo costoso, diciotto anni, la speranza di un futuro migliore, il sogno di una Germania salvifica, una famiglia abbandonata e dalla quale non è possibile tornare. Nessun ricongiungimento da portare a compimento, non ci sono braccia aperta o mani tese ad attenderli al confine.
Sono soli al mondo.
Passeggiando per il campo diversi dialetti si intrecciano. Gli interpreti fanno fatica a soddisfare le richieste di ognuno, non solo non hanno risposte, ma talvolta non capiscono le domande. L’inglese perde il suo potere aggregante e non sembra poter far da panacea, non qui almeno. Ci si intende poco e allora ci si limita a guardarsi. Da un’automobile tuona un sonoro “tornatevene a casa vostra!”, canzone che noi conosciamo confidando rimanga solo una nota stonata alle orecchie dei ragazzi.
Deve per forza esistere un orario per sentirsi male; questo non è quello giusto. Una bambina, avrà avuto 10 anni, si accascia a terra come un corpo morto. Alcuni uomini creano una barella improvvisata con le proprie braccia scalando due a due la gradinata per raggiungere il presidio disposto in cima, di fronte la stazione: è chiuso. I poliziotti chiamano il soccorso, che arriva dopo venti minuti di gambe alzate e sventolii che non riescono a rianimare la piccola. Non accenna al movimento e non riapre i suoi piccoli occhi, è immobile, sfinita e arresa. “Diteci almeno dove la trasportate!”, prega i paramedici un volontario che già prevede cosa sta per succedere. Gli immigrati non comprendono cosa sta accadendo, non accettano il distacco, inseguono l’ambulanza, l’accerchiano.
Il padre come tutti i padri del mondo, non vuole separarsi da sua figlia.
La sirena sfreccia imboccando la via panoramica di Como. Portandosi via ogni notizia. Una giovane volontaria tiene un sacco nero e provvede a pulire il campo, a mani nude. Camminando sul prato dispensa sorrisi ogni qualvolta alza la testa, per addolcire l’amarezza accumulata insieme ai rifiuti di fine giornata.
Sono da poco più di un mese a Rio de Janeiro e la prima cosa che ho imparato è: primeiramente fora Temer (prima di tutto fuori Temer). Questo soggetto, alquanto losco, è subentrato a Dilma dopo l’avvio del suo processo di impeachment, formando un governo provvisorio di soli uomini bianchi, razzisti, omofobi e fascisti, che persino ha soppresso il ministero della cultura. Il popolo in strada parla di “golpe”, non vuole un governo non eletto e urla democrazia, cercando di attirare l’attenzione della comunità internazionale su quanto sta accadendo in Brasile. La giornata di apertura è stata altamente rappresentativa di un paese profondamente diviso: venite, gringos, ma sappiate che qui c’è un governo fascista e illegittimo che il popolo non riconosce.
Foto: Hermes de Paula / Agência O Globo
“Facistas, golpistas não passarão” si grida per le strade di Copacabana, secondo le stime ufficiali invasa da più di trentamila persone. Una manifestazione colorata, piena di musica e tamburi, circondata da tanti poliziotti di corpi diversi e, soprattutto, pacifica. Del resto, non poteva essere altrimenti: troppi “gringos” sull’Avenida Atlantica per sparare idranti e dare sfogo alla loro consueta violenza, Copacabana è un vetrina troppo chic per un certo tipo di disordini.
La cosa che più mi ha colpito nella manifestazione è la rilevante presenza, partecipazione e protagonismo delle donne. Sono loro al microfono, alla sicurezza, nude a sfilare perché “o corpo é meu”, il corpo è mio, in un paese dove l’aborto è illegale, il maschilismo è profondamente radicato, non c’è educazione sessuale né sentimentale e la violenza è cosa quotidiana.
Foto: Leo Martins / Agência O Globo .
La torcia olimpica, che doveva passare per Copacabana, è stata sviata, obiettivo raggiunto, ma non quello della visibilità nazionale e internazionale: non ci sono notizie, nessun giornale, nessuna tv.
Nel primo pomeriggio il movimento si è spostato nella zona Nord, nel barrio della Tijuca, vicino allo stadio Maracana, dov’era il nucleo più arrabbiato, più povero, più aggressivo. Lì sono state lanciate bombe di gas, sparate pallottole di gomma e ci sono stati vari arresti. Ma su questo il silenzio più totale, solo dai media indipendenti si riesce a trovare qualche informazione.
Nel frattempo lo stadio Maracana, completamente militarizzato, si riempiva per il meraviglioso spettacolo visto in tutto il mondo: uno spettacolo voluto e preparato sotto il governo di Dilma e Lula, ma a presidenziare è stato Temer, che dopo neppure dieci secondi è stato sommerso dai fischi: nelle scorse settimane ha ricevuto la visita istituzionale del Parlamento italiano con la quale delegazione (presieduta dal vicepresidente del Senato Marina Sereni, Pd) ha aperto una mostra sul contributo brasiliano alla liberazione del nostro paese dal nazifascismo, ma stasera pare essere l’uomo più impopolare del mondo.
Qui la lotta continua, migliaia di gruppi diversi, collettivi, sindacati, partiti, artisti, sparpagliati in tutti i quartieri della città sono uniti, animati da un unico obiettivo: restituire al Brasile la sua democrazia.
Mancano 12 chilometri al traguardo. E la strada ora scende violentemente, imboccando curve improvvise che sai bene che ti faranno perdere il sonno anche quando tutto quel caos sarà passato. Mancano 12 lenti passi che hanno l’odore dell’eternità, verso un traguardo che cancella ogni ferita, ogni paura, ogni sfortuna. L’uomo col numero 38 sulla schiena non vuole distrarsi. Non volta mai lo sguardo indietro, sguscia via tra tornanti privi di senso senza porsi troppe domande. Vuole vincere quella corsa, più d’ogni altra cosa. Ha messo tutti alle spalle, quasi tutti. Gli manca un ultimo scatto e poi sarà fatta. Gli è rimasta una discesa per andarsene tutto solo verso la gloria. E allora insiste, spinge al massimo i suoi pedali e alza le dita dai suoi freni. Tutti sanno che sarà lui, alla fine, ad alzare le braccia verso il cielo. Perché lo merita, è il più forte. Aspettava Rio come si aspetta l’occasione di una vita, come se tutto quello che ha conquistato fino a quel momento non basti a farlo sentire grande. Deve fare di più, deve sconfiggere i suoi tormenti.
Mancano 12 chilometri e in quel tratto di discesa sarebbe il caso di andare piano. Si rischia l’osso del collo, si rischia la carriera. Ma Vincenzo ha un obiettivo da portare a termine. Ha vinto due Giri d’Italia, una Vuelta, un Tour de France pur essendo perseguitato dalla cattiva sorte, eppure non gli basta. Non sente l’amore della gente, pensa che il popolo diffidi di lui, non considerando speciali le sue fatiche. Ogni suo sguardo è triste, ogni sua vittoria passata è stata un pianto liberatorio che è riuscito a scacciare l’angoscia solo per qualche ora. Tutti sanno che sarà lui, alla fine, a vincere. Perché su quello strano e insolito percorso sudamericano, sa cosa fare più di ogni altro. Ha fame, fiato e più gambe di tutti Vincenzo, e spinge follemente la sua bici tremante. Ancora poche curve e poi il rettilineo finale di Copacabana. Deve lasciarsi dietro assolutamente i suoi rivali. Non vuole volate, sogna un arrivo solitario.
Mancano poco meno di 12 insignificanti chilometri e le telecamere ora staccano sugli inseguitori. Sono dietro, troppo dietro, non possono più creare problemi al trio di testa guidato dal siciliano che tutti chiamano “Lo Squalo”. Poi il ritorno in testa, ma la testa, improvvisamente, non sembra esserci più. In pochi secondi è saltato tutto. La moto che manda le immagini a casa, corre verso l’ignoto alla ricerca di qualcuno, del punto di riferimento che aveva fino a poco fa, senza però scovarlo mai. A terra, si è lasciata due uomini doloranti, schiantatisi contro una curva assurda che tutti sapevano di trovare lì. Si fatica a comprendere, poi è tutto chiaro: sull’asfalto c’è Vincenzo Nibali. E’ ferito, non riesce ad alzarsi. Prova ad avvicinarsi alla sua bicicletta, ma non ce la fa. Riesce a strisciare verso il marciapiede e a sedersi come può. Il suo sguardo è perso nel vuoto, le sue mani raggiungono a fatica la testa e il silenzio si è impadronito dei suoi pensieri, imprigionandoli ancora una volta. Ha quasi 32 anni e quella doveva essere la sua storia, il suo giorno, la sua Olimpiade. Aveva preparato tutto nei minimi dettagli: salite, sudore, gambe, attacchi, discese. Ma non aveva fatto i conti con la sfortuna di sempre. Quella sfortuna che colpisce solo certi campioni. Quelli che quando vincono, sanno solo versare lacrime interminabili prima di salire sul podio. E mentre vengono portati in trionfo, stanno già pensando che non è ancora abbastanza.
La torcia è arrivata a Copacabana. Se nella periferia Nord la fiamma olimpica è passata di tutta fretta, per le strade di Copacabana tutta un’altra musica. Qualche attimo di tensione arrivati alla fine di Nossa Senhora di Copacabana dove la polizia è stata fischiata. Qualche piccola scaramuccia e poco più. Arrivata a Leme la torcia è stata spenta e la fiamma messa a … riposare. Le Olimpiadi abbiano inizio.
4 AGOSTO “Di già passo?”, ironizzano nelle strade di Rio Nord. E’ passata, la torcia, su un mezzo talmente veloce che è un caso che non ha investito il pubblico. Ma in questo episodio ci sono gli artisti, inteso nel senso più lato più lato del termine, luoghi storie diverse, ma tutte nella stessa città, tutte nello stesso momento.
3 AGOSTO Il racconto in tempo reale di donna Irone. Da una favela del compleixo da Maré, chiusa in un negozio non può uscire perché il Bope è nella favela e stanno sparando. Moriranno più di dieci persone quella notte del 25 luglio 2016.
2 AGOSTO In questo decimo episodio, il “ripulisti” del lungomare, soprattutto, ma anche di tutte quelle zone che sono potenzialmente più turistiche. Spariti, come d’incanto, centinaia di senza dimora. Così, in una notte. Problemi anche per gli artigiani che vendono i loro prodotti sulle spiagge. Sequestrata la merce, manufatti, denunciati i lavoratori. Questa è gente che vive sulla spiaggia, ci lavora da anni ed è la loro unica forma di rendita con la quale mantengono le famiglie. La colonna sonora ci conferma che i musicisti brasiliani possono suonare davvero qualsiasi cosa.
26 LUGLIO Nell’aprile del 1996 un bambino di 2 anni, Maicon, è rimasto ucciso mentre giocava fuori dalla porta di casa, in un vicolo. La storia si svolge ad Acari, uno di quei posti che neppure la gente di qui frequenta. Per arrivarci bisogna camminare attraverso un altra comunità, dove anche per transitare bisogna chiedere il permesso. Amarelinho – Irajà termina e ci si trova al compleixo de Acari. Qui le strade non sono asfaltate, non sempre c’è la luce elettrica, figuriamoci le scuole o altri servizi. Anche qui per transitare bisogna chiedere il permesso, farsi amici chi controlla il territorio. E qui che incontro Zè Luis. Nei quinto episodio abbiamo conosciuto Aida, sua moglie, madre di Maicon. Quest’anno la loro causa contro i responsabili andrà in pensione. Gli agenti che hanno sparato a Maicon decorati. Ze Luis ha deciso di mettere a disposizione la propria casa e farne un laboratorio artistico e un teatro per i ragazzi. E’ il 26 luglio. Non una data qualsiasi per Acari. Sono esatti 26 dalla strage della Cachina di Acari.
No, non è la Bbc, questa è la Rai, la Rai-tv!” è stato uno dei motivetti immortali del noto programma radiofonico Alto Gradimento, tenuto sul secondo canale radio della Rai da Renzo Arbore, Gianni Boncompagni, Giorgio Bracardi e Mario Marenco ogni lunedì e venerdì dal ‘70 al ‘76.
Ogni puntata del programma era gremita di sketch demenziali, irriverenti e senza un apparente filo logico, in cui si alternavano imitazioni, interventi di personaggi inventati e musica, in controtendenza rispetto alla sobrietà della Rai di Ettore Bernabei. Erano gli anni ‘70, la Rai deteneva ancora il monopolio sulla rete televisiva e risplendeva dei successi del decennio precedente, che trasmissioni come “Non è mai troppo tardi” del maestro Alberto Manzi, andata in onda dal ‘60 al ‘68, avevano innalzato a strumento imprescindibile di insegnamento della lingua e della cultura agli italiani. Erano gli anni in cui la Rai poteva ancora “guardare negli occhi” e prendere bonariamente in giro le altre emittenti di Servizio Pubblico storiche, come la Bbc, il Servizio Pubblico di diffusione radiotelevisiva più antico d’Europa, all’insegna di un indiscusso monopolio nel campo dell’informazione televisiva.
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No, non è la Bbc… di Luca Baldazzi, edizione Minerva
E’ proprio da Alto Gradimento che comincia il libro del giovane ricercatore di Eurispes Luca Baldazzi dall’ingegnoso titolo “No, non è la Bbc. Rai e Servizio Pubblico britannico a confronto (in attesa della riforma)”, edito da Minerva e di recente presentato e discusso alla Federazione Nazionale Stampa Italiana alla presenza di Di Trapani, Parascandolo, Vita, Gamaleri, De Chiara e Pamparana.
Il libro prende spunto dall’osservazione sul campo dell’operato di Bbc e Rai, nelle cui sedi di Londra e Roma dove l’autore ha avuto modo di trascorrere svariati mesi grazie ad una borsa di studio emessa dalla Regione Lazio. La ricerca sul campo e lo studio dei flussi di comunicazione che Luca Baldazzi svolge da anni nell’Osservatorio Tg, di cui è co-animatore, hanno risposto a un quesito che l‘autore si è posto in vista del rinnovo della concessione Stato-Rai sulla mission del Servizio Pubblico, a dispetto delle spropositate attenzioni rivolte al tema della governance, che dalla riforma del ‘75 fa discutere oscurando altri aspetti ragguardevoli della questione.
L’autore ricostruisce la storia del Servizio Pubblico britannico e italiano dai loro inizi, con particolare attenzione alle attività legate alla sua mission educativa, convinto della necessità di una riforma progettuale dell’azienda, e ne discute con alcuni dei massimi esperti di giornalismo e di servizio pubblico italiano.
Il confronto con la Bbc ne esce svilente, quantomeno se si pensa all’impatto che il Servizio Pubblico ha ancora oggi sulla società britannica, partendo dagli indici di gradimento per arrivare all’impatto reale sui costumi sociali, tramite proficue collaborazioni con il sistema scolastico che producono format televisivi di successo come “Make It Digital” del 2015, finalizzato all’alfabetizzazione digitale nel paese. La Bbc, vista da qui, sembra trainare i cambiamenti della società invece che limitarsi ad accompagnarli, facendosi promotrice di campagne annuali e di proficue collaborazioni con i Ministeri, contrariamente a quanto avviene all’interno della nostra Rai, che più che prendere accordi è spesso emanazione di linee politiche in contrasto tra loro. L’assenza di ruolo trainante, negli anni, ha reso la Rai un attore debole, manipolabile e arretrato, a scapito della qualità e della varietà, e lo ha fatto scivolare nella logica commerciale della pubblicità.
Ma il confronto con la realtà britannica, per l’autore, è una provocazione: serve a smentire il falso mito che sia impossibile per il Servizio Pubblico sostenersi economicamente solo con il canone pagato dai cittadini – una volta debellata l’evasione – visto che l’azienda britannica si avvale solo di quello, e serve a ridimensionare l’importanza dello share rispetto alle sorti dell’azienda, dal momento che la Bbc registra dati di share inferiori alla Rai, pur svolgendo le sue funzioni in modo più efficace.
Mission, governance, educazione, lottizzazione e web sono i temi di discussione attorno ai quali si articola il dibattito sulla imminente concessione Stato-Rai, cui Luca Baldazzi fa riferimento continuamente ponendo domande, anche provocatorie, ai suoi intervistati.
Vediamone una schematica rassegna:
NEO-ANALFABETISMO Secondo Tullio De Mauro la crisi del Servizio Pubblico va a braccetto con la crisi della scuola, l’altra grande agenzia culturale, che soffre della stessa perdita di consapevolezza rispetto al suo ruolo di “agenzia di senso” necessaria e in prima linea. Agli esordi del Servizio Pubblico – continua De Mauro -, invece, la televisione è stata il traino della lotta all’analfabetismo a favore dell’unificazione linguistica nazionale, tanto che “l’ascolto abituale della prima televisione” – quella del monopolio, tra il ‘55 e il ‘75, – “valeva, ai fini della padronanza dell’italiano, cinque anni di scolarizzazione”. Oggi, invece, avviene il contrario: secondo il Professore, infatti, la commercializzazione della tv pubblica e la dipendenza dallo share hanno diseducato il pubblico ad alcune norme di civiltà e democrazia, proponendo dibattiti-spettacolo pervasi da un’atmosfera da “arena gladiatoria”, in cui ci si parla sopra ad alta voce.
RETROVIA DEL CAMBIAMENTO La Rai, secondo il Professor Mario Morcellini, da 10-15 anni è la “retrovia del cambiamento”, perché, tra le altre cose, si è tirata indietro rispetto alla costante innovazione che per sua natura dovrebbe offrire come servizio televisivo: “la ripetizione” – sostiene nel libro “L’obbligo del nuovo” – “uccide la novità, inibisce il cambiamento e, in sintesi, non è più televisione”. La Rai, così, si trova a vivere una drammatica crisi di reputazione, dal momento che il suo pubblico, pur essendo numeroso, nei sondaggi si dichiara annoiato e stanco dell’offerta del Servizio Pubblico. Se di missione culturale si deve parlare – conclude Morcellini – bisogna farlo innanzitutto alla base, nella formazione e nella condotta degli operatori di cultura, dei dirigenti d’azienda e dei professionisti che animano la Rai, che devono tornare ad essere preparati e motivati, ispirandosi ai grandi della televisione educativa, come Alberto Manzi e Pietro Prini.
DITTATURA AUDITEL La mission della Rai, commenta Renato Parascandolo, è rimasta implicita fin dalla sua nascita e avrebbe bisogno di essere definita una volta per tutte, prendendo esempio dalla Bbc magari, che, forse un po’ retoricamente, segue ancora oggi gli obiettivi del suo fondatore John Reith “to inform, educate and intertain” e sembra non sbagliare un colpo. L’identità della Rai, dopo un incipit glorioso, ha cominciato ad indebolirsi negli anni ‘80 con l’introduzione della tv commerciale all’interno del duopolio Rai-Fininvest e con il fenomeno della lottizzazione dovuto alla riforma della governance che ha imposto all’azienda un’instabilità autoriale cronica. Ma la vera ragione della perdita di mission del Servizio Pubblico secondo Parascandolo è la “dittatura dell’auditel” – introdotta nel 1984 – che ha reso il telespettatore la principale merce di scambio tra le agenzie pubblicitarie e le entità televisive, all’interno di un circolo vizioso per cui l’assenza di un progetto pedagogico crea un pubblico di livello culturale basso, “che corrisponde al livello di pubblico inquadrato dall’auditel e corteggiato dalla pubblicità”. La Rai, rispetto agli imperativi della televisione commerciale, di cui l’auditel è il massimo rappresentante, non è stata in grado di opporre un’adeguata resistenza, e contemporaneamente ha ceduto ai colpi delle riforme politiche, che la hanno esposta all’inquinamento dei partiti e alla perdita di autonomia dal potere, in mancanza di una “cintura sanitaria” all’interno della Rai che impedisca i rapporti diretti tra il Consiglio di amministrazione e chi lo nomina.
ASSENTE DIGITALE Secondo Giampietro Gamaleri, il grande assente nell’operato della Rai oggi è il digitale, nel segno di una profonda disattenzione rispetto agli imput della società in cui viviamo: il sito internet della Rai è all’86esimo posto in Italia, superato di gran lunga dai siti web dei quotidiani nazionali come Repubblica, e dalla Bbc, che in Gran Bretagna sta al sesto posto, con un’attività destinata per un terzo all’educational. Di “alfabetizzazione digitale” parla anche Vincenzo Vita, che mette al centro dei suoi discorsi il pubblico come nuovo punto di riferimento, cui bisogna destinare programmi gratuiti, all’insegna della democrazia e della riconquista dell’informazione come “bene comune” e democratico.
In definitiva sintesi, ristabilire una mission civica e pedagogica, adeguarsi alla digitalizzazione dei contenuti, alzare il livello culturale dei programmi televisivi, puntare sulla cultura e sulla formazione per differenziarsi dalla televisione commerciale, rinunciare alla pubblicità: questa sembra essere la ricetta per una nuova Rai proposta dagli esperti intervistati da Luca Baldazzi, in una raccolta di riflessioni utile ai giornalisti di oggi e di ieri per orientarsi e per interrogarsi sul futuro del Servizio Pubblico.
Se esistesse una parola alla base del Cleto Festival sarebbe di certo condivisione. Condivisione dal basso di esperienze, saperi, conoscenze, tradizioni in grado di coinvolgere un territorio, le strade e le piazze di un borgo solo apparentemente privo di vita. Il Cleto Festival ha raggiunto la sua sesta edizione, che quest’anno prenderà vita il 19 20 e 21 agosto. Dal 2011 l’associazione culturale La Piazza riesce a compiere senza ricevere volutamente un euro di finanziamento pubblico un vero e proprio miracolo culturale: tre giorni di dibattiti, aggregazione, solidarietà, musica, arte, teatro, cibo locale e dal mondo rigorosamente etico e solidale. Tutto nella splendida cornice di un posto magico, dimenticato forse dalle istituzioni, ma non da chi da piccolo ha sempre giocato nei vicoletti e nelle piazzette. Un luogo appeso sulle colline che dividono la valle del Savuto dal basso Tirreno cosentino.
I ragazzi de La Piazza sono ormai cresciuti nell’esperienza ma hanno dimostrato uno spirito intatto, raccontando l’edizione numero sei davanti ad un ottimo aperitivo a base di prodotti locali di Cleto all’Otra Vez fair cafè – Acquario Bistrot di Cosenza. Franco Roppo Valente e Ivan Arella dell’associazione La Piazzasi sono alternati nella narrazione; questa edizione avrà come titolo principale nonché tema di discussione-filo conduttore dei vari dibattiti una parola: Luoghi. Un tema a cui gli organizzatori del Festival credono e tengono fortemente avendo da sempre scelto di discutere nei loro dibattiti di territorio, di impegno civico in Calabria, di futuro della nostra terra, di denuncia dei disastri ambientali. Subito torna alla mente a proposito l’affollatissimo dibattito di un anno fa con Claudio Dionesalvi e Francesco Cirillo sul libro Calabria ti odio di quest’ultimo, cinquanta storie che narrano la nostra terra dai disastri ambientali delle nostre coste ai piccoli borghi ripopolati grazie all’arrivo dei migranti.
Gli organizzatori hanno trasmesso ai presenti tutto l’impegno che sta dietro l’organizzazione di un festival unico, diventato una specie di casa dove incontrarsi ogni anno per i tanti che non si ritrovano mai ai posti del potere. Il Cleto Festival si muove sull’idea di dare un senso ad un luogo, il luogo della memoria e nello stesso tempo del presente e del futuro, l’idea di non volersi arrendere all’idea di abbandono, di non abbassare la testa di fronte agli scempi di una classe politica in grado soltanto di finanziare mega eventi estivi che poco o nulla lasciano in termini di contenuti e crescita sul territorio. Il Cleto Festival è invece un cantiere dal basso, lavoro quotidiano di un anno, capacità di fare rete con il territorio, di cercare sintonie e condivisioni. Sì, perché il Cleto Festival, e si intuisce benissimo dalla parole di Franco e Ivan, non esisterebbe senza il senso di condivisione che lentamente si è instaurato tra i pochi abitanti del borgo antico e gli organizzatori; ciò significa che non si deturpa e depreda un centro storico per pochi giorni dimenticandosene nei mesi seguenti anzi, si condivide facendo diventare il festival un’idea collettiva, un momento di tutti: di chi ci abita e di chi arriva da fuori ad abitarci. Straordinaria infatti anche quest’anno la capacità di Cleto di ospitare i visitatori, grazie ai posti letto messi a disposizione dagli abitanti e ad un ampio spazio camping in pieno centro (qui le info).
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Il tentativo di proporre esperienze di socialità in grado vive durante tutto l’anno e nei tre giorni del festival danno modo di esprimersi ad una rete che ogni anno si allarga nel Cosentino e non solo. Per citare alcune realtà: La Guarimba Film Festival di Amantea, il Teatro della Maruca e Radio Barrio di Crotone, Il Filo di Sophia e Otra Vez di Cosenza e tanti tanti altri, anche la comunità di Mmasciata cercherà di fare la sua parte con tutti coloro che trovano un pezzo di strada da compiere insieme durante l’anno. Cleto diventa così un punto di incontro, crocevia di esperienze e collaborazioni: il nostro luogo.
Infine qualche anticipazione sul programma è approdata al Bistrot di via Galluppi con Dj Pas(c)quetta e Giuseppe Bornino del collettivo Il Filo di Sophia che hanno presentato in anteprima ciò che porteranno in scena nei palchi allestiti nel centro storico. Merita una piccola menzione l’opera inedita di Bornino dal titolo No Pasaran incentrata sul conflitto israelo-palestinese. Il programma tutto da leggere e da studiare con matite blu e rosse per sottolineare gli appuntamenti a cui si è più interessanti vedrà la presenza tra gli altri di Al The Coordinator il 19 agosto, de I Villa Zuk il 20 e di Peppe Voltarelli il 21. In mezzo tanta buona musica, tanto buon teatro, suggestive mostre fotografiche e tante riflessioni, tra queste sottolineiamo con un colore particolare la discussione a più voci su Idomeni dal titolo I’M NOTHING L’Europa nel fango di Idomeni a cura degli attivisti e free lance Dante Prato e Laura Danzi, che su Mmasciata hanno raccontato in presa diretta la loro esperienza nel campo profughi di cui tutto il mondo ha parlato.
A questo punto non rimane che incontrarsi a Cleto.
A ritmo di samba per le strade di Rio di Janeiro a pochi giorni dall’inaugurazione dei XXI Giochi Olimpici, che per la prima volta nella storia si disputeranno in una capitale dell’America Latina. I giochi si disputeranno del 5 al 21 agosto, ma quanto è davvero pronta questa città ad ospitarli nel migliore dei modi?
Quando manca sempre meno all’inaugurazione dei Giochi Olimpici, Rio non ha ancora visto ultimati i cantieri aperti ormai da anni. Ecco alcuni esempi in quello che è il trionfo di gazebo e tubi innocenti.
Il Brasile e i diritti umani. Il Paese che ospiterà i Giochi detiene tristi primati. E’ il Paese con il maggior numero di omicidi e il Paese con il maggior numero di morti a seguito di operazioni di polizia. La maggior parte di queste sono vere e proprie esecuzioni per lo più perpetrate contro neri.
Uno dei problemi di Rio de Janeiro è legato alla mobilità. Non è un problema di oggi, si intende. La città non è affatto ben servita, soprattutto nelle zone più periferiche, dove si compiono i crimini di cui abbiamo parlato nella precedente puntata. Per muoversi a Rio Norte, sull’avenida Brasil, l’unica possibilità per non rimanere imbottigliati, è il moto-taxi. Anche se sarebbe il caso di portarsi un casco proprio…
Molti cittadini europei hanno capito cosa si prova a vivere da rifugiati. A Monaco di Baviera come a Nizza, quello che fino ad ora era solamente uno status (gentilmente concesso dal diritto internazionale) si è concretizzato improvvisamente sulle vite dei cittadini comuni. La polizia che scende in strada e gli elicotteri che pattugliano la città dall’alto sono scene di guerra che sconvolgono. Sono uno shock perché (fortunatamente) finora non hanno fatto parte del nostro vissuto. Sono il pane quotidiano invece per i 2,1 milioni di migranti che hanno raggiunto la Germania lo scorso anno. Sono scappati proprio da quello, facendo della Germania il loro rifugio, proprio come in questi giorni la nostra gente cercava riparo nei negozi, sotto un bancone o nella casa di uno sconosciuto. Rifugiati per un giorno.
Terrorista è chi crea terrore. Così come per l’attentato del 14 luglio a Nizza, anche per quello di Monaco non si è molto atteso (e molto riflettuto) prima di gridare all’attentato jihadista. Associazione istintiva, considerando il periodo, ma non giustificabile nel giornalismo, dove la lanterna è in mano ai fatti: la stampa e tutti i media in generale influiscono in modo sostanziale nell’opinione pubblica. Della paura pubblica. E quando accadrà, come già accaduto, che la paura si trasformerà in violenza, le responsabilità della stampa e della politica non dovranno essere sottovalutare. L’attacco al centro commerciale Olympia Einkaufszentrum a nord di Monaco di Baviera è stato opera di un 18enne vittima di bullismo che ha voluto regolare i conti con la società uccidendo 9 persone e ferendone 16. Pur non essendoci legami con l’Isis, questi non hanno esitato a rivendicarlo. Nella lotteria del “è dei nostri oppure no?”, ’sta volta gli ha detto male.
Se l’obiettivo di politica estera di Daesh (o Isis) è destabilizzare la società e terrorizzare la quotidianità dell’Occidente, infatti, non importa se l’attentatore sia davvero un “soldato di Dio” oppure no. Non importa se l’attentatore di Nizza non conosceva il Corano, beveva e (per giunta) era bisessuale. E qui (e, se vogliamo, ad Orlando) che la tesi della guerra di religione, dell’Islam cioè come unico fattore alla base del terrorismo, traballa. Un soldato di Allah bisessuale convince poco, ad attenderlo in paradiso ci sarebbero solamente vergini. Se la strategia del terrore ha un fine specifico, bisogna chiedersi qual è, invece, quello dei molti che (proprio come i terroristi) mettono insieme le cause dei vari attacchi che stanno sconvolgendo la scena internazionale senza fare distinguo, ma creando lo stesso effetto dei terroristi: terrorizzare, appunto.
Vediamone un esempio fra tanti. Il 2 luglio, subito dopo l’attentato al ristorante di Dacca, Pierluigi Battista sulle colonne del Corriere della Sera ha scritto un editoriale in cui tracciava la storia degli attentati degli ultimi tre anni, trovando il nesso in un mandante impersonale (“hanno appena massacrato, hanno manipolato povere bambine“, ecc.) che, anche se non lo dice, parla arabo e prega il venerdì. Da Dacca a Boston, da Parigi a Istanbul, passando per Orlando, Colonia, Tunisi, Bruxelles, poi ancora la Nigeria, Tel Aviv e Hebron. Un legame tra Boko Haram e la situazione in Israele: roba da equilibristi intellettuali, il cui scontro di civiltà, nella situazione di una Europa sempre più multietnica e rifugio per milioni di migranti, non crea effetti dissimili dalla loro guerra santa.
La vicina Russia è l’osservato speciale. Più di 6mila agenti setacciano ogni angolo di Varsavia e controllano con scrupolo ogni stazione e fermata di metro e tram. Gli uffici chiedono ai loro dipendenti di prendersi un giorno di ferie o lavorare da casa, i divieti sono molti. Vietato scattare foto, vietato correre, vietato lasciare i propri bagagli o le proprie borse incustodite. Uno speaker nelle due linee di metro cittadina annuncia i divieti in più lingue.
Tutte le riunioni del vertice Nato si svolgono allo stadio Nazionale costruito in occasione dell’edizione dei Campionati Europei in Polonia e Ucraina, il centro cittadino dove sorge il maestoso Novotel è presidiato da centinaia di agenti; turisti e cittadini passeggiano in direzione Old Town quando tra le sirene che annunciano l’arrivo dei delegati Nato Obama sfreccia con la sua auto facilmente identificabile dalle bandierine stelle e strisce posizionate sul cofano anteriore e con al seguito agenti che imbracciano fucili ostentati senza alcuna remora.
La prassi è questa, in una sola città ci sono i leader più potenti del mondo, il rischio attentato è elevatissimo. Allo stesso tempo, l’occasione per far sentire la propria voce non potrebbe essere migliore: in diverse piazze della città gruppi spontanei di cittadini si riuniscono, sono nell’occhio del ciclone e tentano di attrarre verso di loro i venti dei media. Per qualche ora l’accordo NATO-UE sulle misure preventive militari da adottare nei confronti della Russia passa in secondo piano. Le strade sono bi-colore rosso e bianco come qualche sera prima per la partita contro il Portogallo campione d’Europa. Adesso non c’è da difendere l’orgoglio calcistico ma quello nazionale.
In Piazza Martin Luter King si è radunato il Kod. La piattaforma di cittadini capeggiata dal leader Mateusz Kijowski che si oppone al partito di governo Diritto e Giustizia (Pis), nell’ultimo anno protagonista di provvedimenti molto discussi. Inizialmente con la legge sul controllo dei mezzi di informazione, votata il 31 dicembre 2015 e che depone nelle mani del ministero del Tesoro, quindi il governo, il potere di nomina dei dirigenti della tv pubblica e della radio pubblica, che prima erano scelti invece da uno speciale consiglio, una riforma che riguarda 4 canali Tv e oltre 200 stazioni radio. Adesso la questione ben più delicata che riguarda il Tribunale Costituzionale che in Polonia è un organo giudiziario competente in materia di conformità delle leggi con la Costituzione, conflitti di competenze e ricorsi promossi dai cittadini.
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Nell’appassionato discorso di Piazza M.L. King, Kijowsky ha più volte sottolineato che il Tribunale è controllato e condizionato dai conservatori venendo meno in questo modo le garanzie di aderenza alla Costituzione polacca delle nuove leggi. Lo scorso anno il parlamento polacco prima delle elezioni aveva nominato 5 giudici ma il presidente polacco Andrzej Duda, vicino al Pis, ne aveva bloccato il giuramento sollevando delle questioni di legalità circa il procedimento di selezione. Nonostante la decisione nel mese di novembre della Corte Suprema di ammettere al giuramento 3 dei 5 giudici selezionali, Duda ne ha impedito l’insediamento, salvo poi procedere alla conferma di nuovi cinque giudici scelti dal governo a guida PIS. E intanto in Polonia si invoca il sogno americano, non tanto quello della generazione self made man ma quello di Martin Luter King, di una società libera e democratica capace di mettere al centro la persona e non il potere. Sebbene Barak Obama nel corso della sua conferenza durante il summit Nato non ha espresso grandi preoccupazioni in merito alla vicenda del Tribunale Costituzionale, i cittadini continuano la loro attività di protesta. Nel mese di maggio 240mila persone hanno marciato per le strade di Varsavia in segno di protesta alla deriva autarchica intrapresa dal nuovo governo e manifestando pieno appoggio all’Unione Europea e ai suoi valori costitutivi. La più grande protesta dal 1989, dalla caduta del muro di Berlino quando la Polonia sperava di aver trovato la libertà. E invece tanto ancora c’è da fare.
Faremmo bene a stamparci in mente i numeri che seguono. Cinquecentocinquanta mila bambini vivono in comuni sciolti per mafia, 90mila subiscono maltrattamenti e un bambino su tre subisce la violenza di vedere la mamma picchiata davanti ai suoi occhi. Non solo. Un minore su dieci è condannato a vivere in condizioni di povertà assoluta, in contesti di illegalità e corruzione. Dietro queste cifre vi è la drammatica condizione dei bambini che vivono, anzi, sopravvivono in Italia in contesti di evidente marginalità sociale, specie nelle regioni del Sud. Il quadro emerge dal sesto Atlante dell’infanzia “Bambini Senza”, presentato dalla Organizzazione non governativa “Save the children” all’interno di “Trame 6” il festival dedicato ai libri sulle mafie in corso a Lamezia Terme (Cz).
Il rapporto di Save The Chlidren presentato a Lamezia Terme
“L’idea dell’Atlante è nata nel 2010 quando, ancora all’inizio della crisi economica abbiamo deciso di analizzare i contesti di maggiore povertà per capire come e dove intervenire – ha spiegato Giulio Cederna, giornalista e autore del testo –. Monitorando i dati pubblicati dall’Istat e dai ministeri nel corso degli anni, tra il 2005 e il 2009 abbiamo registrato un’impennata dell’indice di povertà assoluta: oggi un milione di bambini vive senza servizi di prima necessità, le stesse mense scolastiche in molti casi non sono più gratuite e accessibili a tutti”.
L’allarme che lancia Save the children è soprattutto quello sulla crescente povertà educativa oltre che economica. “Vi sono quartieri in alcune città del sud come Napoli o Locri dove i bambini sono tagliati fuori da tutto, senza opportunità o stimoli – ha sottolineato Diletta Pistono, economista, tra i rappresentanti della Ong –. Un tempo quando si parlava di povertà e degrado ci si riferiva al cosiddetto Terzo Mondo, ma oggi alcuni territori del nostro Paese vivono in condizioni simili”. Ciò non solo a causa della mancanza di risorse. Come ricorda Pistono, infatti la programmazione europea 2007-2013 aveva destinato circa 500 milioni del PON sicurezza per progetti volti alla diffusione della legalità, di cui 107 milioni destinati ad attività di aggregazione e socialità. “Di quella cifra – ha aggiunto – circa 6 milioni erano stati assegnati ad associazioni della Locride che hanno inaugurato un centro per la legalità ma, da quello che sappiamo, ad oggi non è in funzione”.
La scena shock del finale di Gomorra2 in cui viene uccisa il personaggio di Maria Rita, figlia del boss Ciro di Marzio
Ogni edizione dell’Atlante presenta diagrammi, schemi e mappe, e in quest’ultima si possono trovare anche le foto scattate dal fotoreporter Riccardo Venturi che descrivono, territorio per territorio, la complessa e critica condizione dei minori. Ci sono bambini che sono nati e cresciuti in contesti in cui le mafie regnano incontrastate che non sanno né immaginano che esiste un’alternativa. C’è di più. Tra le vittime della criminalità organizzata, come riportato anche nel dossier, si contano 85 bambini uccisi dai clan, che vanno ad aggiungersi all’elenco in continuo aggiornamento curato dall’associazione antimafia Libera.
La Ong, in prima linea nella difesa dei diritti dei minori, è impegnata tutto l’anno in percorsi di educazione e formazione con i ragazzi nelle scuole in tutta Italia e, grazie a queste iniziative, entra costantemente a contatto con le difficoltà e i bisogni dei giovani.
“Tempo fa abbiamo coinvolto proprio alcuni ragazzi di Locri in un progetto multimediale”, ha detto Cristina Gasperin, tra gli educatori di Save the children intervenuti a Lamezia, “dovevano raccontare la loro terra attraverso un video per come la percepivano loro stessi. Quando gli chiesi quale era secondo loro una grave mancanza nella loro città mi hanno risposto senza pensarci troppo, l’assenza dei trasporti, perché si sentivano abbandonati e lontani dal resto del mondo”.
Ma ci sono anche realtà attive sui territori, che mettono in atto buone pratiche. Tra queste come ha ricordato Cederna, “vi è Carmela Manco una suora laica che, a San Giovanni a Teduccio, problematico quartiere di Napoli, ha creato su basi volontarie, senza alcun finanziamento, un centro dove dà spazio ai giovani, coinvolgendoli anche in attività teatrali”.
La vita riserva sorprese che in fondo al vuoto in cui eravamo annegate non ci aspettavamo di trovare. La mia si chiama Tunisia, un luogo disperso tra deserto, spezie, azzurro e nero kajal e dei grandi occhi dei nativi puntati con curiosità su noi straniere che, spudorate e col capo scoperto, attraversiamo questa parte di mondo situato ad un’unica ora di volo dall’Europa. Forse può sembrare un mondo più lontano, ma non a chi come me partorita dal Mediterraneo nei volti celati dal velo e dalla pudicizia non può non riconoscere i propri tratti e riconoscere chi eravamo negli sguardi insistenti dei giovanotti che sembrano passar la vita fissando i viandanti nelle sale da tè (dove non si vede una femmina).
Più che un viaggio nello spazio, infatti, quello nello splendido Stato del Nordafrica, gelsomino incastonato tra Libia e Algeria, è un viaggio nel tempo. Un’affascinante attraversata lungo i decenni che, tra panorami aspri, insegne d’altra epoca e sigarette fumanti, conduce a certe istantanee di PietroGermi e MarioMonicelli, dove maschi dalla pelle imbrunita dal sole di quello stesso parallelo si annidavano in stormi nei bar di piazza per scrutare le passanti camuffate in grandi scialli scuri.
Tutto questo e pure altro è la Tunisia, terra inquieta che da Oriente freme verso Ovest. Troppo vicina al Vecchio Continente per non mirarvi col voyeurismo d’un confinante che scruta tra le siepi del vicino più facoltoso (o semplicemente più strambo).
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LA PAURA
Percorrendo le vie del centro dal nero dei niqab e chador, ci si imbatte in hijab indossati alla moda dalle belle studentesse della capitale che festeggiano la loro personale primavera dentro un paio di jeans. C’è fermento a Tunisi. I mercanti della Medina ti riempiono di lusinghe per piazzarti un pacco. L’unica regola del fight club è contrattare. Tanto l’italiano lo parlano tutti: la lingua romanza è la vera eredità craxiana, una valuta svuotatasi del suo valore in un lampo di mitra.
«La gente ha paura, non viene più» è stato il mantra di questo tour nei contrasti del Maghreb e del mondo dove di noi cugini arricchiti è rimasta solo l’impronta. Ovunque.
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Tunisia sedotta e abbandonata, potrebbe essere la sintesi di questo mio racconto nato dal caso. O forse dall’incoscienza; in tutta franchezza non sarei qui a tradurre sensazioni in parole se avessi avuto libero arbitrio su una meta. Questa mi è stata proposta per cui, dal mio tavolo dell’aperitivo, mi sono ritrovata all’aeroporto di Cartagine con in mano ancora lo spritz. Così, rimbalzata, e senza il tempo di inutili ripensamenti, mi sono ritrovata a vagare in un luogo che era ormai depennato dal mio mappamondo mentale (perché questa maledetta paura ha rimpicciolito il pianeta). La mia (di paura) ha fatto il check-in con me e visitato suq, musei e templi sacri. Solo che ad ogni passo si faceva una compagna di viaggio più debole, sopraffatta da altre vibrazioni e dalla curiosità (che della psicosi è l’unico antidoto).
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LATITANTI
Dopo gli attentati del Bardo e di Sousse i vacanzieri che nel Paese dei Gelsomini cercavano riposo e altri lussi a buon mercato se la sono data a gambe, dicevamo. I latitanti più ricercati sono gli italiani perché – è tangibile ad ogni passo – la nostra dirimpettaia si era fatta bella per piacere innanzitutto a noi, costruendo bistrot e caffetterie (e la reazione del personale degli hotel e dei commercianti che hanno salutato il nostro avvento come un fedele saluta un salvatore, non lasciava dubbi). I nostri sostituti hanno tinto di biondo i villaggi di Djerba: russi e mitteleuropei che si ritemprano dai rigidi inverni tra sole, piscine e balli di gruppo con instancabili giovincelli del luogo ad allietar signore e signorine da mattina a notte, nella speranza che a suon di Macarena queste si moltiplichino, permettendo loro di tenersi stretto il posto.
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Le enormi strutture multistellate, nate come funghi sulle coste dell’isola del golfo di Gabès, hanno braccia grandi abbastanza da accogliere tutte e tre le religioni monoteiste; raccontano di fasti recenti in ogni cosa, di feste, schiamazzi, trenini, massaggi, relax e oli abbronzanti di cui ancora s’avverte la scia fondendosi a quella del narghilè e del tè alla menta. Vietato lasciare il Paese senza berne un ettolitro (ma meglio evitare di farlo nelle ore serali, a meno che non si abbia in programma una festa e un after).
Le forze militari sono dispiegate ad ogni angolo, per garantire la sicurezza dei visitatori, ma la musica non si è ancora fermata del tutto. Anzi, qualcosa si muove – ha assicurato il ministro del turismo tunisino (che è una donna!) Selma Elloumi Rekik, a Djerba per il tradizionale pellegrinaggio ebraico della Ghriba. Entro la fine dell’anno potrebbe essere siglato l’accordo “Open skies” tra Europa e Tunisia che dovrebbe fare da volano per il rilancio del turismo messo a dura prova dagli attentati del 2015. Il ministro ha parlato di segnali positivi di ripresa del settore anche grazie alle nuove offerte di prodotti come tour culturali, agriturismo, safari nel deserto, turismo medicale ed estetico. Ma la parola più usata in conferenza stampa è stata: «Sicurezza».
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LA FESTA
1100 tra militari e poliziotti vigilavano sulla buona riuscita della festa di Lag Ba’omer, il pellegrinaggio annuale degli ebrei alla sinagoga della Ghriba – la più antica d’Africa (586 a.c.), situata a pochi chilometri da Houmt Souk. Inizia 33 giorni dopo la Pasqua, dura tre giorni e richiama fedeli da Libia, Francia, Israele e Marocco. La sinagoga nel 2002 fu colpita da Al Qaeda con un sacrificio di 21 persone; da allora il flusso dei pellegrini è notevolmente diminuito ma non si è mai arrestato. Quest’anno, nonostante l’allarme lanciato dal Lotar (ente israeliano di monitoraggio del terrorismo nel mondo), 2500 visitatori sono giunti da tutto il mondo per vederla.
Sono 3mila gli ebrei in Tunisia, mille solo a Djerba, dove trovarono riparo dopo la distruzione del grande Tempio di Gerusalemme. Con le rovine, si dice, fu edificata la sinagoga che custodisce tra le sue mura una delle più antiche e preziose copie di Torah nel mondo, scritta su pelli di gazzella.
Che ci faccio io qui? Me lo sono chiesta per tutto il viale che dal parcheggio esterno dove ci ha lasciato il bus (perennemente scortato dalla polizia) conduce al tempio. Che ci faccio io, cristiana, cattolica, consumatrice di alcol e nicotina, blasfema frequentatrice di discoteche e gay pride, bardata in una sciarpa blu, presa in prestito da una gentile sconosciuta per camuffare le mie vergogne in segno di rispetto al luogo di culto (e alle mipsterz osservate con sincera devozione in notti trascorse tra insonnia e tutorial di contouring e hijab su youtube)?
Tutto è a dir poco surreale, mentre avanzo tra uomini in uniforme, camionette dai vetri scuri e mezzi pesanti.
Flusso di pensieri che mi accompagna fin quando, superato il metal detector, sono dentro. Amen. Carica d’adrenalina ho attraversato il varco della sinagoga e dei miei limiti finché d’un tratto non ero più nella mia vita ma in uno di quei servizi che mandano al Tg delle 13, e tu con un occhio alla tv e l’altro al prosciutto crudo pensi:
«Questi sono pazzi!». Tutto sembra lontanissimo dal tuo mondo e dalla tua coca zero, icona del colonialismo occidentale, che è lì che aspetta d’essere versata.
Ora in mezzo a quei “pazzi”, non si sa come, ci sei finita tu. A guardarli da vicino, però, da dietro quella sciarpa che ti fa sentire tanto esotica – e che, nel quartier generale degli ebrei, hai indossato alla musulmana – non ti sembrano poi tanto più folli di te. Se non fosse per il massiccio dispiegamento di forze armate, in effetti, la festa dei giudei di Djerba sarebbe risultata molto meno ansiogena di certe processioni che hanno luogo a pochi metri da noi, nella presunta evoluta Europa. Mi domando ad esempio che direbbe la signora col cappellino verde che tanto avevo temuto mentre leggevo blog e servizi che trasudavano ansia e terrore se, nel suo abito uscito da Burda 1996, si trovasse (come me) catapultata in un’altra dimensione (tipo di Sabato Santo mentre il sangue scorre a fiumi per le strade di Nocera Terinese dopo il passaggio dei Vattienti), e che idea si farebbe il banditore d’asta venuto dalla Francia per lanciare rosmarino e bouganville alle fanciulle se fosse testimone di certe Madonne e di certi inchini.
Ma la festa è un virus contagioso contro il quale il mio organismo, per fortuna, non ha sviluppato difese immunitarie. Quindi d’un colpo, rapita dai canti, dalle acconciature, dalle maioliche, dalle telecamere dei network mondiali, dal gusto retrò delle mises delle pellegrine che per l’occasione hanno indossato l’abito buono (nella speranza di metter su famiglia) sono fuori dal guscio e sono viva.
Rinvenire uno sposo alle non maritate pare sia proprio uno dei moventi che spinge i fedeli a partecipare alla festa di Lag Ba’Omer (che novità!). E poi c’è la ricerca della fertilità attraverso il rituale delle uova. Funziona così: le ragazze scrivono su un uovo un desiderio e il loro nome, lo ripongono vicino ad una candela finché il calore di questa non lo rende sodo. Poi lo mangiano e diventano feconde, il che – più che retrogrado o surreale – mi suona familiare. Mi ricorda infatti un certo santo protettore delle zitelle e delle spose infelici alle quali questi era solito prescrivere una sua ricetta: lo zabaione.
E d’un tratto la mia testa è posseduta da un altro tormentone:
«San Pasquale Baylonne protettore delle donne, fammi trovare marito, bianco, rosso e colorito, come te, tale e quale, o glorioso san Pasquale!».
Tutto il mondo è paese.
E l’unico rimedio a un’ossessione è trovarne un’altra.
Certi pezzi di nera ormai dovrebbero pagarli al barile, tanto sono redditizi. Per questa nobile e antica branca della cronaca è stato sempre così, ma forse lo è ancor di più nel periodo di più disperata crisi (di contenuti prima che economica) conosciuta dal giornalismo.
Lo sanno tutti, la nera vende anche perché possiamo immedesimarci e giudicare, guardare uno specchio e decidere se riconoscerci. In queste ore abbiamo visto e rivisto come se fosse una puntata di Gomorra (magari proprio quella in cui Ciruzzo uccide l’amata Debora) che questo meccanismo funziona perfettamente quando una coppia di giovani trasforma la fine del proprio amore in un orribile delitto. Scatta questo strano fenomeno – a metà fra potevo essere io e io non sono così – che ci fa giudici senza mai condannarci, che ci rende passivi divoratori di dettagli inutili per il racconto della storia in sé. Siccome il mostro in prima pagina deve pur sempre sbattercelo qualcuno, fare un viaggio nella mente del caporedattore così come lui cerca di farcelo fare in quella dell’assassino potrebbe rivelarsi piuttosto interessante.
La celebre lezione di giornalismo nel film “Sbatti il mostro in prima pagina”
Giovane uomo brucia giovane donna. Il lettore tende a dimenticarsene, ma succede spesso, troppo*. Tanto che lo schema del Caporedattore di un grande giornale (che per comodità immagineremo con la faccia di Gianmaria Volontè), si è dimostrato più o meno questo:
“Se succede sulla Magliana (Sara Di Pietrantonio, 22 anni, ndr) approfondiamo con un bell’articolo che spiega i pericoli della tecnologia per i giovani d’oggi, a Corigliano (Fabiana Luzzi, 17 anni, ndr) scriviamo una spalla sul retroterra culturale della Calabria, nella bassa Bresciana (Pinki Kaur Aulak, 26 anni, ndr) è chiaro che lì dovete darmi una spruzzata di fondamentalismo religioso“.
Si chiamano pezzi di appoggio, che si sommano al profilo (“Era una secchiona sorridente“, Corriere della Sera), all’analisi, alla scheda. Per quanto bene e in modo onesto possono essere fatti non sono altro che un modo per infarcire il male, per renderlo merce da vendere al pubblico bue. Non sono nemmeno il peggiore ingradiente se pensiamo che ci sono i plastici e le interviste ai criminologi, il dibattito e la moderazione dei commenti, ma quello semplicemente non è giornalismo quindi qui facciamo finta che non esista.
Il grande scrittore e giornalista Tom Wolfe ne “Le ragioni del sangue” (Mondadori, 2012) scrive:
«Non avevo mai capito bene che cosa intendesse dire Marshall McLuhan quando scrisse che la televisione avrebbe riportato le nazioni al tribalismo e al primitivismo sociale, ma ora, con l’avvento di internet, lo si vede. È cambiata la percezione della realtà. Quando un giornale riportava una notizia, il lettore era scettico, come l’indiano al quale era mostrato un pezzo di carta dall’uomo bianco, e non se ne fidava. Ora le tv, ma soprattutto i blog, i siti, sono come sciamani sulla piazza del villaggio che sussurrano qualcosa all’orecchio e per questo sembra vero».
La sua narrazione da 710 pagine è intrisa di nostalgia per quell’old journalism che in Italia proprio non ce la fa ad essere ripescato con i nuovi strumenti. In America, e di rimbalzo in tutta la cultura anglosassone di cui il giornalismo occidentale è intrisa, non è successo anche per il longevo apporto di tanti protagonisti della scrittura, ma da noi è andata diversamente. Un processo lento e inesorabile, iniziato tanti anni fa. Basta dare un’occhiata alle enciclopedie di giornalismo per vedere come le grandi cronache di nera (forse le ultime sono di Giuseppe D’Avanzo) siano state spazzate dall’ossessivo racconto della banana republic; come se i giornalisti italiani ad un certo punto si siano resi conto di non saper più capire e raccontare i drammi della società italiana se non attraverso le contumelie della sua classe dirigente. Dalla narrazione, insomma, è sparita la piccola borghesia italiana, nello stesso tempo la maggiore consumatrice di giornalismo. Da qui l’inizio della fine, altro che Internet.
A farla ricomparire in un ruolo da convitato di pietra è spesso un’accidentale collisione di eventi, come nel caso di questa ultima povera giovane ragazza romana. Nella sua tragica storia il pubblico ce l’ha messo il magistrato in conferenza stampa, quando ha raccontato come diversi passanti avrebbero potuto salvarla ma non l’hanno fatto. L’indifferenza, la solitudine, la miseria morale di una società come quella dell’Italia contemporanea accusata di concorso in omicidio. Sarà lo spunto che verrà a qualche caporedattore seriale in queste ore, vedrete. Un uomo che ha rinunciato a fare il suo lavoro, che è raccontare i fatti, perché non ha più cronisti sul posto, perché non può più impiegare risorse a curare i talenti e la sua giornata inizia insieme a mille concorrenti dai dettagli contenuti in un dispaccio di agenzia o in una affollata conferenza stampa. Un lavoratore annoiato che ha bisogno di pescare nella fantasia sua e in quella del suo pubblico elementi per infarcire il male, per renderlo merce. Ma il male è banale, e più di uno spettatore ormai si è reso conto del trucco.
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*Minorenni uccise e bruciate in Italia | (maggio 1992) Gisella Treglia 17 anni, viene uccisa a coltellate a Formia (Latina) dall’ex fidanzato della cugina, che poi le dà fuoco. (dicembre 1991) Katiuscia Razio, 16 anni uccisa a Calcinatello (Brescia) dal fidanzato di 19 anni che le spacca la testa con un tubo e poi le dà fuoco. (maggio 1992) Donatella Salari di soli 14 anni viene uccisa e bruciata a Roseto degli Abruzzi (Teramo) dal fratello di una sua amica. (agosto 1993) Manuela Petilli, 15 anni, il suo corpo bruciato viene trovato a Ivrea (Torino) 17 giorni dopo la sua scomparsa; un nomade di 28 anni verrà condannato all’ergastolo. (agosto 2000) Gabriella Mansi di soli 8 anni viene bruciata ancora viva ad Andria (Bari) dopo un tentativo di violenza di un gruppo di cinque ragazzi fra i 18 e i 20 anni.
Il 1986 si aprì con l’uscita di “It” di Stephen King. Al pari di Derry, la cittadina del Maine in cui il romanzo horror è ambientato, Cosenza si sforzava di coprire il proprio lato più oscuro e decadente con una patina d’irridente spensieratezza. Eppure le fonti giornalistiche parlano di una città sull’orlo di una crisi di nervi.
La locandina di “It”, capolavoro dell’horror
Gli ospedali cittadini dell’Annunziata e del Mariano Santo venivano scossi dagli scioperi del personale; la motorizzazione civile, che oggi giace esiliata lungo la SS. 107, vedeva i propri immobili di Via Popilia occupati dai dipendenti; l’erogazione dell’acqua funzionava con un’intermittenza desolante per un centro urbano situato ai piedi di due catene montuose. Il benessere dell’azienda di trasporto pubblico urbano, l’Atac, era minacciato dal fatto che solo un passeggero su due pagasse il biglietto, mentre le Ferrovie della Calabria registravano un preoccupante decremento dei viaggiatori. I bardel capoluogo di provincia si cimentavano in esercizi di disobbedienza civile mantenendo il costo della tazzina di caffè a 500 lire nonostante il nuovo listino dei pubblici esercizi stabiliva che un espresso dovesse costarne 600. La scena internazionale era egemonizzata dalla lotta al terrorismo arabo (Reagan minacciava azioni belliche contro la Libia e l’Europa decideva di concertare all’Aja una strategia comune contro la minaccia islamista). Un quadro, in fin dei conti, non molto diverso da quello attuale: allora come oggi, le produzioni televisive s’incentravano sul fenomeno-mafia (La Piovra 2 usciva proprio nell’86) mentre adesso sono Gomorra e la camorra a far da padrone.
Piena confusione anche in casa Cosenza Calcio, con una rosa scossa dai “casi d’insubordinazione” di Morra e Petrella e una parte della tifoseria che diceva di “sentirsi ridicola davanti a tutti i gruppi di tifosi le cui squadre si trovano sopra di noi in classifica”. La terza serie nazionale non regalava particolari entusiasmi e la pattuglia di giovani di belle speranze messa su dal direttore sportivo Roberto Ranzani, compreso l’inesperto coach Montefusco, stentavano a imboccare l’andazzo che soltanto un anno e mezzo dopo, con innesti mirati, li avrebbe portati al miracolo della B. Ma sul fronte societario il presidente Parise si barcamenava ancora nella ricerca di soci e, dunque, liquidità per garantire alla truppa rossoblù un’esistenza meno travagliata.
Una fascinosa rassegna di amichevoli internazionali da disputare dinanzi al pubblico amico del San Vito venne propinata alla stampa come panacea di tutti i mali. Entusiasmo, pienone e casse traboccanti: la “ricetta” passava dalla scelta oculata di avversari internazionalmente riconosciuti ma, soprattutto, disponibili a esibirsi in terra calabra in pieno gennaio. Ranzani alla fine strappò il “sì” di due squadre blasonate e di tutto rispetto, in pausa nei rispettivi campionati. La prima scelta cadde sullo Stoccarda guidato dal croato plurititolato Otto Barić che decise di far svernare i propri ragazzi, saldamente assestati al quinto posto della 1. Fußball-Bundesliga, in una tournée nei teporosi lidi del sud Italia, quali Castellammare di Stabia e, appunto, Cosenza.
Il portierone Gigi Simoni in una mitica formazione del Cosenza
Ma quel quindici gennaio ottantasei, i tedeschi trovarono a Cosenza un clima polare. Dinanzi a millecinquecento spettatori strafatti di Caffè Borghetti andò in scena il personalissimo show del baby portiere rossoblù Gigi Simoni, titolare dal primo minuto per via dell’infortunio occorso all’attempato Delli Pizzi. Per mezz’ora buona Simoni riuscì a neutralizzare le bordate dei vari Foerster, Allgoewer, Pasic ma soprattutto di un giovanissimo Jurgen Klinsmann. Terreno di conquista per lui il San Vito: vestito del nerazzurro Internazionale, tre anni dopo, in un match di Coppa Italia, scaricherà alle spalle dell’incolpevole Di Leo il due a zero definitivo al secondo supplementare guadagnandosi, a firma Santi Trimboli, l’appellativo di “ira di Dio”. Ma quella sera Jurgen aveva le polveri bagnate e nonostante il rocambolesco 2-6 finale per effetto delle reti di Mueller, Petrella, Allgoewer, Tivelli, Buchwald, Foerster, Buchwald e Pasic, il vero protagonista fu Gigi Simoni che ipnotizzando anche Zietsch su calcio di rigore, diede un senso a un match che la stampa definì «inutile dispendio di soldi ed energie».
Un match per pochi intimi, insomma, costato alla società di Parise un passivo di dieci milioni di lire, “neanche si trattasse di Coppa dei Campioni”. Ma dietro l’angolo attendeva sornione Mircea Lucescu. Nel tascone del suo pesante paletot verdastro stringeva in pugno un contratto già firmato per far scorazzare i “cani rossi” della società polisportiva di Bucarest, la titolata Dinamo, sul pesante terreno di gioco di una città sull’orlo di una crisi di nervi.
…continua….
Per approfondire:
Archivio storico Gazzetta del Sud (Cronaca di Cosenza), edizioni del 14, 15 e 16 gennaio 1986.
Si può ancora scrivere di un concerto senza usare la parola “poliedrico” per l’artista? Con Daniele Silvestri è operazione da Acrobati, come il titolo del disco (dedicato a Lucio Dalla) lanciato con il Megafono tour ieri sera approdato al Teatro di tradizione Alfonso Rendano di Cosenza. Se è la prima volta nella ventennale carriera dell’artista romano un suo album si posiziona in testa alle classifiche di vendita, lo stesso non si può dire della dimestichezza con la quale calca palcoscenici così antichi e prestigiosi. Il teatro Silvestri lo conosce bene, non solo perché è figlio di Alberto Silvestri, geniale sceneggiatore (Sandokan e il Ritorno di Zanna Bianca, per citarne due) e autore televisivo che ha portato il proscenio del Costanzo Show nelle case degli italiani, ma anche perché già a metà anni novanta lo calcava al fianco di Rocco Papaleo nello spettacolo Rosso fiammante bloccato neve dubbi vetro tesi infinito. Erano gli anni in cui saliva anche sul palco de L’Havana al Festival della Gioventù Comunista. Anni lontani ma non troppo da quello che il 47enne ancora propone in tutte le sue tappe, concluse sempre con la canzone Cohiba, dedicata alla figura di Ernesto Che Guevara, datata ottobre 1996. E di revival non ne mancano nelle abbondanti tre ore di spettacolo orchestrate da Silvestri, che divide la serata in tre scenari e tre canovacci.
Il primo casalingo, dedicato all’album in uscita si presenta con una scenografia che richiama una città vagamente britannica, con Silvestri adagiato al pianoforte dietro una cortina di mattoni che somiglia ad un pozzo dei desideri. Nove minuti di pausa dopo la prima abbondante ora di musica e si passa al circo e alle Monetine; Silvestri nei panni del circense si lascia già andare a fuori programma e a brani fuori scaletta, accompagnato da un superbo gioco di luci, protagonista di tutto il concerto, fino alla parte open della serata, quella dedicata alle richieste del pubblico e della rete dei fan. Se proprio nella città dei bruzi non poteva mancare La Paranza, canzone portata a Sanremo nel 2007 in cui è contenuta una citazione (“Così da Genova puoi scendere a Cosenza“, semplice assonanza o richiamo alle due città simbolo della rivolta noglobal?), stupiscono brani più sentimentali e datati, in cui emerge l’atmosfera romanesca scanzonata e romantica del cantautore, che dedica fra gli applausi scroscianti del teatro Occhi da orientale a Filomena, una giovane ragazza di San Lucido vittima di un incidente stradale in cui sono state recise tre vite ma in cui grazie alla donazione degli organi hanno potuto trovare speranza otto persone.
La serata finisce con una mezzora buona di balli in platea, scene usuali alla Sila Suona Bee, la fortunata rassegna naturalistica della Archimedia produzioni che con il sold out allo show di Daniele Silvestri mette a segno un altro colpo vincente nella sua collezione. Per carpirne il segreto basta dare un’occhiata al backstage dove, prima durante e dopo il concerto, tecnici e musicisti sono messi in condizione di potersi divertire da matti.
Per far divertire anche il pubblico non c’è strada migliore di questa.
Praia a Mare era bella martedì scorso, discretamente vestita con abiti primaverili sui quali facevano capolino sprazzi di rosa. Sarebbe un’esagerazione dire che era tappezzata in onore del passaggio del Giro, da queste parti la gente è abituata a stare all’erta e di conseguenza stenta abbandonarsi spensierata tra le braccia del passante di turno, fosse anche un gentiluomo esperto, abbronzato e socievole come il Serpentone Rosa.
L’isola di Cirella accompagna il Serpentone Rosa verso l’arrivo di tappa (foto ufficiale Giro d’Italia)
Le scolaresche scorrazzavano presso l’Alto Tirreno cosentino munite di zainetto, panino e maglietta dai colori sgargianti, mentre il corpo insegnante che le accompagnava si godeva la giornata flirtando con un paese riversato per strada sin dalle prime ore della giornata. I baristi, i ristoratori ed i venditori di protezioni solari per i giornalisti nord europei si sfregavano le mani al pensiero degli ingenti incassi fuori stagione. Le coppie del luogo, tirate a lucido per l’occasione, condividevano le terrazze dei bar del corso con membri dello staff della corsa rosa che vedevano in Praia un arrivo ancora troppo lontano dalla conclusione del Giro. Gli addetti al montaggio delle transenne portavano un tocco di varietà, sfoderando pantaloncini corti con tasche piene di cacciaviti e nastro isolante ed acconciature rasta raccolte in toupet che ricordavano le Miss degli anni ’60. Mentre era facile riconoscere gli operatori della Rai grazie al fatto che assediavano le tavole calde del centro alla ricerca di pesce locale prima dell’inizio della diretta televisiva.
L’isola di Dino spettatore degli ultimi chilometri di tappa (foto ufficiale Giro d’Italia)
Il tratto finale era uno spettacolo con l’Isola Dino a fare da arbitro sul versante occidentale e la salita di Via Fortino ad oriente; tale preziosità paesaggistica diventava, però, scenario di uno dei momenti più pop della giornata grazie al passaggio della carovana pubblicitaria: un esercito di ragazze e ragazzi che regalavano gadget ed esibizioni danzerecce degne di una prima serata di Rai Uno. Il Giro è anche questo, talvolta sembra di partecipare ad un concerto dei Pooh. In questa zona, vicina ai siti archeologici di Blanda Julia e Laos, era inevitabile che vincesse Ulissi che di nome fa Diego, come il Maradona che trent’anni fa avrebbe inaugurato nella vicina Scalea un villaggio turistico dopo un viaggio in Uno Turbo da Napoli.
Diego Ulissi vince la tappa di Praia a Mare (foto Ufficiale Giro d’Italia)
La conclusione di una tappa del Giro è come quando si raccolgono i pezzi di un gioco da tavola a fine serata, l’ascesi nella competizione, l’esilio dalla quotidianità ed i vestiti buoni vengono riposti nello scatolone da portare in soffitta ed a noi rimangono solo posaceneri pieni e macchie untuose dei bicchieri di vino che ad inizio serata erano traboccanti. C’era il rischio che il passaggio di migliaia di autovetture e di almeno duecento catene ben oliate, che gli schizzi delle borracce gettate dai corridori ed i sudori di campioni e gregari avessero lavato via il sangue delle persone che hanno perso la vita sulla Statale 18, ma gli organi delle vittime di incidenti stradali che ora vivono in altre persone ci aiuteranno a ricordare i volti di Ida, Filomena e Sara ora che la festa è passata.
LA PETIZIONE | Basta vittime sulla Statale 18: qui
È come passeggiare nel futuro più temuto. Vito, studente di Agraria all’Università di Bari, vaga avvilito tra ulivi mutilati, secchi e morti; il lembo di terra che ora dovrebbe essere verde è grigio.
Accarezza le foglie e spiega:
“Questa pianta potrebbe essere sana, ma il mandorlo è una specie ospite, se succede qualcosa di imprevedibile negli sterminati passaggi del ciclo biologico, ad esempio un cambiamento climatico favorevole al batterio, può fare la fine degli ulivi”.
Contrada Li Sauli, tra Gallipoli e Taviano, una fetta di Salento che si fa arida e piena di vita d’estate e che invece adesso annaspa immobile nella solitudine di un inizio primavera mite, come ogni anno, ma presago di tormenti come mai prima. Siamo a due passi dal Samsara, la discoteca della movida salentina con il nome di una dottrina buddhista che si potrebbe tradurre volgarmente in caos irrefrenabile.
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È qui che per la prima volta, nell’autunno 2013, è stata riscontrata la presenza di Xylella fastidiosa, un batterio delle piante esotico mai osservato prima in Europa. Si tratta di un killer piuttosto subdolo, difficile da identificare, che altera gravemente le piante ospiti fino a provocarne la morte. Il tramite del contagio è invece un piccolo insetto vettore, la sputacchina (al secolo Philaenius spumarius), non contaminato di per sé, che è invece diffusamente presente nel nostro territorio.
Secondo molti la xylella è stato il detonatore nel complesso di cause che hanno portato ad un essicamento rapido dell’ulivo, il Co.di.Ro., un acronimo che indica la malattia che sta uccidendo lentamente gli ulivi secolari del Salento, in quella che è stata definita come “la peggior emergenza fitosanitaria al mondo“, perché minaccia il paesaggio e l’economia di un’intera regione e rischia di diffondersi in tutto il continente.
Se esiste un punto di partenza possibile per districarsi nella matassa imbarbarita dell’emergenza xylella in Puglia, è indubbiamente questo campo di ulivi arresi alla vita.
“C’è solo un punto da tenere sempre bene a mente – ci spiega ancora Vito passeggiando calmo in mezzo alle piante – l’uomo è lontano dal conoscere tutti i fenomeni e le interazioni biologiche possibili”.
Il tentativo di questo articolo è quindi solamente quello di individuare un punto di partenza per comprendere una questione complessa e rispondere ad una domanda essenziale: gli alberi stanno morendo?
1.
Scienza e giustizia
Esistono molte divergenze nella comunità scientifica, impossibili da catalogare in un singolo articolo, ma almeno sul fatto che il batterio Xylella fastidiosa sia arrivato in Puglia (e tra l’altro anche in Corsica), sono tutti d’accordo.
Secondo i ricercatori del CNR di Bari e dell’Istituto Basile – Caramia di Locorotondo, xylella è stata introdotta in Puglia in un “evento unico”, forse una partita di oleandri ornamentali proveniente da Costa Rica, transitata dall’Olanda senza i controlli necessari. Xylella fastidiosa è inoltre provatamente un patogeno da quarantena (come da certificazione europea Eppo) e il rischio contaminazione, oltre la zona già dichiarata infetta della provincia di Lecce e parte di quella di Brindisi, è concreto. C’è anche una nuova ricerca dell’Efsa, pubblicata lo scorso 29 marzo, che conferma la tesi della xylella causa esclusiva della malattia degli ulivi.
Inoltre, ed è un punto chiave per comprendere l’intera questione, anche se xylella non avesse alcun ruolo nella malattia che porta all’essicamento rapido gli ulivi salentini, e gli ulivi ne fossero “portatori sani”, andrebbe combattuta ed estirpata ugualmente, poiché si tratta di un batterio pericoloso, in grado di contaminare e devastare diverse specie di piante. Non lo dicono gli scienziati italiani, ma lo dimostrano le evidenze storiche: gli agrumeti brasiliani sono stati devastati a partire dal 1994 e ancora oggi dalla CVC, la clorosi variegata degli agrumi, di cui Xylella fastidiosa è stata provatamente causa.
Ma se cosi fosse, quale sarebbe la soluzione proposta dagli scienziati baresi? Per impedire che si diffonda in tutto il Salento e oltre, bisognerebbe abbattere tutti gli alberi infetti e potare radicalmente tutti quelli limitrofi. E non è detto che questo basti a fermare la contaminazione. Una posizione dura, ma orientata al recupero delle piante. Gli olivi ricrescono in fretta, fra tre-quattro anni gli olivicoltori colpiti dalle potature potrebbero tornare ad ottenere il frutto. Certo, sarebbero tre quattro anni difficili, molto difficili.
Qui la questione si infittisce. Il discorso dei cattedratici parrebbe filare, se non fosse che alcuni dei ricercatori che sostengono queste tesi (sette per la precisione, appartenenti al Cnr di Bari e agli istituti di Locorotondo e Valenzano) sono indagati dalla Procura di Lecce per aver violato dolosamente norme in materia ambientale e addirittura diffuso volutamente il batterio. Un’accusa infamante, se falsa, disarmante se vera. Va detto che la Procura di Lecce al momento del via alle indagini, fino allo scorso marzo, era guidata da un magistrato stimato, Cataldo Motta, pubblico ministero nei due maxi processi che hanno affossato la Sacra Corona Unita salentina negli anni novanta. E il procuratore ha annunciato di essere in possesso di controanalisi capaci di confutare gli esiti baresi. A sua volta, la comunità scientifica (qui un appello de Le Scienze) contesta al procuratore Motta la decisione di non aver mai reso pubbliche queste analisi.
2.
Le teorie del complotto
A chi credere? È forse impossibile prendere una posizione con i mezzi e i fatti attualmente disponibili alla pubblica opinione, ma questo non ha impedito il proliferare nel Salento, e non solo, di movimenti ambientalisti o di protesta che potrebbero contestare anche tutto quello che avete letto finora. Lo slogan che rappresenta le loro posizioni va per la maggiore nel leccese di questi tempi: “la Xylella n’capu la tiniti”. La xylella l’avete nel cervello.
Oltre alla grave accusa formulata dalla Procura, a istigare i dubbi su una presunta macchinazione occulta dell’intera emergenza xylella ha contribuito soprattutto un episodio ripescato dalle cronache scientifiche, un convegno organizzato da Cost873, un network europeo di scienziati, industrie e specialisti della protezione delle piante, tenutosi nell’ottobre 2010 all’Istituto Agronomico Mediterraneo (IAM) di Valenzano (Bari). Qui i ricercatori convenuti hanno dichiaratamente sperimentato il batterio Xylella fastidiosa, originario del Sud America, sulle piante locali, introducendolo di fatto nel territorio pugliese per motivi di studio e prevenzione.
Di questo meeting si trova traccia sul web, dove è presentato con questa introduzione: “Attualmente, questo patogeno devastante (Xylella fastidiosa, ndr)non è mai stato riscontrato in Europa. Tuttavia, un vero e proprio rischio di invasione latente esiste perché questo parassita obbligato può infettare una gamma straordinariamente ampia di piante ospiti (vite, agrumi, drupacee, piante ornamentali), molti dei quali non sono normalmente esaminati per Xylella”.
Considerato ciò che sé successo in Puglia nei successivi sei anni, si tratta di una preveggenza quantomeno sinistra. Per dovere di cronaca, bisogna tuttavia costatare che a Valenzano e dintorni non vi è mai stato alcun caso di pianta infetta e che tra Valenzano e il focolaio più vicino di xylella, Oria nel brindisino, corrono circa 90km in linea d’aria.
Questo episodio ha, lui sì fuori da ogni dubbio, generato la diffusione di numerose teorie del complotto. In dubbio è stata messa la stessa presenza del batterio Xylella fastidiosa in Puglia. Uno dei più agguerriti movimenti ambientalisti, Spazi Popolari, sostiene addirittura che l’essiccamento degli ulivi dipenda da funghi tracheomicotici, storicamente presenti nel Salento, e che tutto il caso sia stato montato ad arte.
Come accusa la Procura, il batterio sarebbe stato introdotto in maniera fraudolenta dai ricercatori, o comunque una volta riscontrato sarebbe stato combattuto con mezzi inappropriati e deleteri, estirpazioni e fitofarmaci, che comporterebbero la distruzione di buona parte del patrimonio olivicolo salentino. Tutto sarebbe stato manovrato da indefiniti attori occulti, interessati per diverse ragioni alla distruzione delle piante: se per mezzo del batterio o tramite l’estirpazione selvaggia giustificata dalla sua presunta presenza, poco importa. Ma chi sarebbero questi manovratori?
Vi sono diverse teorie. Eccone una breve summa:
c’è la mano delle multinazionali dell’olio (Monsanto su tutte);
c’è la regia occulta dei costruttori del gasdotto Tap, che vogliono rovinare il paesaggio salentino;
c’è l’interesse dei grossi palazzinari a liberarsi degli ulivi secolari, per legge inestirpabili, per costruire alberghi e complessi turistici;
al contrario, c’è un interesse diffuso a danneggiare l’immagine del Salento, unica zona turistica d’Italia in costante crescita.
Tutte queste teorie presuppongono la malafede dei ricercatori che si sarebbero prestati alla noncuranza o alla contaminazione volontaria delle piante, e che oggi mentirebbero sui risultati delle ricerche, per avidità di finanziamenti e per indicibili dinamiche interne alle guerre tra bande della comunità scientifica.
Bisogna tenere conto di tutto questo, senza pregiudizi, e allo stesso tempo osservare lo sguardo di Vito mentre scruta gli alberi più lontani e immagina un futuro prossimo in cui potrebbero non essercene più. Perché al di là di ogni causa, colpa, sospetto e guru improvvisati che pubblicano sul web foto di piante miracolosamente resuscitate, gli alberi stanno morendo e non si può non vederlo.
3.
Tanti piccoli Pirro
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Figuriamoci se questo samsara (nell’accezione di irrefrenabile caos, dicevamo) poteva essere governato e non aggravato dalla politica. All’inizio del problema, nel 2013, la Regione e lo Stato hanno delegato le decisioni all’Unione Europea e questa ha imposto brutalmente quanto previsto dalla normativa Eppo: eradicazioni e trattamenti con fitofarmaci (quelli composti da agenti chimici) per contenere l’infezione in una zona di quarantena. Il governo Renzi ha quindi nominato un commissario speciale per l’emergenza, il capo della Guardia Forestale regionale Giuseppe Silletti, che ha imbastito in fretta un piano d’emergenza che applicasse le direttive europee. A Silletti è stato contestato di non aver cercato un confronto con la popolazione e i proprietari degli ulivi, né fatto chiarezza sulla giustificazione scientifica delle proprie azioni. Associazioni e singoli cittadini hanno quindi inondato di ricorsi il Tar e il Consiglio di Stato. Nel frattempo il Piano è stato modificato in base a nuove risultanze scientifiche e infine sospeso quando la Procura di Lecce ha posto sotto sequestro tutte le aree interessate dai provvedimenti e indagato, tra gli altri, lo stesso Silletti. L’esito paradossale è che oggi ogni azione di contenimento del batterio è ferma, in attesa del pronunciamento della Procura, e molti ne gioiscono, circondati dalle carcasse degli alberi.
A queste condizioni, in cui nulla appare certo e nessuno si preoccupa di spararla troppo grossa, nella ricerca scientifica pugliese inizia a farsi strada (senza tuttavia ancora esporsi ufficialmente) l’indiscrezione di un allarme chiaro. A prescindere dalle cause, se non facciamo nulla, il 70% degli ulivi pugliesi rischia di morire. Vito ascolta questa ipotesi e guarda un’ultima volta gli alberi mozzi e piagati. Non se la sente di negare, né di annuire.
È stata inaugurata al Museo del Fumetto di Cosenza la prima mostra italiana su Charlie Hebdo, il giornale satirico francese colpito dal devastante attacco terroristico del 7 gennaio 2015 costato la vita a 17 persone. La mostra è visitabile fino all’8 maggio ed è stata inaugurata un mese prima con un intero pomeriggio, quello di sabato 9 aprile, dedicato al tema della satira politica, con incontri molto partecipati con vari artisti e musicisti. Un omaggio alla libertà di espressione e all’informazione più che mai attuale che arriva da una città del Sud sempre più eretica.
“L’informazione interessa ai cittadini solo se è libera“, ha affermato in apertura della mostra Paolo Butturini, membro della segreteria delle Federazione Nazionale della Stampa e convenuto alla presentazione del libro del compianto direttore di Charlie Hebdo Stéphane Charbonier, in arte Charb, dal titolo “Ridete, per Dio”.
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“Per avere giornali indipendenti però servono i lettori“. Bisogna leggere, pretendere la verità su ciò che accade ogni giorno, perché i giudici di chi informa sono i cittadini. Ma allora perché sono sempre di più i casi di giornalisti che hanno paura di mettere nero su bianco quello che sanno? Che temono di andare oltre i limiti del conformismo e che quando lo fanno, si ritrovano costretti a spostarsi accompagnati da una scorta? Michele Inserra, oggi capo servizio del “Quotidiano del Sud” a Cosenza, presente in sala nella giornata di inaugurazione, ha spiegato che determinate informazioni sono scomode per chi ha troppo potere in mano e un giornalista in questo modo viene privato della libertà di “essere limpido nel raccontare i fatti senza omettere nomi e soprattutto cognomi” . Era sicuro Michele Inserra, perché certe cose le ha vissute in prima persona e non ha paura di dire (come ha già fatto il Procuratore di Reggio Calabria Cafiero De Rao alle trasmissione “Le Iene”) che “Stato e Chiesa sono il palcoscenico della ’ndrangheta“.
La libertà di informare chi legge sui fatti accaduti è ormai sempre più limitata, anche secondo le redattrici francesi di Charlie Hebdo Marika Bret e Cocó, presenti anche loro in una giornata che Cosenza farebbe bene a ricordare a lungo. E proprio loro ci fanno conoscere quelle che sono spesso le paure di chi, con una matita o una penna, deve raccontare.
La vita di chi sta in una redazione è complicata, perché “se un giornale è finanziato da capi di banche allora il redattore non sarà mai libero di scrivere ciò che vuole, arrivando ad una censura implicita“, ha spiegato la Bret.
L’attentato del 7 Gennaio compiuto dai fratelli Kouachi, in cui morirono 12 persone, fra cui proprio Charb, ha avuto un impatto enorme sui cittadini francesi e non solo, perché era la prima volta che un gruppo di terroristi entrava nella redazione di un giornale facendo una carneficina, ma persone come Marika e Cocó sono la prova che dal peggio e dal terrore si possono ricavare cose migliori, come disegni che fanno sorridere, ma allo stesso tempo riflettere per cambiare attivamente ciò che non va.
Cocò, la disegnatrice che fu sequestrata e poi rilasciata dagli attentatori, ci racconta la sua esperienza subito dopo l’attentato: “Di fronte ad un attentato non bisogna mai mostrare tristezza, semmai cercare una risposta a quello che è successo attraverso il disegno, perché il compito di un redattore di stampa è quello di suscitare la voglia, l’impegno e la rabbia di chi guarda“, dice Cocò ai tanti appassionati giunti a sentirla.
Dimostrazione che non servono armi e morti innocenti per bloccare la libertà di pensiero anzi, “è l’attualità a fare i disegni” e a dar voce ai pensieri. Per questo Cocò armata di un pennarello non ha perso tempo, proprio in sala, per dimostrarlo, mettendo nero su bianco un disegno satirico contro quella mafia che ancora in troppi, fuori dalle porte dell’arte, non hanno il coraggio di prendere in giro.
Il Mondo di mezzo non è venuto su in un giorno. C’è un prologo sconosciuto alla storia che ha sconvolto Roma: si svolge all’ora d’aria del carcere di Rebibbia, nel 1982. Siamo ancora lontani dai fatti di “Mafia Capitale”, semmai ci troviamo nel mezzo di quelli che hanno ispirato “Romanzo Criminale”.
Renatino er Bambolotto (Enrico De Pedis, che la finzione letteraria e cinematografica farà ricordare come il Dandi) è fuori da poco; con i 15 milioni del primo bottino della banda della Magliana può iniziare a staccarsi dalle bravate di Trastevere e dai suoi personaggi neri per pian piano diventare il Presidente amico dei servizi e benefattore di Sant’Apollinare. In galera c’era finito per una rapina fatta con Alessandro D’Ortenzi alias Zanzarone, a quei tempi abituale ospite nelle ville dei principi dell’eversione nera di fine anni ’70.
«Certo non giocavamo a briscola – racconta quest’ultimo al Corsera nel 1996 – si parlava di destabilizzare il paese con la compiacenza di quella gente. Una volta che il paese fosse caduto nel caos, si sarebbe arrivati a prendere il potere e si sa bene che a noi della destra piace il potere».
Cap. 1
IL GABBIO
Ma questa è una storia risaputa, e avviene lontana dal rettangolo di cielo sulla Tiburtina chiuso al resto della città. Quì invece, nel proscenio dietro le sbarre caro ai fratelli Taviani, compaiono, in ordine di apparizione, quattro ragazzi: Massimo Carminati, Salvatore Buzzi, Gianni Alemanno e Peppe Dimitri.
Massimo Carminati ritratto in tre distinte foto segnaletiche
Massimo Carminati, milanese diventato romano in adolescenza, finisce al gabbio a soli 23 anni (con un curriculum criminale già da paura) perché ritenuto reo degli arditi delitti del gruppo terroristico conosciuto come Nuclei Armati Rivoluzionari. Stava scappando, e c’era quasi riuscito. Lo catturarono al valico del Gaggiolo nel tentativo di darsi alla latitanza all’estero; a bordo di una Renault 5 azzurra con lui c’erano i due avanguardisti Domenico Magnetta e Alfredo Graniti, 25 milioni di lire e tre diamanti. La polizia (leggenda mai confermata narra grazie a una soffiata di Cristiano Fioravanti, fresco di pentimento) li aspettava alla frontiera con i fucili spianati. Quando i militi aprono il fuoco sono convinti che nell’auto ci siano i capi superstiti dei NAR: Francesca Mambro, Giorgio Vale e Gilberto Cavallini. Invece l’occhio trapassato dalla pallottola fu quello del futuro numero uno di Mafia Capitale, proprio per questo episodio rinominato er Cecato.
Buzzi, futuro ràs delle cooperative rosse e numero due dell’organizzazione criminale che in questi mesi è a processo proprio nell’aula bunker di Rebibbia, all’epoca della prima detenzione invece ha 26 anni ed è dentro per aver ucciso con 34 coltellate, il 24 giugno del 1980, un complice che lo aveva minacciato di rivelare ai superiori della banca per la quale lavorava il vorticoso giro di assegni falsi che i due solevano spartirsi impuniti e insospettati. Un alibi costruito in fretta e furia grazie alla complicità della fidanzata brasiliana poi la confessione, a cui seguiranno anni da detenuto talmente modello (sarà il primo in Italia a laurearsi in gattabuia, tesi sull’attività giornalistica dell’economista Pareto e 100 con lode in Lettere) da meritare la grazia concessa dal presidente Oscar Luigi Scalfaro e il passepartout per i salotti della Roma solidale.
Alemanno, barese adottato in riva al Tevere, nel 1982 ha 23 anni come Carminati ed è ristretto a Rebibbia per una molotov lanciata contro l’ambasciata dell’Unione Sovietica. Non è la sua prima accusa: un anno prima era stato accusato d’aver preso a sprangate uno studente universitario con l’aiuto di altri tre camerati. In poco tempo sarà prosciolto da ogni accusa e più di qualche anno dopo, quando in molti hanno dimenticato, diventerà primo cittadino della Capitale italiana in quota Alleanza Nazionale, poi candidato al Consiglio Europeo per il partito di quella stessa Giorgia Meloni che oggi ambisce a diventare la prima donna sul Campidoglio e a ereditare la carica di sindaco della destra.
Gianni Alemanno manifesta ai tempi del Fronte della gioventù
Oggi Gianni ha un po’ di processi di cui occuparsi e tanti seguaci con i quali dialogare su Twitter, ma all’epoca poteva parlare solo con una persona, il suo compagno di cella. Si chiamava Peppe Dimitri, romano de Roma. All’epoca 26enne, Dimitri era in carcere perché il 15 marzo 1979 figurava fra i terroristi che per commemorare la ricorrenza della morte del neofascista Franco Anselmi, ucciso un anno prima nel corso di una rapina in un’armeria, rapinarono vestiti da carabinieri un’altra armeria, la “Omnia Sport“, a due passi dalla Questura di Roma. Bottino niente male: una sessantina di pistole, quindici carabine e munizioni a quantità. L’impresa verrà rivendicata dai Nar ed ebbe infatti tra i partecipanti Giuseppe Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e Alessandro Alibrandi. Il 14 dicembre 1979, in Via Alessandria, sempre a Roma, l’equipaggio di un’auto civetta della Polizia di Stato notò tre ragazzi che trasportavano alcuni scatoloni da un sottoscala ad un’automobile. Uno di loro era ancora Peppe Dimitri, che fu bloccato dagli agenti mentre stava per aprire il fuoco. Negli anni del post-ideologico entrerà in Alleanza Nazionale, ricoprendo il ruolo di consulente del suo vecchio coinquilino Alemanno durante il suo incarico di Ministro alle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali. Poi nel 2006 perde la vita a 49 anni, travolto in un incidente stradale. Al suo funerale una folla di ministri, parlamentari, ex terroristi, giovani militanti e gente comune. La sua memoria è omaggiata da uno spazio verde all’interno del comprensorio di Colle Romito.
In realtà nella cella c’era anche Andrea Munno, all’epoca arrestato per un’aggressione, anch’egli nei Nar. Ovviamente lo ritroviamo nelle carte del processo a Mafia Capitale, nella parte dell’aggiudicazione degli appalti pubblici definiti dal capo dell’anticorruzione Raffaele Cantone:
“familiari, per cui si invitano le imprese amiche e non quelle che hanno i requisiti. E delle imprese amiche non ci si cura nemmeno di verificare se effettivamente possono fare i lavori o devono essere escluse perché prive dei requisiti”.
Cap. 2
IL BAR
Amicizia vera, insomma, che arriva da un tempo lontano ma da posti sempre vicini. Una rete affaristica (una “mafia”) che spesso si sviluppa nei bar della Capitale. Dallo storico «Fungo», il bar all’Eur ritrovo di neofascisti – ma anche di criminali e malavitosi romani – fino al bar al largo di Vigna Stelluti, quartier generale in cui il Ros ha portato alla luce il sistema del Mondo di mezzo.
Le intercettazioni del Ros sotto il gazebo del bar frequentato da Carminati
Ma il bar po’ esse ferro come po’ esse piuma, e sotto i gazebo si gioca una vera e propria guerra d’intelligence fra guardie e ladri. Ogni mattina, ad orario tardo, la grappa è con la mosca e con la cimice, il caffè corretto al gps, il tressette è in diretta streaming e il virus nei telefonini. Microfoni direzionali e intercettazioni ad apparecchi fissi e mobili si bevono prima del cicchetto. Nel dettaglio di Vigna Stelluti, gli investigatori piazzano dieci cimici nascoste tra i tavoli del bar più due microcamere, una puntata verso l’interno del locale e l’altra verso l’esterno. Componenti del grande orecchio del Ros che intercetta ore e ore di conversazioni, fra cui la famosa in cui Carminati espone la teoria dei mondi. In un caso per questi minuscoli apparecchi stava per saltare tutto, quando la soffiata sulle cimici piazzate nello studio dell’avvocato Pierpaolo Dell’Anno – indagato per concorso esterno in associazione mafiosa – ha rischiato di far scoprire il marchingegno e con essa tutta la delicata fase d’inchiesta, ma alla fine, come saprete, il lavoro degli inquirenti è andato in porto nonostante i sospetti e le paure serpeggiassero sempre più frequenti fra gli indagati, in una serie di giornate sull’orlo della crisi di nervi.
Una tragica guerra di spionaggio all’amatriciana che va avanti per mesi e non manca di momenti comici, infatti, come quando uno dei destri di Carminati se la prende con un tecnico Sky scambiandolo per un poliziotto sotto copertura. E invece si trattava di una semplice parabola, come quella conclusa da un’attività di indagine costosissima per lo Stato, che ha dimostrato un danno erariale di milioni di euro e ha prodotto una mole impressionante di documenti in cui sono formulate accuse ora al vaglio del dibattito processuale che, fra le altre cose, è chiamato a dimostrare oltre ogni ragionevole dubbio l’associazione mafiosa e la corruzione in concorso di ben 46 imputati.
Sono bastati gli arresti, basteranno le condanne a fermarli? Se sono riusciti a trasformare le amicizie in un sistema vero e proprio lo dirà infatti la capacità di rigenerarsi tipica delle consorterie mafiose. Ora che un’altra campagna elettorale è avviata bisogna chiedersi se saranno stati capaci di sostituire i rami di comando spezzati dagli arresti per riscoprirsi ancora padroni della strada e dei tavolini dei soliti bar. Rispondere è un compito che spetta anche al giornalismo.
Di certo c’è solo che sarebbe stato più facile per tutti fermarli 34 anni fa, quando erano solo quattro amici al Nar.
(1 continua.)
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aggiornamento | In aula bunker a Rebibbia, Luca Odevaine, a Roma vice capogabinetto prima del sindaco Veltroni e poi di Alemanno, ha ammesso di aver preso più di 15mila euro al mese per facilitare i protagonisti di mafia capitale: “Alemanno mi disse che per tutto il periodo della mia permanenza al Comune le due sue persone di assoluta fiducia a cui avrei dovuto far riferimento per qualunque cosa erano Riccardo Mancini e l’onorevole Vincenzo Piso che era stato in carcere con lui negli anni Ottanta e aveva finanziato la sua campagna elettorale. Quando a capo dell’Ufficio Decoro venne nominato Mirko Giannotta, segretario storico del Movimento Sociale di Acca Larentia e responsabile della tentata rapina nel maggio 2006 da Bulgari in via Condotti, e distrusse tutti gli archivi del materiale di pubblica sicurezza da me raccolto, decisi di lasciare Palazzo Senatorio e mi spostai in una stanza a piazza San Marco“. (1feb. 2017)
Canan Coskun ha negli occhi il timore di un inglese stentato, non vorrebbe stare a Perugia oggi. È la prima volta che fa un’esperienza del genere: parlare di giornalismo fuori dalla sua Turchia. I riflettori sono tutti per lei e per un attimo si potrebbe anche invidiarla, ma va subito al cuore del problema: ha solo 29 anni e rischia di passare i prossimi 23 in prigione. Ma questa non è la storia di Canon, questa è la storia della morte annunciata del giornalismo turco.
Il 19 febbraio 2015 Canon ha scritto un articolo dal titolo “Controversa vendita di abitazioni in magistratura”, che indagava l’acquisto da parte di alcune figure di spicco della politica turca di appartamenti di una società immobiliare pubblica a prezzi stracciati. Per aver precisato i nomi nell’articolo è stata accusata di “insulti a pubblici ufficiali”. La sua storia dovrebbe essere un’anomalia, è invece la normalità dell’informazione turca. È lei stessa a confermarlo alla platea. Poco più di un mese fa del resto fece scandalo la vicenda dello Zaman, principale giornale turco di opposizione: nel giro di due giorni la polizia turca fece irruzione nella sede del giornale, che venne commissariato il giorno successivo e tornò in edicola dopo due giorni con una linea editoriale filogovernativa. Un’azione perfettamente organizzata e nemmeno un episodio singolo, ma solo quello che ha avuto più risonanza mediatica.
Secondo il Mapping Media Freedom sono 212 i casi di violenza ai danni di giornalisti in Turchia dal 2014 ad oggi. Kadri Grusel è uno di questi: la mattina del 22 luglio 2015 scriveva il tweet “È vergognoso che leader esteri chiamano e consolano la persona che è il principale responsabile del terrore dell’ISIS”. La sera dello stesso giorno veniva licenziato dal suo giornale, il Milliyet. La repressione alla libertà di stampa non è qualcosa di astratto: si basa su numeri degli arresti, dei morti e sulle condizioni con le quali i giornalisti sono costretti a lavorare. Ma sopratutto la repressione ha una causa. Secondo il giornalista di Al JazeeraPeter Greste è una conseguenza che va rintracciata nell’11 settembre 2001 e nella successiva guerra al terrore che Washington ha dichiarato al mondo. In buona sostanza, se prima di allora i giornalisti erano considerati osservatori neutrali degli eventi, sarà George W. Bush ad inaugurare la politica manichea del “sei con noi o contro di noi?”.
Una domanda dalla quale non si torna indietro e alla quale nemmeno i giornalisti hanno potuto astenersi, diventando conseguentemente “soldati di terra involontari” e quindi target. Dopo l’11/9 i giornalisti hanno iniziato a morire non per quello che scrivevano o raccontavano, ma per quello che rappresentavano. E se la guerra al terrorismo non è una guerra tradizionale, perché il terrorismo è qualcosa di astratto, è un’idea, la guerra al terrorismo è una guerra di idee. Le idee costituiscono però il campo dei media ed basta ridefinire la parola terrorismo includendo qualsiasi forma di opposizione per occupare quello spazio che poco tempo fa chiamavamo libertà di stampa.
La Turchia oggi è la Washington di quindici anni fa. Il presidente Recep Tayyip Erdoğan non può far altro che ringraziare l’epifania dell’Isis che ha permesso, anche a lui, di dichiarare una guerra astratta che di concreto ha solamente l’elevato numero di giornalisti che ne sono rimati vittime. La situazione del giornalismo in Turchia non è stata mai facile, ma se prima si poteva parlare di un’indipendenza dei media dalla politica oggi le proprietà dei giornali sono direttamente collegate al potere. 7 titoli di giornale e 16 titoli di editoriale identici lo stesso giorno ne sono la prova più eclatante. “Non ci uccidono apparentemente, ma ci condannano alla fame e ad essere esclusi per sempre dai circuiti mediatici” afferma con rabbia Kadri Grusel “per questo non saremo mai grati ad Erdoğan per non uccidere giornalisti”.
Piazza IV Novembre, Perugia. Mentre siamo in fila per seguire un panel alla decima edizione del Festival internazionale del giornalismo il diabolico algoritmo di Facebook ci ricorda che proprio qui tre anni fa lanciavamo la nuova edizione digitale di questo sito. Significa che per l’ennesimo anno – e abbiamo sinceramente perso il conto – una nutrita masnada di autori di questo esperimento digitale ha partecipato con passione e sacrificio a quello che per noi resta soprattutto un immancabile appuntamento di confronto e di formazione permanente al new journalism.
La coincidenza ci ha convinto di avere null’altro dei titoli affettivi per rispondere all’appello della mamma del Festival Arianna Ciccone che, salutando la prossima edizione (dal 5 al 9 aprile 2017), ha postato così:
“Proseguiamo il nostro percorso cercando di fare sempre un po’ meglio dell’anno precedente. A questo proposito, rivolgo il mio ultimo ringraziamento a chi ci dà consigli, suggerimenti, idee per migliorare ancora. Vuol dire che volete bene al Festival, questo è bellissimo e mi emoziona profondamente”.
In fila per entrare alla Sala dei Notari
Diamo prima un po’ di numeri ufficiali: 55-65mila il numero di presenze stimate. 259 gli eventi, tutti a ingresso libero, dei quali 85 in traduzione simultanea – tra incontri-dibattito, talk, interviste, serate teatrali, premiazioni, presentazioni di libri, case history, startup, nuove realtà e tendenze editoriali – in 17 luoghi del centro storico di Perugia. 549 i relatori provenienti da 34 paesi diversi, più di 2000 i giornalisti accreditati, oltre 170mila le visite al sito internet (il sito in inglese ha registrato un incremento del 20%). 35mila gli accessi per i video del canale youtube; 7mila ore di visualizzazione dal vivo e on demand. 12mila le visualizzazioni in diretta streaming e 23mila visualizzazioni globali on demand. L’hashtag #ijf16 ha prodotto circa 50mila tweet dal 6 al 10 aprile, provenienti da circa 10mila utenti diversi (e da 4 continenti). Picco di tweet raggiunto: 1.724 tweet in un ora alle ore 12.00 di sabato 9 aprile. L’hashtag #ijf16 è entrato tra i trending topics per tutti 5 i giorni in Italia, Svizzera, Germania e Stati Uniti.
Si può provare a migliorare una roba del genere? Perché no, noi abbiamo tre semplici idee da proporre pensando alla marea di free lance e aspiranti giornalisti che frequentano il festival alla ricerca di una possibilità per proporre i propri lavori.
Consiglio 1: microeventi di networking dal basso
Sarebbe bello poter partecipare l’anno prossimo ad un network meeting in cui si può liberamente presentare la propria idea ai grandi del giornalismo internazionale, magari alla ricerca di una rete di contatti o di un finanziamento per la propria inchiesta. Nulla di complicato: un’ora di tempo per presentare – alla platea con una presentazione di cinque minuti (nello stile dei live pitch dedicati alle start up) o all’ospite in modalità one to one – la propria idea o il proprio lavoro. Pensando ad un appuntamento tematico giornaliero a cui potersi iscrivere preventivamente, si potrebbe arrivare a dare questa possibilità in modo trasparente e libero a 20 progetti dal basso al giorno. Le grandi aziende lo fanno da anni (famosi i networking coffee con Tim Cook della Apple), nel giornalismo sarebbe qualcosa di inedito o quasi.
Consiglio 2: dibattito all’americana fra idee
Molto interessante sarebbe vedere, magari con il coinvolgimento degli studenti delle scuole di giornalismo da tutto il mondo, l’effetto sugli spesso soporiferi talk all’italiana delle regole del dibattito all’americana. Non sempre persone sedute sulle poltroncine a discutere di loro stessi, cioè, ma un vero e proprio scontro di idee con un voncitore simbolico, come avviene nei famosi campionati di dibattito delle università anglosassoni, una pratica consolidata al punto che le finali nazionali sono seguite da milioni di spettatori, fanno parte della letteratura del “Debate” e hanno fatto del dibattito una vera arte a livello internazionale.
Consiglio 3: question time per il lettorato
Le persone amano poter fare qualche domanda alle persone che vedono ogni giorno alla tv. e a noi piacerebbe anche poter vedere qualche appuntamento che dedica più tempo al lettorato e meno agli addetti ai lavori. Un question time di un’ora dedicato alle domande a raffica della sala per gli ospiti, momento che viene quasi sempre riservato agli ultimi 10 minuti dell’incontro e troppo spesso viene by-passato per motivi di contingenza. Microfono aperto a una serie di domande secche (attenzione al pippone: vietati i mini comizi del pubblico) che arrivano dalla platea e dalla Rete.
Critica: più “power of now” per tutti
Mentre la novità del on demand è stata accolta con grande soddisfazione, in molti fanno ancora difficoltà a trovare la diretta streaming (di qualità eccelsa, per cronaca) che attualmente è organizzata per sale (Sala dei Notari, del Dottorato, etc.) sul canale youtube del festival. Potenziare il redirect attraverso le dirette social o con delle stanze live più efficaci magari ospitate in evidenza sul sito del festival può rendere tutto più friendly per chi non può esserci ma vuole esserci lo stesso.
Nb. Nelle prossime ore condivideremo i servizi e le interviste che abbiamo realizzato al Festival, per ora è importante sottolineare che nessun capotreno è stato maltrattato per la produzione e la stesura di questi quattro consigli.
Gli ultimi 365 giorni degli anni ottanta sono stati particolarmente densi, in questo lasso di tempo The Cure pubblicarono Disintegration ed i Nirvana uscirono con il loro primo lavoro in studio: Bleach; la Prima Repubblica italiana registrò l’avvicendamento tra Francesco Santo e Giuseppe Carratelli alla carica di Sindaco di Cosenza e quello tra Ciriaco De Mita e Giulio Andreotti, in rappresentanza del Pentapartito, sulla poltrona di Primo Ministro del Belpaese. Nell’aprile del 1989 andò in onda su Rai Tre la prima puntata di Blob, in giugno un uomo armato di buste di plastica piene di chissà cosa bloccò dei carrarmati in Piazza Tienammen e nel mese di novembre le rovine del Muro di Berlino cominciarono a seppellire il mondo dove le nostre madri ed i nostri padri avevano imparato ad odiare e ad amare.
La “5” di Ugo Napolitano contrasta un fuoriclasse sovietico
Per la nostra generazione il 1989 è riassunto dall’immagine del televisore di casa sintonizzato su un telegiornale che trasmette le immagini del collasso del regime di Ceausescu in Romania. Se ci si concentra si riesce ancora a sentire il tono indignato delle signore ad esclamare: “D’oro c’avevano i rubinetti del bagno stì bastardi, d’oro!’. Nel giorno di San Valentino si disputò un’amichevole tra il Cosenza Calcio e la selezione pluri-nazionale dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche. Sebbene il glacis comunista dell’Europa dell’Est fosse prossimo alla dissoluzione, la squadra di calcio che faceva riferimento al Cremlino godeva di ottima salute. Pochi mesi prima, nell’estate dell’ottantotto, la squadra del Colonnello Lobanovsky aveva raggiunto la finale dell’Europeo, per essere poi battuta dall’Olanda di Marco Van Basten, alcuni dei suoi giocatori stavano ottenendo un discreto successo sui campi dell’Europa occidentale e la prospettiva di un buon piazzamento al mondiale italiano del millenovecentonovanta spinse i dirigenti sovietici ad organizzare un tour invernale in Italia.
Il Cosenza di Mister Bruno Giorgi, dal canto suo, stava disputando un campionato al di sopra delle aspettative; i Lupi, neopromossi, stazionavano nelle posizioni nobili della classifica anche se proprio due giorni prima dell’amichevole, il dodici di Febbraio, avevano patito una sconfitta che a fine campionato avrebbe loro negato una clamorosa promozione in serie A: 3 a 1 allo stadio Zini di Cremona.
Le settemila persone che in quel mite quattordici di Febbraio accorsero al San Vito assistettero alla gara tra gli atleti locali, privi di giocatori del calibro di Venturin, Marino, Bergamini e Padovano ed i sovietici, che lamentavano invece le assenze di Zavarov e Dobrovolsky, in un clima di spensieratezza.
La prima sgambatura dei sovietici sul suolo cosentino
I silani, spinti dalle folate di Urban, dalle magie di Lucchetti e sostenuti dalla prestanza di Castagnini si cimentarono nello sforzo di limitare la classe di gente come Protassov, Belanov (Pallone d’Oro nell’ottantasei) e Mikhailichenko. L’impegno del Cosenza non fu, tuttavia, sufficiente ad impedire ai vicecampioni d’Europa di espugnare il San Vito per due a zero. La formazione guidata da Lobanovsky, composta nella sua grande maggioranza da giocatori ucraini, si schierò con un sorprendente libero (Aleinikov) a dirigere le operazioni del pacchetto arretrato. La stella dell’incontro fu Mikhailichenko, che l’anno dopo avrebbe firmato per la Sampdoria. La sua classe, la sua chioma platinata e il fatto di aver realizzato il primo gol dell’incontro lo aiutarono ad essere ricordato come il matador dei Lupi insieme a Protassov, che mise la firma sul definitivo due a zero. Mentre sul versante casalingo fu Urban ad ascendere agli onori della cronaca, soprattutto per la sfortunata conclusione che centrò il palo della porta difesa da Chanov sul finire del primo tempo.
Sicuramente i dirigenti accompagnatori dell’URSS avranno segnalato a Mosca il comportamento eretico ed anarchico dei tifosi dei Lupi, cosa che non sarà sfuggita all’occhio cinico ma sornione del Colonnello Lobanovsky che, secondo la Gazzetta del Sud, «era un deciso sostenitore della politica del disgelo proposta dal suo amico Gorbaciov».
Cosenza-URSS fu, ad ogni modo, l’inizio della seconda vita di Sergei Aleinikov; il giocatore bielorusso, difatti, dopo aver sfiorato il tetto d’Europa con la sua nazionale nell’ottantotto, dopo aver vinto la Coppa UEFA con la Juventus l’anno successivo e aver galleggiato tra serie A e B con il Lecce ad inizio degli anni novanta decise di smettere di pensare alla sua carriera in termini di profitto per cominciare ad ascoltare il proprio cuore. Tale processo terminò quando, nella stagione ’97-’98, chiuse la propria traiettoria agonistica sulle sponde dello Ionio cosentino giocando per il Corigliano-Schiavonea.
«La mia squadra si è espressa bene, ma non posso dare giudizi sui nostri avversari tenuto conto che era la prima volta che li vedevo all’opera». La voce stanca e incerta del traduttore rimediato alla bisogna si levava nella vecchia sala stampa dello stadio San Vito al termine di quella che il colonnello Valerj, con il solito riconosciuto garbo sovietico, definiva «esperienza necessaria che ci ha permesso di incentivare il contatto con un’interessantissima realtà calcistica come quella italiana».
Così la gara amichevole tra Cosenza e Unione Sovietica – che è cosa assai strana anche solo a sentirsi – era andata in archivio, almeno sul campo. In sala stampa Lobanovsky si dimostrò cortese pur non concedendosi più di tanto. Dribblando di netto i capziosi quesiti dei cronisti cosentini sulla crisi di Zavarov e le alterne sfortune di Dobrovolsky, si congedava lasciando rapidamente il campo al collega BrunoGiorgi e al buon Roberto Ranzani, il primo scomparso nel 2010 mentre il secondo, direttore sportivo e grande scopritore di talenti, pochi giorni fa a seguito di una brutta malattia. A preoccupare i tecnici rosso-blu non erano però il risultato o il gioco espresso, ma le condizioni del portierone Gigi Simoni, costretto ad abbandonare il rettangolo di gioco all’inizio della ripresa (sostituito dal dodici Fantini) per un forte dolore alla mano destra dopo un normale scontro di gioco con Mikhailichenko.
In attesa di accertamenti, il primo bollettino medico parlava di possibile frattura del quarto e quinto metacarpo della mano destra, in soldoni quaranta giorni di stop, diagnosi poi ampiamente confermata. Simoni in quella partita aveva dato il massimo parando di tutto e conquistandosi i complimenti del collega Chanov che difendeva i pali sovietici al posto del titolare Dassaev, rimasto in patria per infortunio. Ed è proprio il buon Gigi Simoni – che con i supporters cosentini conserva ancora oggi un rapporto speciale dovuto anche al suo impegno in seno all’Associazione “Verità per Denis” Bergamini – a svelare ben ventisette anni dopo in esclusiva per Mmasciata.it il segreto legato all’origine del proprio infortunio:
«Ora a distanza di anni posso svelare il mistero della frattura. Non mi ruppi il 4° e 5° metacarpo in uno scontro di gioco con Mikhailichenko ma in un diverbio nell’intervallo con il mio amico Urban. Mi fece “incazzare” di brutto e allora io per non colpire Alberto scagliai un potentissimo destro sul mio armadietto, piegai la parete ma dopo qualche minuto mi si gonfiò la mano e dovetti uscire dal campo. Furono Giorgi e Ranzani (grandissimi!) a inventare la storia dello scontro con il fuoriclasse sovietico per non alimentare voci di dissidi all’interno dello spogliatoio che effettivamente non c’erano».
Da perfetti Apparatĉik – termine russo sovente utilizzato per identificare un burocrate “apparato” di partito o governativo – Giorgi e Ranzani imposero e riuscirono a conservare quel segreto quasi di Stato schivando a priori i possibili affondi dei volponi della carta stampata e impartendo ai sovietici una sonora lezione di “guerra fredda”. Lo fecero per preservare l’integrità dello spogliatoio, bene supremo da tutelare. Quel giorno, almeno fuori dal campo, furono loro a pareggiare, se non addirittura vincere.
Per approfondire:
Archivio Storico di Gazzetta del Sud, articoli di Paolo Toscano nelle edizioni del 15 e 16 febbraio 1989.
Fango e filo spinato, puzza di fogna e migliaia di tende, la disperazione e il sorriso dei bambini.
È difficile raccontare quello che sta succedendo a Idomeni, al confine tra Grecia e Macedonia: un avamposto di disumanità nel cuore dell’Europa, in quella penisola ellenica dove sono nati i principi della nostra civiltà.
Da Milano in volo fino a Salonicco. Un’ora di autobus e siamo a Policastro, il paesino più vicino al confine. Chiediamo informazioni e incontriamo immediatamente un gruppo di avvocati indipendenti, seduti al tavolino di un bar anonimo sulla polverosa strada principale. Sono disposti a darci uno strappo al campo, ma solo dopo esser passati dal locale comando della polizia per controllare le condizioni di alcuni minori che sono stati fermati e trattenuti. Entrano in due, mentre noi rimaniamo fuori a chiacchierare con gli altri. Il loro aspetto è lontanissimo dallo stereotipo dell’avvocato in giacca e cravatta. Felpa, pantaloni sporchi e scarpe infangate, il loro lavoro in Grecia è fondamentale: hanno allestito un information point nel mezzo del campo, nel quale offrono assistenza per le richieste d’asilo e i ricongiungimenti.
«I migranti – ci istruisce un anziano avvocato proveniente dall’Alaska – devono sapere che già in Grecia possono richiedere asilo, ma quasi nessuno è disposto a fermarsi, sono diretti verso la Germania e il Nord Europa».
Con loro raggiungiamo il confine. Lungo la strada provinciale, per oltre cinque chilometri, ci sono micro-accampamenti ovunque. Idomeni è poco più che una stazione ferroviaria. Un check point in aperta campagna. Campi incolti su cui corrono i binari che da oltre quaranta giorni sono occupati da centinaia di tende. Gli stessi binari – ci racconta una volontaria che ha lasciato i suoi bambini a Berlino per venire a dare una mano per qualche giorno – che i convogli carichi di ebrei percorrevano in direzione dei campi di concentramento. Il cancello è chiuso e nessuno può passare. Il confine è presidiato da decine di poliziotti e militari in assetto anti-sommossa pronti a reprimere qualsiasi tentativo di sfondamento. La disperazione è palese e quotidianamente centinaia di persone si riuniscono davanti a quella barriera che li separa dalla Macedonia come a voler sfidare la polizia.
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«Siamo bloccati da giorni – dice Hussain al microfono, mentre sui binari si improvvisa un’assemblea – non possiamo tornare indietro verso la Turchia, né tanto meno in Siria, ma non possiamo neppure continuare a vivere in questa situazione».
È troppo importante varcare quella soglia e continuare il proprio viaggio lungo la rotta balcanica.
A Idomeni sono circa dodicimila in fuga dalla guerra, provengono principalmente da Siria e Afghanistan e sognano una vita migliore e un futuro sereno in Europa. Più della metà sono minori. Bambini con le loro famiglie, ma anche tantissimi adolescenti in viaggio da soli. Dormono in migliaia di tende da campeggio disposte lungo i binari o nei campi e intervallate da piccoli spiazzi per il fuoco. Si brucia di tutto: legna, vestiti, plastica. Qualsiasi cosa può servire a scaldarsi, soprattutto nell’umidità della notte. L’aria è quasi irrespirabile, ma dopo poco ci si abitua. Inutile dire che le condizioni sanitarie sono del tutto preoccupanti: influenza, diarrea, ma anche infezioni, dermatiti e qualche caso di scabbia. Uno scenario preoccupante che, solo pochi giorni fa, ha portato le grandi organizzazioni umanitarie a minacciare di lasciare il campo a causa della mancanza dei requisiti necessari a garantire la dignità delle persone e i diritti umani.
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«Una situazione che – come ci riferisce uno dei tanti operatori di “Medici senza frontiere” – con l’arrivo del caldo sarà destinata ad aggravarsi».
Lungo le reti della ferrovia si susseguono i vestiti stesi ad asciugare, i fili sospesi corrono da una tenda all’altra. Dai volti delle madri trapela preoccupazione, mentre provano a riconquistare un po’ di normalità facendo i lavori domestici. Per i bambini, invece, è tutto un enorme parco giochi. Acqua stagnante nella quale sguazzare, enormi distese in cui far rotolare i palloni, fogli bianchi e colori. I volti sorridenti nascondono i problemi, i vestiti sporchi e la fame. I tempi nel campo sono scanditi dalle file. Le file per il cibo e per i vestiti, quelle per ricaricare il cellulare o per le medicine. Incolonnati, in maniera ordinata, si aspetta per ore.
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Una situazione drammatica che riflette il fallimento della gestione politica dei flussi migratori da parte dell’Unione Europea. Di un’Europa che risponde con il filo spinato e la polizia al bisogno di sopravvivenza di migliaia di persone e che ha scelto di pagare la Turchia affinché arresti con qualsiasi mezzo a disposizione l’arrivo di nuovi migranti. Eppure a Idomeni c’è anche un’altra faccia dell’Europa. Quella dei tantissimi progetti autorganizzati, dei migliaia di volontari che in maniera del tutto autonoma hanno lasciato la quotidianità delle loro confortevoli vite per portare un aiuto. Quella dei ragazzi tedeschi che distribuiscono banane, dei volontari inglesi che organizzano giochi per bambini, dei ragazzi italiani di “Over the fortress” che hanno montato uno spazio che fornisce internet e elettricità, del progetto “Luck of birth” che ha allestito una cucina che prepara quattro mila pasti caldi al giorno.
Un’Europa che ha ancora delle speranze, perché a Idomeni non sono le tende dei migranti a sprofondare nel fango ma l’idea stessa di un continente che è ormai incapace di accogliere, trincerato a difesa dei suoi confini mentali ancor prima di quelli geografici.
Una foto inquietante scattata nel manicomio infantile di Aguscello
Bastano otto giorni di trincea a demolire un uomo. P. N. è un ragioniere cosentino dalla vita umile e ritirata. Reclutato in gran fretta a pochi mesi dalla fine del militare si trova catapultato fra i cunicoli della Prima guerra mondiale. Ha appena 18 anni. Tra gli sbandati della dodicesima battaglia dell’Isonzo, meglio nota come “Caporetto”, P. N. torna che non è più lo stesso. Gli mancano suoni e colori, mentre nella sua mente medici e frenologi dei vari ospedali militari e psichiatrici nei quali è depositato scorgono in lui inequivocabili i segni dell’alienazione mentale. Dopo cinque anni dietro sbarre gli si profila la possibilità di accedere grazie all’articolo 66 del regio decreto del 1909 alla “dimissione in esperimento“. Un familiare è disposto ad accollarsi cioè il peso della sua pazzia ma, dopo nemmeno un anno, il ritiro della firma lo conduce immediatamente nell’ospedale psichiatrico “Casa della divina provvidenza” di Bisceglie da dove uscirà cadavere nel 1941 per enterocolite e paralisi cardiaca.
Quando N. A. entra per la prima volta in manicomio nel 1930, a 46 anni, è praticamente un cadavere che cammina. Il primo contatto con lo spazio manicomiale del “Leonardo Bianchi” di Napoli al quale è stato coattamente affidato dal prefetto di Cosenza ha il volto impassibile di sanitari e medici frenologi col ruolo di derubricare la complessità della sua persona umana con un semplice quanto complesso “episodio delirante in deficiente imbecille”. Termini che oggi hanno il suono di un’offesa, la stessa inferta qualche anno prima alle sue fragili membra dalla terribile pandemia di febbre spagnola che solo in Italia tra il 1918 e il 1919 uccide circa 600 mila persone. Da quel momento è un lungo susseguirsi di malattie ed incidenti che lo portano a spegnersi per marasma generale in frenastenico nell’estate del 1944.
Bruno Caruso, Manicomio, Edizioni della Colonna Infame, Roma 1969.
«Ritornerò come nuova» aveva promesso al marito e ai suoi 4 figli G. L., donna trentaduenne casalinga della provincia di Cosenza, prima di varcare i cancelli dell’ospedale psichiatrico “Santa Maria della Pietà” di Roma nel 1896. Urla, strepiti e comportamenti insoliti avevano portato il questore a firmare il suo internamento coatto. In tutti i modi G. L. cerca di spiegare che dopo quella rosolia non era più la stessa: dopo un primo periodo di osservazione nel quale viene curata come epilettica le vengono diagnosticate una paranoia allucinatoria cronica e una cerebrale persecutoria. Rimane lì per 9 lunghi anni. Trasferita nel manicomio di Ceccano, di lei si perdono definitivamente le tracce.
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Sono solo stralci di vite ricavate da cartelle cliniche provenienti di ex manicomi italianiche descrivono movimenti lenti praticati da fisici imbelli, piegati e piagati più dalla cura che dalla malattia. E poi numeri, patologie, devianze, abuso di farmaci e terapie d’urto ma anche di potere. Rari casi di miglioramento, morte nei “bracci”, trasferimenti forzati, famiglie divise dagli “scherzi della mente”. Carte scomode da slegare, analizzare e utilizzare come valido esercizio di memoria. Memoria individuale e famigliare che diventa collettiva grazie alle cartelle cliniche di 82 “matti” tutti nati in provincia di Cosenza, facenti parte del progetto (qui) “Carte da legare. Archivi della psichiatria italiana” della Direzione generale degli archivi facente capo al Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo. Le infografiche che vi proponiamo in esclusiva ridisegnano magari solo contorni e generalità di tutta quella “folle folla” di cosentini che dall’Unità d’Italia al secondo dopoguerra, popolavano i bracci di 9 strutture manicomiali. Erano soprattutto uomini (71) tra i 18 e i 33 anni, soldati o contadini, con grado d’istruzione elementare o analfabeti, internati coattamente per ordine della forza pubblica a causa di alienazioni mentali e forme depressive sulle quali solo in 14 casi viene attestato un reale miglioramento. Ma sono le malattie pregresse oppure contratte nelle strutture ospitanti le vere padrone della detenzione: perché in manicomio si entrava anche per quegli “strascichi” che febbre spagnola o malarica, tifo, broncopolmonite e sifilide lasciavano su menti e corpi segnati dalla miseria, ma addirittura per un semplice, occasionale o reiterato abuso di vino.
Oggi grazie al lavoro degli archivisti che dal 1999 si sono proposti di recuperare tutto «questo patrimonio sostanzialmente trascurato e che in molti luoghi correva un serio rischio di dispersione, quando non di distruzione», quelle che per anni sono state considerate “carte disonorevoli” diventano a tutti gli effetti beni culturali di un popolo costantemente alla ricerca delle proprie scomode e disonorevoli radici.
«Diversi sono gli aspetti meritevoli di ulteriore approfondimento che non consentono un pacificante accoglimento della richiesta di archiviazione».
Con queste motivazioni il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Castrovillari, Letizia Benigno, ha rigettato la richiesta del Pm, disponendo la riapertura delle indagini per chiarire i dubbi che aleggiano intorno alla morte di Vincenzo Sapia (rileggi la sua storia). Dubbi numerosi, che – sempre secondo il Gip – devono essere «fugati con risposte esaustive e convincenti» nell’arco di sessanta giorni. Nello specifico, il Gip ha chiesto che si faccia chiarezza sui tempi di intervento dei militari che la mattina del 24 maggio 2014 parteciparono a Mirto Crosi, nel Cosentino, a all’operazione di contenimento di Vincenzo Sapia. Di certo c’è solo il tempo intercorso tra la chiamata alla caserma dei carabinieri e quella al 118, circa quaranta minuti, ma non si conosce con precisione quanto sia durato effettivamente l’intervento delle forze dell’ordine. Le versioni finora emerse sono contrastanti e svariano dalla “manciata di secondi” – come sostengono le difese dei carabinieri – al “brevissimo lasso di tempo” del Pm. «Concetti labili», secondo quanto scrive il Gip, che creano «un’incertezza sulla tempistica che nuoce alla comprensione delle eventuali corresponsabilità penali dei militari».
Vincenzo Sapia, 28 anni nel 2014, sui social gli amici lo ricordano con l’hashtag #veritàpervincenzo
Il giudice ritiene necessario capire con precisione, non solo la durata dell’intervento, ma anche e soprattutto «la durata di ogni singola azione di contenimento (strette al collo e immobilizzazione in posizione prona o supina)». Le incertezze evidenziate dal giudice, però, riguardano anche gli aspetti medicolegali. Le conclusioni del consulente medico del Pm, il dott. Caruso, che escludono completamente l’asfissia, parlando di «arresto cardiaco improvviso da alterazioni elettriche in un soggetto con situazioni patologiche pregresse», non convincono. Ci sono una serie di indizi «non trascurabili» che potrebbero ricondurre la morte ad un caso di asfissia. La cianosi al volto, il colorito bluastro delle ipostasi, la schiuma ritrovata nella cavità orale, l’esistenza di flebili battiti cardiaci riscontrati dal primo medico intervenuto a soccorrere Sapia, sono elementi che meritano di essere chiariti attraverso ulteriori accertamenti.
Le conclusioni del gip Benigno (dal profilo Facebook di Caterina Sapia)
L’ultimo punto, «il più importante aspetto insufficientemente esplorato» – secondo il Gip Benigno – riguarda l’azione delle forze dell’ordine in base al protocollo operativo che descrive le modalità intervento con persone in evidente stato di alterazione psicofisica, proprio la condizione in cui evidentemente si trovava il giovane Sapia. Le regole cautelative descritte dal protocollo, che indicano la necessità di far intervenire immediatamente i sanitari e di evitare immobilizzazioni in terra o in posizione prona evitando qualsiasi compressione toracica, «vennero violate», perché – come scrive il Gip – Vincenzo Sapia venne «avvinghiato e stretto al collo, tirato per i capelli, immobilizzato a terra sia prono che supino, bloccato dalle spalle e dal torace e gli venne posto un piede sulla testa e sulla schiena». Ancora non si può escludere, dunque, che il comportamento dei carabinieri abbia causato una morte cardiaca. Solo chiarendo tutti questi dubbi il Gip potrà decidere se archiviare o rinviare a giudizio e quindi a processo i militari. Intanto, i parenti della vittima esprimono con cautela la loro felicità. «Oggi abbiamo avuto una splendida notizia – ha dichiarato Caterina Sapia, sorella di Vincenzo – perché la morte di mio fratello merita un’indagine giusta e precisa e anche se la strada è ancora lunga siamo determinati ad andare fino in fondo». Soddisfazione condivisa anche dagli avvocati della famiglia Sapia, Fabio Anselmo e Alessandra Pisa, che hanno visto accolti tutti i motivi di opposizione alla richiesta di archiviazione.
Preambolo dell’intervista a Calcutta. RDO, sigla che indica il progetto Ragazzi di oggi, è uno spaccato sulla vita quotidiana tra giovani che vivono la città, pensano al loro futuro e si raccontano con trasparenza e innocenza alternando alle aspettative della vita universitaria gli interessi musicali e il tempo libero. Una prima parte del concept culturale a base di musica e racconto video ideato da Robert Eno, Marcello Farno e Alessandro Ricci è già stata realizzata con il concerto di IOSONOUNCANE e la proiezione del documentario con protagonisti i ragazzi del Liceo Classico Bernardino Telesio. Sabato 26 marzo all’Auditorium Guarasci tocca invece ai ragazzi del Liceo scientifico Enrico Fermi e l’ospite della serata sarà Calcutta . Il ventiseienne cantautore di Latina che sta riscuotendo successo a seguito della pubblicazione del suo ultimo disco Mainstream, storie di vita quotidiana di ventenni come quelli che rispondono (per vedere come scrollate in fondo all’intervista) alle domande del giornalista Eugenio Furia.
Edoardo D’Erme ha 26 anni, in arte è Calcutta (foto – recensione da fuoriposto.com)
L’intervista. Qualche giorno fa chiacchieravo con degli amici e c’era un tuo manifesto vicino, ho detto che forse ti avrei intervistato e mi hanno detto: “Ah sì? Chi è??”
Calcutta, ti rigiro la domanda.
Ma dai, sono un ragazzo di ventisei anni che scrive le canzoni e poi le canta.
Ma rispetto al primo Calcutta sei cambiato molto, cosa è successo?
Semplicemente è successo. Tutto è partito dalla scrittura delle canzoni, mi sono trovato a scrivere delle canzoni un po’ più radiofoniche. Non è stata una cosa scelta e pensata di proposito, anche perché poi le canzoni mica sono così radiofoniche, mi interessava provare un nuovo linguaggio, nella vita non sono uno che ragiona molto sulle cose che faccio, seguo l’istinto e questo è il prodotto che è uscito.
Mi è capitato di leggere un articolo (leggi qui) che ti riguardava, in cui si parlava di disagio. Ma poi cosa significa disagio? Soprattutto il disagio a questo punto è generazionale?
Ma no dai, ma alla fine sono cose che non vogliono dire niente. Una stronzata messa in bocca dalla gente, hanno tutti bisogno di dire parole. Da quanto c’è Internet non si sa più cosa sia il giornalismo, non si riesce più a capire quando si faccia informazione e quando invece si vada a caccia di condivisioni. Mi metto anche nei panni di chi fa questo lavoro, non è facile però questa cosa del disagio mi manda proprio in bestia.
Ma davvero la libertà è non lavare i piatti con lo Svelto?
Beh dai, il disco è tutta una frecciatina. Poi comunque leggo alcuni articoli che mi riguardano e vedo scritte come “musica generazionale”, in realtà io parlo dei fatti miei, anche in maniera molto confidenziale e con un registro del tutto mio e intimo. Penso che solo le persone a cui sto parlando riescano a capire con precisione ed esattamente quello che sto a dire. Il fatto che chi mi ascolti si possa ritrovare o meno in quello che sto dicendo e che poi da comunque adito al fatto della musica generazionale alla fine mi importa poco, quello che canto sono cose mie, sono le piccole esperienze e storie della mia vita che io mi annoto e racconto. A volte scrivere le canzoni è solo un modo per dire qualcosa a qualcuno, per parlare.
Del tuo ultimo disco “Gaetano” (quivideo live) è il pezzo che sta avendo maggior successo, dentro canti di svastiche in centro a Bologna, di You Porn e altro. Che ti stava succedendo quando hai scritto la canzone?
Era un momento in cui mi stavo guardando intorno e mi sono reso conto che qualsiasi cosa che succedeva, qualsiasi notizia che leggevo riguardava i rom, le proteste di Salvini. Avvertivo questa differenza di gap etnico tra noi e chi ci sta vicino, c’erano degli omicidi, i casini nelle comunità. La mia ragazza era impegnata nel sociale, ho fatto un po’ di addizioni tra quelle che erano le mie sofferenze personali e quelle che erano le inquietudini che vivono le persone che si trovano a vivere in un modo che non sempre li accetta. Poi è uscito il testo, è un po’ il “vaffanculo” generale alla mia ragazza e alla sua educazione.
Ma anche tu stai diventando Mainstream?
Non so se sto diventando mainstream. Stanno succedendo e continuano a succedere un sacco di cose intorno a questo disco, molte delle quali mi bastano e mi indicano che ho fatto un buon lavoro. Però sono successe tutte a una tale velocità che non ci ho capito niente. Ero seduto in casa a scrivere i pezzi, poi mi sono ritrovato nello studio, poi è uscito il disco, il tutto a una velocità assurda. Non riesco a capire bene cosa faccio, adesso che sto avendo la febbre ho capito che mi devo fermare un attimo, rallentare e capire cosa sta succedendo.
Hai un tono di voce malinconico, sembra quasi che canti con timidezza, come vivi il concerto?
Non sono in grado di rispondere. Molti mi dicono che sono meglio dal vivo che sul disco ma secondo me non è vero, penso che la malinconia si percepisca anche dal vivo.
(Immagini di Marco Mastandrea, montaggio di Giacomo Pellini)
“Decide Roma, decide la città”. Dietro lo striscione 20mila persone partite da Piazza Vittorio per arrivare a Piazza Madonna di Loreto, a due passi da piazza Venezia militarizzata e a tre dal Campidoglio. A Piazza Vittorio il 19 marzo è stato il sabato dei centri sociali, movimenti, precari e sindacati di base. Ad esporre lo striscione di testa della manifestazione anche alcuni bambini che frequentano la palestra popolare “La Torre”.
Un popolo rumoroso e composito, che ha marciato contro «le privatizzazioni, la svendita del patrimonio pubblico, il taglio ai servizi sociali, gli sfratti e gli sgomberi» e soprattutto contro il Documento unico di programmazione (Dup) firmato dal commissario straordinario di Roma Capitale, Francesco Paolo Tronca.
«Venderesti tua madre?», «venderesti tuo fratello?», «venderesti tua nonna?» si legge sui cartelli dei manifestanti. Il corteo è stato costellato da colori dei fumogeni, striscioni di centri sociali e movimenti per la casa, bandiere di Usb e Cobas, scortato da blindati e agenti delle forze dell’ordine mentre un elicottero sorvolava l’area. Il corteo ha attraversato il centro di Roma come non accadeva da tempo. I manifestanti, partiti da piazza Vittorio, sono sfilati senza incidenti su via Merulana, via Cavour per arrivare fino a piazza Madonna di Loreto. Qui alcuni hanno deciso di salire in Campidoglio, passando per la scalinata che costeggia il Museo del Vittoriano. Gli altri partecipanti hanno invece deciso di proseguire in direzione San Giovanni . Il nuovo corteo è giunto ai piedi del Colosseo dopo avere percorso via dei Fori imperiali, dove è presente un blocco delle forze dell’ordine con agenti in tenuta anti sommossa.
È un Gramsci terrone quello che racconta il regista Emiliano Barbucci nel suo “Gramsci 44”. Il docufilm, lanciato in queste pagine quasi un anno fa, inizia a fare il giro delle sale e si concentra sul rapporto fra il grande pensatore comunista e i pescatori, l’intera comunità, di Ustica durante gli anni del confino sull’isola e della scuola per esiliati politici. Solo la terza edizione della rassegna “Milf” de Il Filo di Sofia poteva mettere insieme Gramsci con un dj set subalterno, cibo e beveraggio. All’opera di Barbucci, che vede Peppino Mazzotta vestire i panni del fondatore dell’Unità, è stato affiancato il lavoro del Laboratorio gramsciano dell’Università della Calabria. Guido Liguori e Fortunato Cacciatore hanno esposto, alla variegata platea che popola l’università anche di sera, il pensiero di Gramsci prima e dopo la proiezione. Studenti di oggi e di ieri restano affascinati dalle descrizioni post moderne del pensiero del politico. Luci basse e pensieri altissimi nella notte dell’Unical. Il debutto della pellicola di Barbucci è avvenuto lo scorso febbraio nella sua Reggio Calabria ma la tappa all’ateneo cosentino ha emozionato non poco il regista visto che è proprio fra i cubi di Arcavacata che ha studiato e cha ha maturato la prima idea del progetto.
Sul set del docufilm “Gramsci 44”
Ci ritorna portando con sé un documentario per nulla banale che certo fatica un po’ a prendere piede nella Penisola, ma che non potrà passare inosservato grazie a quella “decisa delicatezza” che tratteggia un personaggio per niente facile come Antonio Gramsci. Peppino Mazzotta riesce a interpretare con una bravura che ormai non fa più notizia. Gli studenti (e non solo), ascoltano e guardano la vita siciliana di Gramsci. Non s’annoiano nemmeno quando Liguori e Cacciatore entrano maggiormente nel cuore del pensiero. Sorseggiare del vino e guardare Ustica degli anni Venti. Le “Ceneri” mescolate al cibo “etico”. L’Unical grazie a “Milf” per una sera diventa una sorta di scuola per confinati politici come quella di Gramsci sull’isola, e si può appuntare sul petto la spilla che premia la rassegna per l’originalità degli accostamenti senza banalizzare o svilire il pensiero filosofico-politico gramsciano. Nessun partito politico che vanta di aver inserito nel proprio “album di famiglia” Gramsci ha avuto la decisa, diretta e, allo stesso tempo, semplice autorevolezza di saper raccontare il dotto comunista a cui si indica come si fa per le stelle più luminose. Che restano sempre irraggiungibili.
Un carnefice nazista cittadino benemerito. E’ successo una settimana fa in Germania. Tutti abbiamo negli occhi la visione cinematografica della caccia ai nazisti nel dopoguerra, fatta di fughe rocambolesche, vite nascoste e cambi d’identità. Ma le cose, purtroppo, sono più complicate.
La stele di Monte Sole, che ricorda gli eccidi nazisti in quelle zone
Partiamo da un fatto noto, anche al grande cinema. Nel 1944, dopo l’armistizio di Badoglio, la ritirata tedesca si fa sempre più frenetica. L’azione partigiana nei territori ancora occupati cresce, li tallona, e le ritorsioni nazi fasciste si traducono in eccidi che cancellano interi paesi. All’inizio dell’autunno il federmaresciallo Albert Kesserlingdecide di punire Marzabotto e i comuni limitrofi, perché qui vi opera la brigata partigiana Stella Rossa. Le case, le cascine, i rifugi; il rastrellamento fu minuzioso e nessuno fu risparmiato. In solo sei giorni furono 770 i civili uccisi, in gran parte vecchi donne e bambini. A questa azione prese parte come comandante di una compagnia, per sua stessa ammissione, un tal Wilhelm Kusterer. Tra il 2008 e il 2009 Kusterer fu condannato a due ergastoli dalla Corte militare d’appello di Roma per i crimini commessi in tre stragi naziste, tra cui quella di Marzabotto. Oggi, 93enne, senza aver scontato un solo giorno di pena, aspetta di ricevere una medaglia dal comune di Engelbrand per i “meriti” acquisiti tra il 1975 e il 1997 come consigliere comunale.
Questo non è una caso isolato. Lo sa bene Marco de Paolis, procuratore del tribunale Militare di Roma che ha fatto condannare in contumacia 57 criminali di guerra nazisti, e che non ha visto eseguire nessuna di queste sentenza né in Austria né in Germania. Ma sarebbe sbagliato far cadere le responsabilità solo su questi due paesi, che hanno sempre rifiutato di consegnare i condannati sia le successive richieste di far scontare le pene nel loro paese.
L’Italia per prima è colpevole. Dal dopoguerra al 1994 furono solo una decina i processi celebrati per i crimini nazisti. Solo in quell’anno infatti fu “rivenuto” quello che fu poi definito “l’armadio della vergogna” in un palazzo sede di vari organi giudiziari militari a Roma. Con le ante rivolte verso il muro, al suo interno conteneva, archiviati provvisoriamente dal 1960 (!), centinaia di fascicoli sulle stragi naziste in Italia, in molti casi con i nomi e cognomi degli autori. L’accantonamento di questi faldoni importantissimi è comprensibile solo considerando le posizioni politiche dell’epoca. I processi agli ex ufficiali tedeschi erano percepiti come inopportuni nell’ottica della integrazione in chiave anticomunista della Germania federale all’interno della Nato.
I processi che si aprirono dopo questo ritrovamento dal ’95 in poi erano inevitabilmente segnati dal loro ritardo. Molti accusati erano morti, altri ancora erano spariti da anni. Quelli ancora vivi e rintracciabili, come Wilhelm Kusterer – per il quale intanto ieri è stata ritirata l’onoreficenza – erano ormai degli ottuagenari che avevano trascorso la maggior parte della loro vita da cittadini qualsiasi, le cui azioni infami erano sconosciute ai più. Non si capisce se la vergogna che deve ricoprirci è più per i crimini descritti nei fascicoli, per l’indifferenza della Germania, o per l’operazione di oblio della memoria portato a buon fine dalle autorità italiane.
“La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha riconosciuto l’accesso alle informazioni detenute dai governi come diritto: oggi più di 90 Paesi democraticihanno un FOIA. L’Italia non è ancora tra questi”.
Questa citazione, tratta dal sito FOIA4Italy, rende chiara l’immagine della giurisprudenza italiana in tema di opendata e libertà d’accesso ai dati pubblici. Il diritto di accesso all’informazione è regolato da norme conosciute internazionalmente come “Freedom of Information Acts”, in acronimo “FOIA”. È da 50 anni che negli Stati Uniti non solo i giornalisti ma ogni cittadino ha diritto ad accedere agli archivi statali, anche a documenti coperti da segreto di stato, fino ad allora. L’Italia ha cercato di rispondere a questa lacuna legislativa, purtroppo in maniera ancora non soddisfacente. Ci siamo confrontati sul tema con Guido Romeo, tra i fondatori dell’associazione Diritto di Sapere e promotore della petizione online “FOIA4Italy”.
Perché i cittadini dovrebbero interessarsi all’assenza di un vero e proprio FOIA in Italia?
«Chi pensa che in Italia non ci sia abbastanza trasparenza non può non desiderare un vero Foia. Non siamo solo al penultimo posto in Europa per la corruzione (dietro di noi solo la Bulgaria) ma anche 97imi su 103 nell’accesso all’informazione secondo l’RTI rating. Molti obiettano che questa è una classifica fatta solo sui testi legislativi, ma indagini sul campo come quella di Diritto Di Sapere (qui il rapporto) mostrano dati allarmanti come il 73% delle richieste di accesso che non riceve risposte soddisfacenti e il 65% di silenzio amministrativo. In più ci sono una miriade di evidenze aneddottiche come per esempio il caso dell’inscatolamento della Venere capitolina durante la visita di Rouhani che mostrano quanto sia opaco il nostro sistema».
D’altra parte il Governo ritiene che il Decreto Trasparenza pubblicato il 20 gennaio scorso sia al pari dei corrispettivi anglosassoni, allora quali sono le reali differenze con il FOIA americano del ’66?
«Chi dice questo è in malafede o profondamente ignorante. Lo stesso Consiglio di Stato ha cassato il testo sollevando rilievi simili a quelli già evidenziati da Foia4Italy ad esempio: le procedure sono troppo complesse e scoraggiano un privato cittadino a tentare di accedere ai dati; mancano obblighi e sanzioni per quelle pubbliche amministrazioni che non rispondono o respingono richieste di accesso agli atti; numerose eccezioni che lasciano largo spazio alla discrezionalità. Adesso vedremo cosa dicono le camere nei loro pareri. Purtroppo però siamo di fronte a un decreto legislativo quindi questi sono pareri non vincolanti. La responsabilità del testo finale è tutta nelle mani del governo».
Guido Romeo, co-fondatore dell’associazione no-profit Diritto di Sapere, giornalista specializzato in economia e data-journalism.
Nonostante la delicatezza del tema, la libertà della accesso agli atti pubblici pare non essere una prerogativa dell’agenda dei media né del Governo che, nonostante il grande passo avanti rispetto al passato, ha emanato una legge che sin dall’inizio è parsa obsoleta. È giusto parlare di ostruzionismo verso un processo di civilizzazione così necessario?
«Veramente Renzi lo aveva promesso durante il suo discorso di insediamento, praticamente poco più di due anni fa (VIDEO). Ha poi rilanciato il tema più volte con slide e interventi, così come ha fatto il ministro Madia. Se il Foia è entrato nell’agenda dei media solo negli ultimi mesi è perché finalmente c’era un testo governativo – anche se pessimo – su cui confrontarsi. Credo che se c’è un merito della campagna Foia4Italy, a prescindere dalla qualità del testo finale, è che abbia reso il Foia una parola conosciuta ai più. Certo, fa un po’ strano che alcune forze politiche, a parole grandi sostenitrici della trasparenza, si siano allertate solo nelle ultime settimane».
Diamo un occhio al futuro, partendo dall’immediato passato. Lo scorso 22 febbraio FOIA4Italy ha presentato una petizione firmata da 61mila cittadini, ovvero un’alternativa al Decreto Trasparenza attuale. Il ministero per la Semplificazione e la Pubblica Amministrazione ha esaminato questo testo e dialogato con i rappresentanti del movimento. Com’è andato l’incontro e quali sviluppi possiamo realisticamente aspettarci nell’immediato?
«Quella petizione risale all’estate del 2014 quando lanciammo la campagna, i 61 mila firmatari li abbiamo cumulati in questo anno e mezzo. Il testo che vi era associato era la nostra proposta iniziale che si trova sul sito e che era stata depositata con diverse modifiche (a nostro avviso peggiorative) come proposta di legge 3042 alla Camera a firma Ascani e Coppola (Deputati del Partito Democratico ndr). Il 22 febbraio scorso una nostra piccola delegazione è stata convocata al Ministero della Funzione Pubblica per chiarire i punti che non ci soddisfacevano e che segnalavamo come rischiosi. Le osservazioni e istanze a cui abbiamo dato voce hanno molti punti in comune con quanto sollevato dal Consiglio di Stato. Quello che posso dire è che ho molto apprezzato la disponibilità del ministero perché le persone presenti erano del più alto livello ed è stato un confronto molto chiaro. Resta da vedere che cosa sarà il risultato finale. Credo che su questo testo si misurerà la vera volontà politica di questo governo di rafforzare la trasparenza».
Salvo sono, non ho bisogno di presentazioni. Parlano i record di share sul primo canale della rete pubblica che anche ieri sera hanno incollato un italiano su sei (con punte di oltre il 41%) davanti al Commissario Montalbano, la serie con la regia di AlbertoSironi tratta dai romanzi di Andrea Camilleri. Anche per questo motivo che si gioisce della riabilitazione di un mestiere difficile e bistrattato, quello del cronista di provincia, ieri sera impersonato in scena dalla comica palermitana Teresa Mannino (già nota a quello che chiamavano pubblico del piccolo schermo per le sue partecipazioni a Zelig e per gli spot televisivi al fianco di Raoul Bova).
Luca Zingaretti con la Mannino (foto Fabrizio Di Giulio)
La Mannino in una puntata alquanto intricata e affascinante ha recitato la parte di Lucia Gambardella, giornalista attenta e scrupolosa, che per le sue inchieste su una serie di appalti truccati a ammazzatine a Vigata, paesino immaginario divenuto immaginario collettivo grazie ai senza fiato scorci di Ragusa e dintorni, finisce nel mirino dei malacarne. La Gambardella non è un pezzo di sticchio e non è inserita nel contesto per qualche strana camurrìa amorosa. E’ semplicemente funzionale al giallo, perché da brava professionista conosce a memoria fatti e circostanze, ne sa più e meglio della sbirrama vigatese e non ha problemi a denunciare, tanto che lo stesso Salvo Montalbano decide di rompere il sacrale silenzio del pasto (pare sia un’usanza dello stesso Camilleri) per invitarla a cena e chiederle informazioni sul conto di quella famigerata zona d’ombra fatta di colletti e guanti bianchi, tatuaggi e camice firmate, belle fimmine e ville di collina che tanto somiglia alla realtà. La cronista seppur sotto grave minaccia (i soliti ignoti hanno preso di mira il suo bambino), non fa una grinza, ha sempre le pezze d’appoggio in tasca e sulla terrazza della Marinella sciorina vino bianco e tutti i dati senza alcun timore, ricostruisce i tinti legami dell’imprenditoria di facciata con le famiglie mafiose (nella fantasia i Sinagra di Vigata e i Cuffaro di Trapani), le coperture politiche e i tesori che il poliziotto prima di cena sembrava l’unico a non conoscere.
Il personaggio funziona, è dignitoso e restituisce dignità a una categoria che esiste e resiste davvero, senza che nessuno gli renda mai merito. Quella dei cronisti del Sud che, pur potendone scrivere solo una parte, conoscono vita morte e miracoli del cancro che uccide la terra da cui non hanno voluto o non hanno potuto andarsene. Quella che le ultime statistiche nazionali hanno dimostrato essere la colonna vertebrale di ciò che resta dell’informazione vera, un piccolo esercito di giovani e meno giovani che affrontano minacce e processi a fronte di stipendi che per decenni non hanno superato la media di 5 euro ad articolo.
La comica palermitana Teresa Mannino con lo scrittore Andrea Camilleri
E’ una specie di piccola onda che però arriva da più lontano ed è ennesimo segnale del salto di qualità, per restare nel linguaggio sbirrottesco, della produzione culturale che si deve al duo Camilleri – Sironi. E’ di fatto un tributo non scontato e non certo dedicato alla categoria tutta dei giornalisti, anzi piuttosto (e giustamente) presi spesso in giro dall’affilata sigaretta ormai comparsa persino in mano a Luca Zingaretti, ma quello messo in scena dal Commissario Montalbano ieri sera è lo stesso qualcosa di cui prendere nota, soprattutto di fronte al suo sorriso compiaciuto proprio di chi se lo aspetta mentre ascolta l’impettito anchorman di provincia che nel tiggì locali riporta le anti-verità dei padroni che tentano di smontare le piste investigative di Catarella and friends.
C’è un abisso di sfumature persino nel confronto con Nicolò Zito, giornalista di Retelibera (una delle due emittenti private di Montelusa che si vedono a Vigata, l’altra è la mainstream Televigata). Coetaneo e grande amico del commissario in tanti libri e puntate del passato, Zito, di sinistra e indipendente, tuttofare con l’aria da cialtrone che non le manda mai a dire (molti riconoscono un vago omaggio al mitico Pino Maniaci di Telejato), si limitava però ad avere un rapporto diretto da fonte con l’inquirente, uno di quelli do ut des necessari per chi lavora in giudiziaria o nera per avere notizie prima degli altri a prezzo di dover far da cassa di risonanza a quei sotterfugi polizieschi che servono a mettere in trappola furfanti di provincia. Qui (ovvero nel libro prima che nella serie) siamo andati oltre, e a caso risolto il monologo che precede la catartica nuotata finale di Montalbano lo dimostra appieno.
La statua del commissario Montalbano (quello creato da Camilleri) a Porto Empedocle
Una sorta di esordio inaspettato dei suoi pensieri sulla scena, che lo avvicina a Pepe Carvalho e a Maigret, personaggi a cui è stato accostato fin dai tempi della sua creazione (il dichiarato omaggio a Montalban non sfuggirebbe nemmeno ad un ospite di Tiki Taka che non sia Giampiero Mughini). Il Commissario in macchina stupisce gli assatanati della serie ripensando con voce fuori campo ad una cosa vista in un cantiere durante le indagini solitarie, sotto il diluvio (lui notoriamente meteoropatico): una piramide di fango, che dà anche il nome alla puntata (Per vederla QUI). Quante ne ha costruito la mafia con l’aiuto della politica e quante vittime innocenti dovranno ancora essere inghiottite prima che qualcuno riesca a far qualcosa? Chiede a se stesso Montalbano. Non è lo stesso personaggio che di queste grandi questioni ha sempre preferito non occuparsi, arrivando a “trattare” con potenti latitanti (in 17 anni delle sue avventure televisive incontra svariate volte di segreto Balduccio Sinagra, capobastone della casata mafiosa) pur di assicurare ai suoi casi quella verità giusta che va spesso oltre il confine delle regole (e quindi della vuota legalità) ma che invece punta al cuore della giustizia sociale. Per inciso, argomentazione che riporta per pochi istanti il dibattito sulla questione meridionale nei binari più alti della sua dimenticata e nobile storia.
Forse volevano solo babbìare, e se si tratta di uno sporadico sconfinamento lo scopriremo nelle prossime puntate (due episodi saranno girati dall’11 aprile a Ragusa e formeranno la serie che andrà in onda del 2017); sperando che non si sminchi questo principìamento di realismo intanto incassiamo il tributo ai cronisti minacciati; che qualcuno di loro abbia messo becco nelle sceneggiature? Forse ce ne vogliamo solo fare persuasi, un wishful thinking come dicono i mericani.
Oh, non sarà Spotlight ma questo passa il convento, anzi il commissario.
Waterloo arriva anche per Antonio Bassolino, che in 45 anni di carriera politica non aveva mai perso. Il sogno di morior invictus di Don Antonio naufraga lungo le amate coste del Golfo di Napoli. E chissà se Capri, Ischia o Procida saranno la sua Sant’Elena. Cento giorni è durata la campagna elettorale di Don Antonio. La sconfitta alle primarie Pd del candidato sindaco a Napoli subita da Bassolino va considerata come l’epilogo di una delle figure più longeve del circuito politico campano e nazionale? L’uomo che non conosce la parola sconfitta, chiamato anche “Votantonio”, domenica 6 marzo ha perso, questo è certo. Sono 452 i voti di distacco da Valeria Valente, figlia politica dell’ex sindaco e governatore (sono in tanti i figli sparsi lungo le sponde di Partenope) – renziana legata alla corrente dei “Giovani Turchi” e sostenuta dall’attuale governatore Vincenzo De Luca – che ha sentenziato: “Ho vinto io. Napoli ha scelto di guardare avanti, di non voltarsi più indietro”.
Antonio Bassolino, protagonista di mezzo secolo di politica italiana.
Quasi quasi lo scrivo su twitter, avrà pensato Don Antonio il 21 novembre, quando nulla era scontato, anzi. Il leone di Afragola sembrava fosse già prossimo alla grossa preda, pronto a macinare chilometri fino a giugno, come se la riconquista del partito fosse una passegiata. Bassolino in realtà era pronto a sbranare il “sindaco di strada” altrimenti noto come Luigi De Magistris. Il 6 marzo, dopo cento giorni (106 per la precisione) in cui le stampanti delle redazioni consumavano cartucce che sputavano comunicati stampa di eventi in suo favore e giornalisti compiacenti e felici del ritorno di “Totonno O’ cacaglio”, come è stato con poco affetto ribattezzato dai suoi concittadini, ma, qualcosa è andato storto. In tanti già preannunciavano la messa in onda di quella che fu TeleBassolino. In tanti ritornavano all’aia del buon Antonio e come si canta da queste parti, in troppi e in fretta hanno “scuordato o’ passato” in Tribunale dell’ex Governatore, le spese matte da Commissario per l’emergenza rifiuti e i bilanci in rosso alla Regione. Eppure era il sindaco del ’93 che sconfisse al ballottaggio la nipote del Duce, quello del 2000 con più del 70% dei consensi, il ministero del Lavoro, il doppio mandato alla Regione oltre che una lunga carriera da dirigente a partire dal Pci: non sono stati sufficienti per superare i 13mila voti dell’avversario. Nonostante la bassa affluenza assestata sui 30 mila voti.
Non è servito giocare a fare la popstar della cucina nei quartieri, o lo scalatore di vette crociate in salsa morandiana, tantomeno ad assumere gatti come spin doctor per rilanciare la sua immagine: non sapeva che i selfie per un volto ormai in bianco e nero sono poco 2.0. “Di nuovo, ci sono io” è uno slogan che palesa il fallimento di una campagna elettorale, la saturazione del prodotto: dopo 45 anni di maratona è tempo di mettere via la pettorina e riposarsi un po’. Non che la sua sconfitta sia stata sancita dal riscatto civico di un popolo, sono primarie pur sempre riordinate in uno scontro tra bande rivali anche se va chiamata “festa della democrazia”.
E allora non ci resta che ricordare i 100 giorni di euforia con gattini sul desktop e manifesti in A4 a coprire il busto; i 100 giorni come il ritorno di Napoleone dopo l’esilio toscano; i 100 giorni da Re che dopo 4 anni e mezzo ha passeggiato nuovamente per i vichi stretti alla ricerca del Plebiscito. E chissà come gongola dall’alto del trono di Governatore: Vincenzo De Luca ha trascorso una vita a sfidare Bassolino nel Pci prima, nel Pds poi passando per i Ds fino ad arrivare al Pd. Sempre sconfitto, provinciale e rancoroso appariva De Luca; sempre brillante, figliastro illegittimo di Berlinguer, saldo al comando “Don Tonino”. Eppure le tante sconfitte di De Luca sono andate nel dimenticatoio, conta l’ultima vittoria dello Sceriffo tanto quanto conta la prima sconfitta di Bassolino. Il sorpasso di “Vicienz’ a funtan’” (così chiamato per la proliferazione di parcheggi e fontane ai tempi del primo mandato da sindaco salernitano) arriva per via indiretta alle primarie dello scorso anno alla conquista della Regione contro Cozzolino, storico braccio destro di Bassolino. (Qui un approfondimento su De Luca vs Bassolino).
Da Sinistra, Bassolino e Berlinguer. Sullo sfondo si riconosce Vincenzo De Luca.
Già in occasione delle primarie regionali era emerso lo stato di fine vita del feudo bassoliniano, ma, l’odierna sconfitta toglie ogni dubbio: Antonio Bassolino è finito e nonostante la app antibrogli (esperimento fallito) il Pd napoletano non si sente troppo bene, ma, questo dato è noto ormai da tempo.
Un nuovo intrigo di potere nelle stanze del consiglio regionale calabrese. E mica l’orgoglio territoriale ce l’hanno solo i leghisti capeggiati da Matteo Salvini. L’acqua proveniente dal Veneto è finita sotto l’attenzione della politica. Il protagonista è Domenico Tallini detto Mimmo, un consigliere regionale, eletto con Forza Italia nel 2014 e che oggi se ne sta fra i banchi del gruppo misto. Al catanzarese Tallini è capitata “una brutta avventura”. S’è così infastidito che ha chiesto l’intervento del presidente del Consiglio regionale Nicola Irto. Cosa sarà successo mai di così grave per far infuriare il consigliere? Beh Tallini, durante i lavori della quarta commissione del Consiglio che si occupa di Assetto e utilizzazione del territorio e protezione dell’ambiente di cui, fra l’altro, è anche è vicepresidente, ha visto che sopra i tavoli della riunione c’erano bottigliette d’acqua provenienti dal Veneto. In una Calabria piena di sorgenti arriva l’acqua dal nord? Non sia mai!
Ed ecco perché il consigliere Tallini ha chiamato i giornalisti dell’ufficio stampa del Consiglio regionale per far sapere a tutti ciò che ha scoperto. «Bevo solo acqua calabrese convinto da sempre della qualità e della bontà dei prodotti della mia terra – ha tuonato Tallini dall’alto delle sue 10.902 preferenze ottenute con Forza Italia alle ultime regionali vinte dal centrosinistra guidato da Oliverio – Ed è per questo motivo che ho deciso di resistere alla sete quando, durante i lavori della quarta Commissione consiliare, mi sono trovato di fronte una bottiglia di acqua minerale prodotta nel Comune di Scorzè della Regione Veneta». Sacrilegio. Ma il consigliere regionale ha tenuto duro e con le labbra asciutte è corso a raccontare quello che aveva scoperto. «Come possiamo essere di aiuto alla nostra terra quando siamo noi stessi rappresentanti delle Istituzioni a disconoscere l’identità delle produzioni calabresi che rappresenta un momento di forte legame con i territori, consentendo il consumo di prodotti altrui ed in questo caso proprio di quell’acqua minerale che da noi è così buona, oltre che rinomata in tutta Italia? – ha aggiunto Tallini – Così non si va da nessuna parte, perché sono proprio le piccole cose a dare il segno di quel rinnovamento che ancora i nostri concittadini si attendono. Pertanto, al presidente Irto chiedo di sollecitare il gestore della mensa del Consiglio regionale a valorizzare il consumo dei nostri prodotti proprio in quella che lui stesso, con orgoglio, definisce la Casa dei calabresi». Cosa accadrà lo scopriremo nei prossimi giorni sperando che, finché non sarà affrontato il “caso”, il consigliere regionale Tallini non muoia di sete in attesa delle gloriose e limpide acque calabresi.
Ps: La volete una chicca in più? Sapete come si chiama il presidente della quarta commissione di cui Tallini è il vice? Domenico Bevacqua… Il caso non poteva che scoppiare lì.
Fuocoammare è una di quelle espressioni locali fortemente sintetiche, nate dall’esigenza pragmatica di un popolo di marinai e di pazienti scrutatori dell’orizzonte, sempre pronto a scomporsi quando qualcosa arriva dal mare. In dialetto lampedusano significa “mare agitato”. Il fuoco nel mare, un brillante ossimoro che ci guida nel “doppio sogno” di Gianfranco Rosi. Il fuoco immaginato delle armi che Samuele, il “piccolo principe” di Lampedusa, rivolge contro le onde che tanto teme e il fuoco simbolico, il pericolo di morte che inonda quotidianamente le coste dell’isola. “Fuocoammare” (“Fire at Sea” nella versione inglese) è il titolo dell’ormai noto docufilm che ha valso a Gianfranco Rosi l’Orso D’Oro nella sessantaseiesima edizione del Festival di Berlino, accolto con l’entusiastico e commosso favore della giuria, presieduta da Meryl Streep. “Fuocoammare” ha il fascino di un film neorealista in piena regola e come tale ha ricevuto un’accoglienza solenne e ideologica da parte della giuria e del pubblico internazionale, confermando l’importanza di un cinema politico che affronti, come fecero all’epoca Rossellini, De Sica, Visconti e gli altri, l’attualità con la giusta amarezza e schiettezza, rinunciando alla tranquillizzante patina del racconto epico.
Il regista Gianfranco Rosi ritira l’Orso d’oro a Berlino per il suo film Fuocoammare. (Fabrizio Bensch, Reuters/Contrasto)
Come le pellicole neorealiste, il film di Rosi racconta le vicende di persone comuni, la cui vita casualmente si intreccia con la Storia nazionale e internazionale, servendosi di attori non professionisti, impegnati in attività quotidiane, mentre i bambini ricoprono un ruolo di grande rilievo, perché, con il loro sguardo inconsapevole sulle cose, incarnano il senso di giustizia e denunciano gli errori degli adulti. L’isola di Lampedusa, il primo baluardo d’Europa nel Mediterraneo, diventa il palcoscenico di una pièce in cui l’Europa misura se stessa e mette in discussione, sul campo, il proprio senso di ospitalità, giustizia, moralità ed etica, tanto proclamati nei trattati politici e nelle Costituzioni.
Rosi racconta un mondo duale e ancestrale, diviso in due dagli scogli rocciosi: la terra, la rigogliosa vegetazione del paradiso semplice e umanizzato dei lampedusani e l’abisso marino dei migranti e dei loro angeli in bianco della marina militare. Due mondi che non comunicano tra loro, che si sopportano e si subiscono a vicenda con rassegnazione e pietas inconsapevole, mentre condividono l’esperienza fondante dell’essere isolano, il rapporto con il mare, inevitabile misura dell’esistenza. E’ proprio con il mare che Samuele, il piccolo adulto che accompagna lo spettatore alla scoperta del lato selvaggio dell’isola, si confronta e si scontra, perché ha il mal di mare e vuole farselo passare, proprio come suo zio che fa il pescatore.
Il trucco del mestiere è lasciarsi dondolare dal mare e resistere alla nausea, abituarsi a quel piccolo grande disagio che per un isolano è un aspetto ridondante delle sue giornate. Rosi sembra, così, suggerire l’ostinazione dei giusti nell’essere generosi e accoglienti, anche quando è difficile, anche quando la politica nazionale sembra dimenticarsi di loro, anche quando l’Europa intera alza i muri e si mostra miope e demagogica.
Una scena di Fuocoammare, regia di Gianfranco Rosi.
Samuele è un dodicenne anomalo e antico come anomalo e remoto è il luogo in cui sta crescendo, con la passione per la fionda e i versi degli uccelli, il suo mal di mare e l’occhio pigro, che non vuole guardare: è un bambino fuori dal mondo, affetto da “isolitudine”. Rosi sembra, però, rammentarci che i i veri orbi siamo noi “del continente”, protetti da leggi e politiche neganti e contraddittorie, che giustificano il vuoto d’azione dei nostri governi, lontani dai corpi e dalle richieste di aiuto.
Il film scorre sui due binari separati, alternando pranzi, giochi, passeggiate, battute di pesca subacquea a salvataggi, SOS, rianimazioni, il centro d’accoglienza, i morti, e assegna al dottor Pietro Bartolo, che da vent’anni assicura la prima accoglienza medica ai migranti, il compito di tenerli insieme con il suo sapiente e addolorato racconto. Piero Bartolo è una vera istituzione sull’isola: c’era quando la prima barchetta di legno con a bordo tre tunisini attraccò al porto e la gente disse “Arrivano li turchi!” e c’è stato sempre in questi lunghi venti anni di sbarchi; con i suoi racconti ci ricorda come potremmo essere, ospitali, accoglienti e resistenti come tutti i popoli bagnati dal mare.
Rosi ha trascorso più di un anno sull’isola e ha cercato di restituire la scissione della realtà che ha visto, rimarcandola fino all’esasperazione. Così il regista racconta un mondo di buoni selvatici e inconsapevoli e un mare di vittime disilluse, calcando un po’ la mano, tralasciando quelle figure intermedie e veramente ordinarie, non celebri come il dottor Bartolo, che ogni giorno si interrogano e si confrontano con una delle tragedie umanitarie più rilevanti del nostro tempo. La sublimazione cinematografica, molto avvincente dal punto di vista estetico e narrativo, rischia di esasperare la divisione tra i buoni e i cattivi e di assolutizzare le differenze, annullando le sfumature e le esperienze di vita vera, spontanea, umanamente contraddittoria.
Forse il festival di Berlino ha assegnato il suo riconoscimento all’ultima isola d’Europa, Lampedusa, e a quello che rappresenta – la possibilità di essere migliori di come siamo – nella speranza che non resti un caso isolato e uno specchio per le allodole.
Teodoro è un «vagante». Questo appellativo scelto dalla stampa d’epoca per etichettare tutti quegli uomini e quelle donne che nell’estate del 1978, a seguito delle disposizioni relative alla Legge 180 sulla chiusura dei manicomi, brancolavano senza meta né cura, nei vasti territori di una provincia cosentina completamente impreparata e, forse, scarsamente disposta a riaccoglierli.
Gli esclusi. Fotoreportage da un’istituzione totale. Fotografie di Luciano D’Alessandro, presentazione di Sergio Piro, il Diaframma 1969.
Teodoro è schizofrenico, gli ultimi diciannove anni dei propri sessantatre trascorsi nel chiuso del manicomio “Vittorio Emanuele II” di Nocera Inferiore, per oltre un secolo comodo scarico di tutti i “matti” cosentini. Originario di San Marco Argentano, esattamente quarant’anni fa Teodoro risultava “allistato” tra i cosiddetti «ammalati dimissibili». Erano in tuttoquattrocento: uomini e donne di ogni età, considerati non più pericolosi per la propria e l’altrui persona e, dunque, immediatamente trasferibili al fine di alleggerire il più possibile il peso di una struttura ormai prossima al collasso.
Teodoro assiste così, quasi impotente, altracollo dell’istituzione totale che avrebbe dovuto curarlo. Le camerate di quasi tutti i bracci dell’istituto nocerino erano sovraffollate, popolate da ratti e insetti oltre che da (quasi) umani. Tecnici e periti nominati dalle numerose commissioni d’inchiesta erano chiamati a far luce sulle gravi carenze igieniche interne. Nessun percorso di cura per Teodoro. Avanzando diverse mensilità, sorveglianti, infermieri e medici lavorano poco e male, senza voglia. Lo stesso discorso valeva per le ditte farmaceutiche, di nettezza e manutenzione interna che, a fronte di un monte crediti ingente, cominciano a far mancare forniture e servizi. Nel febbraio del 1976 il debito stimato era di circa 12 miliardi di lire. Tra i principali enti debitori la Provincia di Cosenza che insieme alle altre consorziate – Isernia, Campobasso e Salerno – era riuscita a ritagliare un luogo abbastanza remoto per disfarsi di tutto il “pattume sociale” ma, al contempo, una comoda e decisiva tappa nelle carriere fotocopia di medici, infermieri e secondini.
Gli esclusi. Fotoreportage da un’istituzione totale. Fotografie di Luciano D’Alessandro, presentazione di Sergio Piro, il Diaframma 1969.
Vittima di propri e altrui mali, l’11 luglio del 1978 Teodoro bussa alla porta della modesta abitazione di contrada San Lauro a Fagnano Castello. A riaccoglierlo c’è sua moglie Giovannina, donna dal fisico segnato dal troppo lavoro e madre di due ragazzi allevati tra mille difficoltà. Anni di pesanti terapie lasciano a Teodoro la sola parvenza di uomo normale, l’Istituzione gli ha rubato prima di tutto affetti e ricordi, privandolo, infine, della possibilità di apprendere i rudimenti di una qualche professione. Diciannove anni di manicomio l’hanno reso, in breve, un estraneo agli occhi dei propri familiari. E dei propri occhi. Un giorno Teodoro prende il treno, direzione Cosenza: vaga per ore senza meta, da sbandato nei dintorni di Vaglio Lise. Riacciuffato dalla Polfer viene riaccompagnato a casa. Non potendo disporre di denaro in una economia familiare parsimoniosamente gestita da Giovannina, Teodoro si sente menomato. E soffre.
Il 18 ottobre del 1978, sul far del mattino, basta un litigio di poco conto con la moglie per trasformare tutto il proprio trascorso in furia omicida. Prende una scure Teodoro e colpisce per tre volte Giovannina, uccidendola.
«Ho ucciso mia moglie – dichiarerà poco più tardi ai Carabinieri – la troverete per terra, a casa». Negli anni a seguire Teodoro non pronuncerà più una parola, spegnendosi mestamente tra le sbarre di altre carceri, questa volta inevitabili. Nelle carte Teodoro rimarrà semplicemente un numero, una patologia e un delitto. Carte impietose e senza sconti. Carte da legare.
Ci ritorneremo.
(2. continua)
Per approfondire:
– Archivio Storico Gazzetta del Sud, Cronaca di Cosenza, 19 ottobre 1978, Dimesso dal manicomio uccide la moglie a Fagnano.
– Archivio Storico Gazzetta del Sud, Cronaca di Cosenza, 28 febbraio 1976, Dal manicomio di Nocera Inferiore. Saranno dimessi 400 ricoverati.
– Salomone Giuseppina, Il manicomio di Nocera Inferiore. Il Vittorio Emanuele dal 1882 al 1924, Idelson-Gnocchi, 2004.
– Manzi Sabato Antonio, Il manicomio “Vittorio Emanueleˮ di Nocera Inferiore in La formazione della psichiatria in Irpinia: dalla “pazzeria” degli Incurabili ai Dipartimenti di salute mentale, Lettere italiane, n. 55 2003.
E’ il luglio del 2001 quando Martin Baron, uno dei migliori direttori americani (cronistoria qui ), si trasferisce dal Miami Herald in Florida alla cabina di regia del Boston Globe. La sua scelta editoriale, privilegiare il giornalismo investigativo a scapito della copertura di eventi internazionali, dà carta bianca alla squadra di reporter chiamata Spotlight (SI’, il titolo italiano IL CASO Spotlight è sbagliato; NO,non c’è modo per farlo cambiare). Il team, fondato dal direttoreTom Winship nel 1970, è il più longevo degli Stati Uniti nell’ambito del giornalismo d’ inchiesta e si era già occupato di casi di corruzione di politici, assenteismo di dipendenti pubblici, frodi e abusi, vincendo 2 premi Pulitzer nel 1972 e nel 1980. Nel 2001 però l’ attenzione di Baron si focalizzò su una notizia locale del quotidiano: un sacerdote chiamato “Father John Geoghan” era accusato di aver abusato di almeno 84 minori. L’articolo, firmato dalla giornalista Eileen McNamara, appariva rivelatore:
“La verità potrebbe non venire mai a galla, perché i documenti sono secretati”.
Da lì in poi, il premio Oscar come miglior film del 2016 ricostruisce i 5 mesi di lavoro per rivelare i numerosi abusi sui minori perpetrati nel tempo da membri dell’arcidiocesi di Boston. Il giornalista Walter Robinson (Michael Keaton nel film) e i suoi redattori, Sacha Pfeiffer (Amy McAdams), Michael Rezendes (Mark Ruffalo), Ben Bradlee Jr (John Slattery) e Matt Carroll (Brian d’Arcy James) riescono così a dimostrare la colpevolezza della Chiesa nel coprire gli abusi e l’omertà delle istituzioni nella cattolica Boston.
Dopo 5 mesi di lavoro, il 6 gennaio 2002 uscirà il primo articolo di una lunga serie (alla fine saranno circa 600) con il titolo: “Church Allowed Abuse by Priests for Years”. In seguito furono centinaia le vittime che contattarono il giornale, scuotendo l’intera città. Il caso si spostò ben presto a livello globale svelando casi simili in tutto il mondo.
EDITOR IN CHIEF Liev Schreiber nei panni di Baron, il miglior direttore di sempre?
Vescovo: -“Trovo che la città prosperi, quando le grandi istituzioni collaborano”
Direttore: -“Personalmente, credo che, affinché il giornale svolga al meglio le sue funzioni, debba schierarsi da solo.”
IL FILM | (potrebbe contenere tracce di spoiler)
Spotlight è essenzialmente un journalism drama, ovvero un film procedurale che privilegia la narrazione limpida dell’inchiesta senza mai scadere in un piatto resoconto. L’intera trama si snoda quindi attraverso tavoli di redazione, scrivanie disordinate e taccuini nella borsa, senza inutili estetismi. Accomunato a molti film dello stesso genere in stile anni ‘70, come Tutti Gli Uomini Del Presidente, Spotlight si differenzia da loro per la caratterizzazione dei personaggi e il compito salvifico della stampa nella società. Se i giornalisti sono stati raffigurati come parassiti, molestatori o servi piegati al potere in molte trasposizioni cinematografiche, allora questo è il film che ridà serietà al giornalismo in sé, come parte imprenscindibile della nostra società.
Non a caso,in una delle scene finali del film, il potere quasi mistico della carta stampata si palesa attraverso le rotative in azione, i giornali impilati e imballati e i furgoni che distribuiscono il giornale nel cuore della notte, come in Quarto potere. Attenzione, però, questo non significa che i giornalisti nel film diventano supereroi o star, conservano i loro pregi e difetti fino all’ultimo fotogramma. Il ruolo all’interno del film di Michael Keaton, già monumentale nei panni dell’ anti-supereroe di Birdman l’anno scorso e in Cronisti d’assalto nel 1994, è emblematico.
THE WIRE | (per la serie)
Gran parte del merito è del regista Tom McCarthy, attore poliedrico e già autore di diversi film inusuali (Station Agent, L’ Ospite Inatteso, The Cobbler) che è riuscito a convincere Hollywood a mettere da parte scene commuoventi e sensazionalistiche a favore di trasparenza e serietà. In molti lo hanno citato per il suo ruolo in TV da reporter nella quinta stagione della serie The Wire, e in questo aspetto si possono trovare numerose sfumature nella direzione di Spotlight. Perché questo film si allinea perfettamente al cinema quasi documentaristico di David Simon (oltre al già citato The Wire, ha realizzato Trème sull’ uragano Katrina, Generation Kill sui soldati Usa e Show Me A Hero sui projects di New York) e la sua idea di giornalismo. In The Wire, McCarthy interpretava Scott Templeton,un giornalista ambizioso di fama che per riuscire a sfondare costruisce una serie di articoli falsi, in pieno stile Stephen Glass (L’inventore di Favole), fino a raggiungere il Premio Pulitzer. In tutto quel periodo trascorso a interpretare il cattivo giornalista sotto la regia di Simon (ex giornalista del Baltimore Sun), è stato un grande passo per la realizzazione di Spotlight. Il sesto episodio in particolare, intitolato l’ aspetto “Dickensiano”, era una critica al giornalismo che Templeton e il suo direttore editoriale cercavano di perseguire, fatto di cliché, privo di analisi,predeterminato e guidato più da uno storytelling sentimentale che dalla veridicità dei fatti.
Il primo parallelismo tra i due è la mancanza di personaggi principali e l’ambiente urbano come unica traccia: se The Wire era un romanzo corale sulla città di Baltimora dall’alto al basso, dai ghetti di periferia alle stanze del Comune, Spotlight offre uno spaccato di Boston e la sua cultura di matrice cattolica.
A caratterizzare tutto ciò sono gli slang locali (Mark Ruffalo eccellente in Spotlight) e la panoramica che si amplia di pari passo con la trama: Per Simon il focus si sposta dalla criminalità e dalla polizia fino alla politica; in Spotlight si muove dalla redazione del Boston Globe ai quartieri disagiati dove risiedono le vittime fino ad arrivare alle stanze degli avvocati corrotti altolocati.
Vediamo in uno schema altre similitudini:
La mancanza di sintesi: Simon prima di realizzare il suo masterpiece, aveva dedicato un anno intero a fianco delle pattuglie della polizia di Baltimora, idem per McCarthy all’interno della redazione del Globe. Nelle loro rispettive trasposizioni su pellicola calcano la mano su ogni passaggio: per loro questo rappresenta una necessità procedurale,ergo può apparire ad alcuni a tratti noioso.
I dialoghi caratterizzanti: le battute sono spesso sottili ma forti, di grande impatto: se vi ricordate degli sketch tra McNulty e Bunk, rimanete favorevolmente impressi da John Slattery, che dopo Mad Men si trova a suo agio anche come redattore nel film.
il pessimismo di fondo: The Wire aveva una chiusa che non prevedeva redenzione, nell’ultima puntata c’erano i giornalisti che avevano denunciato i falsi scoop di Templeton ed erano stati trasferiti in modo punitivo in altre redazioni fuori dallo Stato. La telecamera indugiava sulla scritta a caratteri cubitali all’interno della redazione: “As I look back over a misspent life, I find myself more and more convinced that I had more fun doing news reporting than in any other enterprise. It is really the life of kings.” H.L.Mencken(1880-1956)giornalista del Baltimore Sun. Spotlight invece si discosta leggermente,ma non ci sono finali a lieto fine o di grande impatto: nel finale rimangono i giornalisti esausti che prendono le varie chiamate da parte delle vittime e il sipario cala sui giornalisti che rimangono al loro posto a fare il solito lavoro; i titoli di coda si affacciano con gli sviluppi di queste inchieste, come un cazzotto sotto il muso. In tutto questo, David Simon (l’intervista completa qui) ha riconosciuto i meriti di Spotlight, elogiando a più riprese il suo “allievo”:
“E’ veramente un gran film, ma per me è una specie di porno per giornalisti”.
Quello che si può dire è che senza David Simon forse Spotlight non avrebbe visto la luce. La pellicola, proiettata fuori concorso alla Mostra del cinema di Venezia, è stata accolta con numerose recensioni positive e l’incoronazione come miglior film alla premiazione degli Oscar è meritata. Di certo rimarrà impresso a lungo per quanti cercano di praticare più o meno a fatica un lavoro così bello e inutile. Perché in fin dei conti, per citare Joseph Pulitzer, un giornale che è fedele al suo scopo si occupa non solo di come stanno le cose, ma di come dovrebbero essere.
Ed è meglio chiuderla qui.
Post scriptum | a breve uscirà nelle sale El Club, di Pablo Larraìn, ingiustamente snobbato agli Oscar, che si focalizza sempre sulla Chiesa e sulle malefatte di alcuni preti pedofili nella costa cilena.
“Ci dispiace se aspettate nel traffico, ma noi sono 30 anni che aspettiamo“. In circa trecento paralizzano la circolazione nel centro di Roma, presidiando in un colorato sit-in le strade di accesso a Palazzo Madama, sede del Senato a Roma. Sono gli attivisti di numerose sigle lgbt, in corteo con l’intenzione di “guardare in faccia” i senatori riuniti in assise per la votazione sul discusso disegno di legge Cirinnà sulle unioni civili. Imponente il dispiego di forze dell’ordine per contenere i manifestanti e impedirgli di raggiungere il palazzo del Senato, non mancano piccoli momenti di tensione, subito distesi dai cori ironici destinati ai politici più in vista nel fronte del no: Giorgia Meloni e Carlo Giovanardi.”Tremate tremate, le froce son tornate“, scandiscono fra gli applausi e i rumori i protestanti richiamando anche nei cartelloni i cori femministi degli anni ’70. Gli fa da coda un lungo torpedone di bus urbani rimasti alle spalle del corteo, il traffico del centro è totalmente in tilt. “Andiamo oltre alla Cirinnà e non ammettiamo nemmeno un referendum su questi temi, i diritti in un paese civili vanno dati per legge, non sono una concessione del re buono”.
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La prima chiamata del voto (con fiducia) è prevista per le ore 19: il 25 febbraio del 2016 potrebbe essere una data storica per l’Italia, anche se il testo all’esame del’aula è molto diverso da quello iniziale e da quello delle polemiche delle ultime settimane. L’accordo raggiunto fra le componenti del governo non prevede la contestata norma sulle adozioni, decade l’obbligo di fedeltà e anche il divorzio lampo in tre mesi: dopo una giornata di trattative convulse in seno al governo, con vari ministri schierati a pochi metri dai contestatori, è passato un maxiemendamento di 69 articoli che in realtà sostituisce in blocco la legge Cirinnà.
Un mare di disperati che continuiamo a far finta di non vedere. Anche se il flusso di persone dirette in Europa da Medio Oriente e Africa è diminuito in questi ultimi mesi invernali, la cosiddetta “emergenza migranti” è tutt’altro che conclusa. Secondo le stime dell’Unhcr – l’Alto Commissariato per i Diritti Umani dell’Onu – nel 2016 sono già 6029 le persone giunte in Italia dal Mar Mediterraneo, e ben 76mila quelle arrivate in Grecia. Nel 2015 gli arrivi dei migranti in Europa attraverso il Mediterraneo sono stati complessivamente un milione – 153mila in Italia e oltre 856mila in Grecia – la maggior parte dei quali registrati durante il periodo estivo. Rispetto al 2014 (allora erano circa 170mila), come dicevamo, c’è una diminuzione del 10% delle persone arrivate in Italia via mare; non è un invasione come qualcuno vuol far credere (100mila in più sono le persone che hanno lasciato l’Italia nell’ultimo anno), ma è comunque un’epopea di evidente portata storica.
Purtroppo le traversate del Mediterraneo in condizioni estremamente precarie comportano sempre grandi perdite di vite umane. Nel 2015 i morti in mare nel vano tentativo di raggiungere le coste dei paesi europei sono stati circa 4000, di cui il 20% sarebbero bambini. Una generazione persa negli abissi. Secondo l’Oim – l’Organizzazione internazionale delle Migrazioni – nel solo gennaio 2016 il numero di coloro che hanno perso la vita nel Mediterraneo ammonterebbe già a 244, la maggior parte dei quali – circa 218 – nel tentativo di raggiungere la Grecia dalle coste turche. Gli altri sarebbero morti lunga la rotta che dalla Libia porta in Italia.
La composizione etnica e nazionale dei flussi diretti rispettivamente in Grecia e Italia è differente. Per quanto riguarda il paese ellenico, la componente nazionale più numerosa è senz’altro quella siriana (483mila) seguita da quella afghana (210mila) e poi da quella irachena (88mila). Nel nostro paese invece il primato degli arrivi spetterebbe agli eritrei (quasi 40mila persone) seguiti dai nigeriani (22mila).
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L’aumento delle crisi umanitarie sempre più violente ha comportato un aumento delle richieste di protezione internazionale in Europa, soprattutto dal sud del mondo. Nel 2014 sono state – secondo l’Eurostat – 626mila le richieste di protezione internazionale in Europa, con un aumento di circa il 44% rispetto al 2013. La maggior parte di questi sarebbero siriani – il 20%. Sempre secondo l’Eurostat 1 su 3 richiedenti ha presentato domanda in Germania (200mila domande), seguita da Svezia (80mila) e Italia (46mila).
Proprio nel nostro paese, i richiedenti asilo rispetto al 2013 sono più che raddoppiati, con un aumento del 143% (sono state 26mila le domande presentate nel 2013). Le richieste esaminate in Italia sul totale sono state circa 36mila, di cui ben il 60% è stata accolta con il conferimento di uno dei tre status di protezione internazionale previsto dal nostro ordinamento e dal diritto internazionale (rifugiato, protezione sussidiaria, motivi umanitari). In Italia le richieste sono state presentate soprattutto da cittadini provenienti da Nigeria (10.135, il 16%), Mali (9790, il 15%), Gambia (8575, il 13%).
Vittorio Stancati è schizofrenico, mezzo paralizzato da un ictus. Alla buon’ora lo hanno buttato giù dal giaciglio che per 40 anni ha accolto le proprie membra inquiete, caricato sulla carrozzella e spedito su un autobus assieme ad altri 20 compagni in direzione Paola. Sono gli ultimi giorni del 1996 e alla «stazione di Paola» fa molto freddo. Clelia Martorelli ha salutato per l’ultima volta Maria Negrini, disabile compagna di degenza. Insieme hanno sconfitto la follia: non si vedranno mai più[1].
Èla cronaca della deportazione lenta e silenziosa degli ultimi «residui manicomiali» dell’ospedale psichiatrico, ex manicomio “Vittorio Emanuele IIˮdi Nocera Inferiore, smobilitati e trasferiti per la maggior parte in cliniche private. Arrivavano tutti da Cosenza, e in pochissimi riuscirono a rivedere la propria città e la proprie famiglia. Quasi tutti perderanno la forza di quei preziosi legami imperniati sulla disperazione, faticosamente instaurati all’interno del manicomio campano. Troveranno invece città e paesi ancora carenti dal punto di vista delle strutture e dei servizi e una attività terapeutica che – secondo l’associazione Diapsigra – «è quasi esclusivamente limitata allʼerogazione di psicofarmaci, mentre sulla carta bisognerebbe disporre anche di energici interventi di psicoterapia individuale, di gruppo e familiare nonché della partecipazione coadiuvata ad attività esterne finalizzate al raggiungimento dellʼautonomia da parte del malato». Tra la metà e la fine degli anni ʼ90 la struttura campana, ormai prossima alla dismissione, ospita 26 pazienti della provincia cosentina e «per ciascuno di essi lʼAsl sborsa qualcosa come 300 mila lire al giorno»[2]. Mentre strutture assistenziali come il “Ricovero Umberto I” (leggi la nostra inchiesta) tracollano lentamente nell’indifferenza generale.
Una storia antica e quasi sconosciuta quella di questi pazienti cosentini internati presso il manicomio nocerino. Migliaia di alienati provenienti dai luoghi più remoti della provincia, trovavano dal 31 dicembre 1883 un facile deposito nei diversi bracci e succursali di un «manicomio moderno», una delle tante istituzioni complete, severe e austere che vedranno la luce nell’ultimo scorcio d’Ottocento. Il sovraffollamento del manicomio criminale di Aversa, spingeva la Deputazione Provinciale di Cosenza a foraggiare l’impresa di Federico Ricco, libero docente di clinica medica presso l’Università di Napoli, fondatore della rivista ufficiale dello stabilimento “Il Manicomio” che registrò fra gli altri gli interventi di Cesare Lombroso, per anni ispettore e consulente medico.
La formula che per decenni assicurò alla Provincia di Cosenza un comodo scarico per «i matti di propria competenza, dietro un compenso stabilito per degente e per giorni di ricovero» fu quella del consorzio poi divenuto Ente Morale per l’amministrazione diretta: «Furono nuovamente convocati in Assemblea, in Salerno, i delegati delle 6 province, il 4 febbraio 1884. In detta assemblea si stabilì ad unanimità, che tutti i sei componenti dovessero intervenire nella stipula del contratto con Ricco, e che, da quel giorno, dovesse intendersi per legalmente costituito il Consorzio tra le sei provincie di Salerno, Avellino, Foggia, Campobasso, Bari e Cosenza».
La storia dei cosentini internati a Nocera è soprattutto di solitudine e lavoro ma, immancabilmente, pesanti terapie, somministrazione di preparati sedativi, neurolettici, shock insulinico oppure cardazolico, elettroshock. Decine e decine di faldoni per un totale di 1909 unità e ben 41.914 cartelle cliniche tra cui una “Rubrica generale uomini e donne prov. di Cosenza, Salerno e fuori provincia”, riordinati dalla Soprintendenza archivistica campana e dalla fondazione CeRps[3], costituiscono oggi una miniera d’informazioni per storici, sociologi e psicologi alla ricerca di tesi originali su un tema ancora soggetto all’oblio.
Ci ritorneremo.
(1. continua)
[1] Le brevi storie sono ricavate da Archivio del Corriere della Sera, Manicomi chiusura scaglionata, 31 dicembre 1996.
[2] Archivio Gazzetta del Sud, Cronaca di Cosenza, Lʼinferno degli ammalati di mente, 26 agosto 1998.
[3] C. Carrino, G. Salomone, Lʼarchivio dellʼospedale psichiatrico Vittorio Emanuele II di Nocera Inferiore, Casa Editrice Fondazione CeRPS, Nocera Inferiore 2011.
Montagne russe, cinema in 3D, parchi acquatici – uno dei quali costruito dalla ditta italiana che ha lavorato anche con Disneyland – e addirittura un quartiere soprannominato Pyonghattan per la presenza di numerosi grattacieli che ospitano alcuni degli alloggi più esclusivi della capitale. Per chi c’è stato descrivere la Corea del Nord come un Paese povero sull’orlo del collasso sarebbe semplicistico: se ne è avuta l’ennesima conferma nelle ultime settimane con i test missilistici e satellitari. E’ ancora presto per effettuare una stima precisa di quanto siano costate al regime queste operazioni, ma analizzando i dati pubblicati tre anni fa dalla CNN se ne può ottenere un’idea approssimata: basti pensare che nel solo 2012 il regime ha speso oltre un miliardo e cento milioni di euro per il suo programma spaziale.
I ritratti di Kim Il Sung e di suo figlio Kim Jong Il restano sempre illuminati, insieme alla fiaccola sulla torre di Juche. (foto di David Guttenfelder per National Geografic)
Cifre di questo tipo sono in forte contrasto con le informazioni che arrivano dalle pochissime istituzioni internazionali alle quali è permesso operare nel Paese, come la Food and Agricolture Organization (FAO) e il World Food Programme (WFP), che raccontano di una popolazione in ginocchio per via del fallimento economico del modello socialista. Human Rights for North Korea, una Ong americana che si dedica alla documentazione della situazione dei diritti umani in Corea del Nord, ha pubblicato un rapporto intitolato “Pyongyang Republic”, che mira a riconciliare queste due immagini contrastanti, seppur entrambe vere.
Il rapporto evidenzia come esistano due realtà profondamente diverse all’interno del Paese. Da un lato, la Repubblica di Pyongyang, dove è permesso vivere soltanto ai fedelissimi del regime, e dove quindi convergono i flussi di risorse. Dall’altro, la Repubblica delle Province, dove vengono relegati i cittadini – o forse sarebbe meglio chiamarli sudditi – privi di qualsiasi tipo di influenza e sui quali non si può fare affidamento politico. L’autore, Robert Collins, ha fatto parte per 31 anni del contingente militare americano in Corea del Sud e oggi rappresenta una delle massime autorità per quanto riguarda le dinamiche interne che caratterizzano la Repubblica Popolare Democratica di Corea.
Vasca di pesci rossi nell’ufficio della principale agenzia di stampa nordcoreana (foto di David Guttenfelder per National Geografic)
Scrivere di Corea del Nord risulta sempre particolarmente problematico per un osservatore, è estrema la difficoltà di verificare quanto viene affermato da una fonte. Tuttavia, pur ammettendo che gli americani abbiano un interesse di parte nel descrivere la dittatura di Pyongyang nei termini peggiori, chi scrive ha visitato la capitale nordcoreana e dintorni ed è giunto a conclusioni analoghe. E, cosa molto più importante, molti dei 28mila rifugiati fuggiti dalla Corea del Nord confermano la tesi di Collins. Pyongyang è la sede del potere nel Nord del Paese da più di duemila anni e oggi ospita circa un decimo dei 25 milioni di abitanti della Corea del Nord. A partire dal 1945, in seguito alla fine della guerra di liberazione contro il Giappone, l’area è stata occupata da forze comuniste coreane e sovietiche, che l’hanno ufficialmente dichiarata “Capitale della Rivoluzione”, slogan usato ancora oggi e che campeggia quasi ovunque in città. In modo da incoraggiare il reclutamento delle elite all’interno del partito Comunista, Pyongyang offre i migliori servizi di istruzione e di alloggio, nonché una marcata possibilità di mobilità sociale.
Per vivere nella capitale, conferma il rapporto di HRNK, occorre un permesso firmato dal Partito dei Lavoratori di Corea e dal Ministero del Lavoro, cosa che solitamente avviene dopo un attento esame della storia familiare e del songbun – status o ceto sociale – del soggetto in questione. Addirittura, secondo quanto affermano i media cinesi, i nordcoreani preferirebbero lo status di residente a Pyongyang alla vittoria di un’ipotetica medaglia d’oro alle Olimpiadi. La storia familiare è particolarmente importante dato il principio del yeon jwa je – colpevolezza per associazione – secondo il quale fino a tre generazioni legate una persona giudicata “criminale” devono essere punite.
Qualsiasi visitatore della Corea del Nord, data la possibilità di allontanarsi dalla capitale attraverso le larghissime e deserte autostrade che collegano la città al resto del Paese, si accorgerebbe della presenza costante di check-point militari. Questi ultimi sono necessari per controllare le migrazioni interne della popolazione e quindi anche per impedire ai meno fedeli al regime di trasferirsi a Pyongyang.
Donna piange dopo aver cantato un inno al leader, solo i fedelissimi possono vivere nella Capitale. (foto di David Guttenfelder per National Geografic)
Un rapporto speciale del WFP in collaborazione con la FAO citato dal rapporto di Collins ha evidenziato come l’84,4% delle famiglie nordcoreane soffra per via di una “disponibilità di cibo scarsa o borderline”.
Stando ai dati ufficiali relativi al 2014, delle sette imprese alimentari del WFP che producevano cibo in Corea del Nord, cinque sono state chiuse. Le uniche che risultano essere ancora operative sono nel pieno centro di Pyongyang.
Anche le derrate alimentari provenienti da Paesi esteri sotto forma di aiuti vengono sistematicamente dirottate verso la capitale. Nel 2011, scrive Collins, il regime ha ricevuto dalla Russia 50mila tonnellate di cibo. Di queste soltanto 10mila hanno raggiunto nordcoreani residenti fuori da Pyongyang. La percezione delle realtà rurali da parte delle organizzazioni internazionali rimane approssimativa, così come quella del turista che attraversa la campagna in pullman. Il paesaggio è brullo e nei campi si vedono spesso grandi cumuli di sterco, che secondo una fonte diplomatica, che ha preferito rimanere anonima, sarebbero l’estremo tentativo da parte dei contadini di concimare il terreno in assenza di bestiame, con le proprie feci. Così aumentando le probabilità di un’epidemia di colera.
I concetti racchiusi nella filosofia dello Juche, l’ideologia nazionale che unisce teorie relative all’autosufficienza dello Stato con il materialismo storico di stampo marxista, si rispecchiano nell’architettura della capitale. Sin dall’inizio c’è stata la volontà di far diventare Pyongyang un monumento a tout-court al socialismo. La Torre dello Juche è la più alta costruzione di roccia esistente al mondo, ci tengono a far sapere le guide che accompagnano perennemente chi viaggia qui. E poi l’arco di Trionfo voluto da Kim il Sung e bla bla bla.
Esiste tuttavia un lato di Pyongyang che il turista può solo intuire, una prospettiva storica e sociale che richiede uno studio più approfondito, come quello effettuato da Collins per Human Rights North Korea.
La più dura vertenza industriale italiana, in piedi da 4 anni con una mobilitazione senza tregua. Si deve dare un futuro occupazionale al Sulcis, la provincia più povera d’Italia, sempre più povera, dice sfilando il leader Fim Marco Bentivogli che alla politica ricorda che “se perdono i lavoratori ex Alcoa perdiamo tutti“. Il corteo invade di rumori il centro di Roma, da Largo Argentina piazza Argentina arriverà davanti a Montecitorio per scandire la rabbia dei lavoratori per incontrare i delegati del governo e intravedere all’orizzonte una soluzione. Fischietti, tamburi, trombe e tanti slogan: “non molleremo mai” e “Sulcis inglesiente uniti nella lotta, il posto di lavoro non si tocca“, si legge sullo striscione che apre il corteo, non privo di tensioni. Durante il sit-in a Montecitorio un operaio è stato soccorso per un malore, ma ha subito ripreso conoscenza. In contemporanea a Cagliari, sotto il palazzo della Regione in viale Trento, è in corso la “mobilitazione del Sulcis”. In piazza ci sono Cisl, i movimenti Zona Franca, Partite Iva, commercianti e artigiani, studenti e disoccupati. Tra le richieste alla Giunta, un commissario per la vertenza Sulcis e l’avvio del Piano Sulcis per riprendere la produzione di acciaio ferma dal 2012.
Entrati dalla porta e usciti dalla finestra. Sono gli uomini più ricercati di Roma, i due cittadini romeni protagonisti della rocambolesca evasione dal carcere di Rebibbia, dove erano ristretti perché rispettivamente accusati sequestro di persona con morte e rapina. Nella prima serata di domenica hanno segato le sbarre della finestra del magazzino in cui gli era permesso lavorare, si sono calati con le lenzuola e hanno poi scavalcato il muro di cinta e la ringhiera, guadagnando la libertà, o qualcosa che vagamente le somiglia, tipo la Tiburtina. Lo hanno fatto in barba ai soli due agenti chiamati a sorvegliare i 150 detenuti di quel reparto, secondo ciò che hanno rivelato i sindacati di polizia penitenziaria nel dar pubblicamente la colpa dell’evasione al sovraffollamento carcerario e al numero inadeguato di agenti. Una fuga rocambolesca finita in giallo, vista la cattura in un appartamento di Tivoli prima annunciata e poi smentita.
A Rebibbia attualmente sono detenuti 1375 detenuti, nulla di paragonabile ai numeri pazzeschi di qualche anno fa, ma comunque circa 160 in più di quanto previsto. Di questi detenuti metà sono tossicodipendenti e un terzo di cittadinanza straniera, la stragrande maggioranza è dentro per motivi di droga o per reati contro il patrimonio. Qual è il numero degli agenti? Inferiore a quello previsto in pianta organica ma, soprattutto, sono molti di meno di quelli che risultano sulla carta. Molti sono dispersi nelle maglie della burocrazia, a rivelarlo una fonte interna al dipartimento, che ci porta a visitare diversi reparti della casa circondariale nel quartiere che fu di Pier Paolo Pasolini e che oggi è salutato dal mammuth del fumettista Zerocalcare.
Il murales del fumettista Zerocalcare, disegnato all’ingresso della metro Rebibbia a Roma
Fra questi, anche il G11, il settore in cui è avvenuta l’evasione, riservata a detenuti cosiddetti comuni ammessi al lavoro. Il reparto ha anche una zona di passeggio, campi da calcio e spazi aperti ma è complessivamente chiuso su tutti i lati, tranne uno: il cielo. Sinonimo di libertà per eccellenza, è proprio il cielo il primo complice dell’evasione che gli agenti ti raccontano se gli chiedi di evasioni. Nei racconti è come se fosse stato ieri, ma in realtà avvenne nel 1986 a novembre. A scappare come in un film furono il franco – tunisino André Bellaiche e Gianluigi Esposito, estremista nero legato alla banda della Magliana. I due uscirono da Rebibbia appesi ai pattini di un elicottero della Croce rossa guidato da banditi francesi. In realtà ce ne sono stati diversi altri da allora, troppi, ma il personale dell’istituto non ne parla volentieri, per motivi più che comprensibili.
Continuando a passeggiare si arriva alla G12 e poi alla G13, dove il silenzio prima degli agenti ti spiegano che siamo in zona riservata a detenuti in regime di carcerazione man mano più dura, dall’isolamento fino al 41bis destinato ai boss mafiosi. Non lontano è orario di colloqui. Per chi ha bambini sotto i 15 anni tutti i colloqui sono all’aria verde, il cui accesso è stato allargato non solo a chi ha figli. All’ora di pranzo due tre gruppetti di detenuti è assembrato davanti al cannellone rosso, molti fumano nervosamente, poi gira la chiave grande ed entrano i loro parenti, l’abbraccio con figli moglie e fidanzate è tutt’altro che discreto, un uomo di mezza età stringe fino a quasi sollevarla l’anziana madre: la gioia riesce ad annidarsi anche all’interno delle sbarre.
Ai tavolini di legno e sotto i gazebo si parla fittamente e non è raro scorgere sorrisi, nella stessa ora d’aria nel 1982 si incrociavano personaggi come Peppe Dimitri, Salvatore Buzzi, Massimo Carminati e persino Gianni Alemanno, in quel periodo detenuto con l’accusa di aver lanciato di una molotov contro l’ambasciata dell’Unione Sovietica. E’ l’antico prologo di Mafia Capitale e dei fatti che in questi mesi sono sotto processo proprio nel bunker adiacente al carcere. All’interno c’è solo una sala paragonabile a quella gremita di giornalisti e avvocati, è la sala teatro protagonista di Cesare deve morire il film Orso d’oro del 2012 diretto dai fratelli Paolo e Vittorio Taviani che narra la messa in scena del Giulio Cesare di William Shakespeare da parte dei detenuti di Rebibbia diretti dal regista teatrale Fabio Cavalli.
La targa posta di fronte al teatro circondariale di Rebibbia
Una targa ricorda con orgoglio quella bella pagina ed è lo stesso orgoglio di chi mostra il Penalino ai visitatori, l’area G8 attorno alla quale c’è l’attrezzata sala palestra, l’aula musicale e il laboratorio di falegnameria, fino al call center dove sono assunti circa 12 detenuti grazie ad un accordo fra ministero di Grazia e Giustizia e l’ospedale pediatrico romano Bambin Gesù. I detenuti, tutti con condanna definitiva medio – lunga, lavorano regolamente stipendiati (salari fino a mille euro al mese) per conto di un consorzio che fornisce al Bambin Gesù il servizio di call center al centro unico di prenotazioni. Si risponde al telefono dal lunedì al venerdì e il sabato mattina fino alle 13.
“Grazie a questa cuffietta abbiamo trovato un nuovo scopo per vivere”.
Un uomo giovane è anche fra i più anziani di questo servizio. Gli occhi chiari gli brillano quando ne parla. Le voci da fuori che gli arrivano in cuffia è l’unica libertà a cui possono ambire le sue giornate, perciò cerca di svolgere il servizio al meglio delle sue possibilità. Grazie all’esperienza maturata nel tempo è riuscito a far avere una visita per un bambino prima del tempo normale di attesa, prendendo a cuore un caso delicato che altrimenti rischiava di rimanere affogato nei tempi della burocrazia ospedaliera. Vite spezzate e vite salvate, come il turbinio di cancelli che ti accompagnano all’uscita dopo aver recuperato cellulare e documenti dagli agenti.
La libertà somiglia al vento sulla faccia, persino sulla Tiburtina.
Un giovane monaco greco con gli occhi piccoli guarda severo chi ha di fronte e incute un po’ di paura. Sarà sulla trentina, ha la barba tutta arruffata che lascia intravedere qualche buco. Un alto signore con capelli rossicci sorride, forse divertito da uno sbadiglio o dai pensieri che nasconde.
Monaco ortodosso sul traghetto che porta a Dafni
Sono le tre e mezza di mattina quando la gigantesca recita prende forma: come un grande formicaio la chiesa ortodossa, eretta al centro di questo monastero del X secolo d.C., si popola di decine di monaci che in un movimento frenetico entrano ed escono. Segno della croce (prima a destra poi a sinistra) ed entrano. Segno della croce ed escono. Si può solo essere spettatori: ai cattolici (l’opzione ateo nemmeno esiste) è permesso solamente di stanziare nel nartece, quello che una volta era il luogo di pentimento. Come se venisse da un mondo lontano, il kyrie eleison, come una litanìa, va avanti fino alle sei. La zuppa di patate, le tre zucchine e il pane nero vanno mangiate in circa quindici minuti, il tempo che un monaco impiega per leggere la vita del santo del giorno: oggi è Santa Teodora. Questo è il monastero di Karakalou. Questo è il Monte Athos.
Tra tutte le parole, “contemporaneo” è tra le più false e ipocrite. È l’illusione di poter unificare tempi differenti, quando invece in ogni epoca convivono epoche diverse. Qui sul Monte Athos oggi non è il 10 giugno ma il 28 maggio, non sono le 22.15 ma qualcosa come le 01.15. Dall’alto della torre che sovrasta il monastero George, un monaco olandese di origini africane, racconta la storia di questo posto e i fondamenti della fede ortodossa.
«Non si ha né il tempo né l’interesse di studiare i massimi sistemi» mi dice sorridendo «qui bisogna fare, bisogna mettere in pratica la vita dei santi».
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Ognuno «mette in pratica» la propria vita senza chiedere troppo agli altri e il senso di comunità si perde nella ricerca individuale. Da visitatore, bisogna sforzarsi per ricercare «la gioia di vivere» nella ritualità dei gesti e delle preghiere, nel silenzio durante i pasti e nelle parole risicate prima di entrare in chiesa. Gli affreschi sulle pareti dello skiti (comunità di monaci) rumeno Timos Prouromos non aiutano: donne lapidate e uomini scannati, teste mozzate e crocifisse ovunque. Il diavolo è più presente di Cristo su queste mura.
Eppure il posto agevolerebbe la ricerca. Il Monte Athos è una Repubblica Monastica che si estende lungo la “terza gamba” della penisola Calcidica, Grecia nord-orientale, per 50 km di lunghezza e 8-12 km di larghezza. Querce, uliveti, conifere e castagni ricoprono i circa 335 km² del territorio. Il divieto di balneazione è più di una punizione per chiunque abbia visto il mare che bagna le coste rocciose, ma la vera condanna riguarda le donne: non ammesse. Al sesso femminile è proibito mettere piede sul Monte Athos, siano esse persone o animali. Eccezion fatta per cani, gatti e galline, a cui viene dato comunque un nome maschile.
È il contemporaneo che è messo in crisi. Che questa fosse una terra di contraddizioni non era difficile intuirlo. I monaci che accompagnavano le comitive di russi con portafogli pesanti sono campioni di trasformismo: erano professori che portano gli alunni in gita ed erano puttane che si fanno pagare il paradiso.
Anche se mostrano sempre lo stesso, Scampìa è mille colori diversi. La festa del Carnevale sociale organizzata dall’associazione culturale “Gridas” è alla 34esima edizione, il Napoli capolista gioca alle 15 ma il baccano che si sente a Scampia fa presagire già dalle dieci del mattino che la partita di Higuain e compagni passerà in secondo piano. La testa è altrove. E’ rivolta a quel mondo schiacciato al punto da sembrare un cervello che guida il corteo. Una carovana multicolore che invade Scampia. Via Aldo Fabrizi, Gian Maria Volontè fino a viale della Resistenza. Circa quattro chilometri e mezzo di sorrisi.
Alla stazione della metropolitana la scritta “Scampia” ha perso tutte le consonanti, lo striscione posto alla sua destra invece è ancora tutto intero e dice “No al Ddl Cirinnà”. Alla sede del Gridas alle 10 c’è Mirella, moglie di Felice Pignataro con cui realizzò nel 1983 il primo Carnevale sociale nel quartiere. Il titolo era “La vita contro la morte”, oggi, Felice non c’è più e la sua assenza pesa a tutta Napoli. Mirella, vestita di rosso, ha tante energie, troppe, in barba all’età. Lei è appena la metà della grancassa con cui accompagna le bande musicali, suona un po’ con tutti ma non si ferma mai e sorride sincera e disinvolta, felice.
A Scampia nel serpentone colorato ci sono tutti. C’è qualche inglese, qualche tedesco, qualche spagnolo. Rom e sinti, africani, magrebini e qualche burka. Il mondo-cervello che guida il corteo si schiaccia e queste distinzioni, i confini e i conflitti si smarriscono nella “Pangea – la deriva degli incontinenti”. Questo il tema per la 34esima edizione. Il Carnevale sociale di Scampia ribalta il mondo. Il primo segno sono i colori del quartiere. La schiera di palazzi uguali per forma, dimensione e colori cede al pensiero variopinto. Da un mese scuole, volontari, associazioni culturali con ago e filo cuciono stoffe per i frac con la murga Baleno guidata da “Gennaro Presidente”. Un po’ tutti si esercitano a suonare rullanti, timpani, casse ma anche padelle e non mancano dei grandi mestoli da adoperare per il dong.
Il secondo ribaltamento sono le finestre. Quelle aperte tutto l’anno, oggi sono chiuse. Al contrario, le finestre chiuse e intimorite, invece, si spalancano per una sana boccata d’aria. Le signore suonano nacchere, mezze lune e ballano dall’alto. I bambini lanciano i coriandoli, le madri le caramelle, i padri tirano i figli sulle spalle. Il Carnevale dal basso si affaccia alla finestra con dei trampoli e interagisce con la popolazione che ricambia.
“Gennaro il presidente” guida i ragazzi della murga. Le murghe sono allegre compagnie che vengono da Roma, Battipaglia, Genova, Vicenza e così via. C’è l’Arci Scampia, squadra di calcio del quartiere.
“Se penso che non avevamo neanche un pallone, una maglietta o un pallone, oggi abbiamo costruito una società con 40 volontari. Ne è valsa la pena spendere trent’anni della nostra vita per Scampia.” Ricorda Antonio Piccolo, presidente di Arci Scampia.
C’è il sindaco Luigi De Magistris che cerca di non occupare la scena, ma la voce si sparge con facilità e le urla “Giggino” superano i “sindaco” e dopo poco è di fatto circondato pacificamente. Ad un tratto, Via Mastroianni cede a Largo Battaglia e i simboli negativi prendono fuoco. Fuori dalla vampata restano i simboli e le maschere positive da portare al campo rom di Via Cupa Perillo, ad accogliere il corteo, una bambina vestita da sposa. Poi il concerto e i bambini, curiosi, provano a prendere un po’ tutto: cappelli, bacchette, uno addirittura il monociclo. I murgheri inseguono i bimbi con la speranza di recuperare qualche pezzo, ma, in fondo, poco importa. Alla fine il corteo raggiunge “O Mammut” in piazza Ciro Esposito, il ragazzo del quartiere morto in seguito agli scontri capitolini nel maggio del 2014, la scritta è inequivocabile: “Quando la felicità non la vedi, cercala dentro”, dietro c’è un passeggino, l’allegria cede all’inquietudine, sono lì, ancora lontane e già vicine: le Vele di Scampia.
«Non posso partire con voi, mio figlio si cresima. Peccato». Gira il volto, un po’ sconfitto.
«Sarà per la prossima. Per adesso, facciamoci un buon cognac. Fa sempre bene, scalda i cuori».
Lo consola l’amico con passaporto e taccuino nella tasca interna della giacca.
A restare con i piedi per terra è Nicolò Carosio, «Nick» come lo chiamavano gli amici. L’uomo-radiocronaca sorseggia il bicchiere nella hall dell’Hotel Touring mentre conversa con il collega, Renato Casalbore, pronto. Fuori il tempo è grigio, dal telefono dell’albergo piovono incessanti «mi dispiace», «ho fatto il possibile ma sai com’è, ci rifaremo presto». E’ il capitano del Torino, Valentino Mazzola che parla alla cornetta per scusarsi personalmente con chi non può partecipare al viaggio in trasferta per Lisbona. «Ci sarà un’altra occasione» e appoggia la cornetta. Mazzola raggiunge al cantuccio Nick e Renato. «Va meglio?», chiede Casalbore. «Così così», risponde Valentino. Mazzola è febbricitante da qualche giorno e la sfida sul terreno del Benfica sarebbe a rischio per qualsiasi giocatore considerato nella norma. Inutile dire che il capitano avrebbe giocato anche con una gamba, figurarsi a pensare che non avrebbe preso le ali per planare in Portogallo al fianco dei compagni. In realtà, potrebbe evitare, la partita è un’amichevole organizzata dalla Olivetti per i dipendenti portoghesi, ma il suo Francisco Ferreira, capitano dello Sport Lisboa Benfica, ha chiamato e Valentino fatica a dire di no agli amici.
«Un altro cognac?»
Casalbore è così. Non è fedele al whisky quanto Thomas Barnes, leggendario caporedattore del Times dell’800, ma ha la stessa velocità di scrittura e girovaga la notte, ma, soprattutto morirà sul lavoro proprio come il collega londinese.
Appena finita la guerra, Casalbore ha deciso di fondare un settimanale e di esserne il direttore. Il settimanale ha successo e diventa un bisettimanale, poi esce tre volte a settimana e piano piano si avvia a diventare quotidiano. Si chiama ancora oggi Tuttosport e in questi anni rappresenta il ravvivato entusiasmo dell’Italia di Coppi, Bartali e del Grande Torino.
Renato è partito da Salerno, in Campania ha mosso i primi passi nel giornalismo agli ordini della scuola napoletana, studi classici e un po’ di corse in pantaloncini sui campi che oggi fatichiamo a definire di calcio. Poco dopo i vent’anni con destinazione Torino. Fa l’impiegato amministrativo alla Stampa, per mettere ben presto la firma alla Stampa Sportiva e dopo aver ricoperto tutte le possibili mansioni, è promosso direttore sportivo della Gazzetta del Popolo di Torino. Firma brillante e rispettata, giornalista equilibrato e coerente, l’inchiostro non macchia, garbato e signorile domina con competenza anche gli sport minori, si trasferisce ai piedi della Mole sette anni prima della nascita della Salernitana che ben presto avrebbe avuto una divisa dello stesso colore del Grande Torino.
Il gomito di Casalbore è affiancato da quello di Carlo Bergoglio (a detta di Aldo Biscardi sarebbe il cugino di Papa Francesco). Popolare e divertente, «Carlin» parte da caricaturista ma in carriera, come Renato, percorre la trafila giornalistica, diventa un caposcuola del giornalismo sportivo torinese e in futuro sostituirà Casalbore alla guida del giornale.
L’ultima cronaca del fondatore di Tuttosport è datata primo maggio 1949 e racconta del prezioso punto guadagnato contro l’Inter, lo scudetto è dietro l’angolo.
«voglio dire: saper essere tempestivamente al momento giusto, sempre aderenti alla situazione. Ed era una situazione difficile per il Torino».
E poi due maledettissime righe:
«Domani i campioni partono per Lisbona per incontrarvi martedì prossimo lo Sporting, campione del Portogallo. Partono a cuore leggero».
Aderenza, tempestività, momento giusto. I campioni partono per Lisbona. Partono, ebbene sì, Renato non dovrebbe percorrere la scalinata e salire a bordo del Fiat G212, ma, il giovane giocatore, Giuliano, ha problemi con il passaporto ed ecco che Renato dice «partiamo». Con lui anche i colleghi Renato Rosatti e Luigi Cavallero.
Intanto l’angolo nella hall dell’albergo diventa più spazioso e confortante.
«Due minuti e vi lascio», dice Carosio, «così Valentino può andare a dormire e anche tu, caro Renato, se non fai, al solito, le ore piccole tanto di guadagnato».
Si attende l’indomani ancora un po’, in barba a Carosio. Poi Lisbona, poi la tragedia e lo schianto, un foro circolare di quattro metri sventra il bastione della Basilica, il Don disperato vaga tra le macerie: Superga. Ore diciassette e zero tre. I corpi sono a pezzi, le cose no, quelle sono intatte. C’è una cartolina firmata con la calligrafia dei bambini delle elementari, forse peggio. Sono gli autografi dei calciatori granata, l’hanno firmata tutti ed è destinata alla moglie di Renato Casalbore. Il timbro è del 4 maggio 1949. In coda, prima di salire sull’aereo si sente una battuta:
«Arriveremo prima noi della cartolina»
Intanto a Salerno c’è un problema. Il dopoguerra come in tutte le città è segnato dalla defascistizzazione delle strutture comunali. Lo “Stadio Littorio” diventa “Stadio Comunale”, ma, dopo Superga, i giornalisti in città inizieranno chiamarlo nei loro resoconti “Stadio Renato Casalbore”. La questione è singolare, visto che il Comune aveva intenzione di dedicare lo stadio a Donato Vestuti, giornalista e fondatore della prima squadra di calcio in città. Il sindaco Mario Parrilli decide di nominare lo stadio Donato Vestuti, ma la piazza Renato Casalbore.
La Cambogia che ho conosciuto mi fa pensare a una pancia a due ombelichi da cui sgorgano due storie di segno opposto: la storia del nord, che racconta la voce dei padri, antica, imperiale, e la storia del sud, che dà voce ai figli, omicidi, irrazionali.
Imponenti e misteriose, le città di Seam Reap e Phnom Penh –i due ombelichi – sono l’una lo specchio rovesciato dell’altra; il parco archeologico di Angkor è il risultato straordinario di una progettualità antica, che ha inciso la terra con le sue radici per l’eternità; la capitale, invece, è un grande villaggio appoggiato, più volte cancellato, segnato da numerosi vuoti, come un mercato a fine giornata.
I destini delle due città, così lontane e aliene, si sono intrecciati alla fine del XIX secolo, quando il governo coloniale francese con base a Phnom Penh ha avviato i lavori di restauro cominciando a interessarsi “alla città di pietra nella giungla”, rimasta sepolta nella foresta per secoli .
Da allora Angkor Wat è stato visitato infinite volte ed è considerato il più grande e il più misterioso parco archeologico del mondo: intrecciati nei rami di alberi secolari si nascondono templi di pietra imponenti, costruiti tra l’802 d.C. e il XIII secolo, sparsi in una foresta di centinaia di chilometri, dove un tempo il popolo Khmer ha scritto la sua storia imperiale. Superato il tornello d’entrata si varca una soglia tra il prima e il dopo, tra il mondo della luce e il mondo delle ombre, l’aria si fa fitta, la strada si raffredda e si compatta, gli alberi si moltiplicano e ci si raccoglie in un silenzio religioso, contemplativo, concentrato. L’Angkor Wat, il tempio che ha fatto sognare generazioni di archeologi, viaggiatori e scrittori è lì, silente e maestoso come un vulcano, bagnato dalle acque del fossato che lo circondano come una corona d’acqua, dove non è difficile immaginare il rumore dei passi dei sacerdoti e della corte imperiale riunita in preghiera.
Lasciare Seam Reap impone uno strappo che riporta bruscamente all’oggi e il viaggio verso Phnom Penh sembra una discesa agli inferi. Ore e ore di poco e nulla: qualche sparuta casa su palafitta lungo l’unica strada percorribile, polvere, campagne ancora minate a perdita d’occhio, qualche animale magro al pascolo, una ferrovia dismessa dal regime negli anni ’70. Lontana dagli scenari onirici di Angkor e dalla dimensione rassicurante del passato mitico, la capitale è un richiamo violento al passato recente, il memorandum implacabile di una memoria colpevole. Il carattere odierno della città di Phnom Penh è drammaticamente legato al genocidio perpetuato dai Khmer Rossi tra il ‘75 e il ‘79, che ha dimezzato la popolazione adulta cambogiana di allora, lasciandosi alle spalle un carcere-museo e un campo di concentramento, oggi monumento della memoria.
La vita della capitale è povera e malinconica, l’odore di cibo surriscaldato al sole inonda l’aria dappertutto, il Mekong è grigiastro e inquinato e i quartieri gravitano intorno palazzo imperiale, ancora centro ideale della città. Un paese di bambini soldato educabili e obbedienti messi a capo dei campi di concentramento – questo il piano dell’Armata Rossa – in cui gli adulti, considerati irrimediabilmente corrotti dall’istruzione e dai vizi del capitalismo, venivano imprigionati e uccisi.
Un paese che oggi ufficialmente si vergogna di loro, ma sotto sotto ne fa ancora degli eroi.
Mamma nun mi mannati a la Pirrera, ca notti e jurnu mi pigliu di tirrura. Torniamo alla “Zolfara Grande”, sul confine tra i territori di Sommatino e Riesi in provincia di Caltanissetta, con nelle orecchie le nènie e i lamenti di quei carusi che scrissero la storia mineraria della Sicilia orientale. Oggi ultranovantenni recano nella voce quell’affanno tipico di enfisemi altamente invalidanti, nei solchi scavati nella pelle e negli arti laceri o smozzati l’indelebile marchio di una giovinezza spesa nelle viscere della terra a cavare dalla pietra, mediante fusione, la cosiddetta “gialla superiore”. Era lo zolfo pregiato che dall’arcaica periferia nissena alimentava i mercati dell’opulento Ovest.
Libretto personale del minatore, anno 1899
LA PIRRERA GRANDE Le testimonianze degli ultimi zolfatari sopravvissuti insieme al ritrovamento di unlibretto personale di lavorodalle miniere di Sommatino nell’anno 1899, ci consentono di raccontare sfiorandole appena le peripezie affrontate dalla meglio gioventù nissena nella “pirrera” che fu prima dei principi Lanza di Trabia e Pignatelli, poi di Stato e, dunque, Cosa Nostra (Leggi la nostra precedente inchiesta: ‘U Pirtusu). Si scendeva giovanissimi, dai 7 ai 12 anni, anche se testimonianze parlano di carusi ancor più piccoli, la cui identità era celata da libretti di lavoro falsificati oppure di proprietà di ragazzi più grandi. «Andavamo a carriare, ccu lu sacchitiaddru, ‘nti li calaturi», racconta il novantaduenne Angelo Di Maria che nella zolfara perse il fratello. Nel 1899 le ore di lavoro erano ufficialmente nove. La “sciolta” mattutina durava dalle 6 alle 16, quella notturna dalle dalle 18 alle 3, anche se «tale orario potrà essere modificato dai capo-servizio a seconda delle esigenze del lavoro». Non se la passava molto meglio chi faticava all’esterno, ad esempio, come manutentore nelle officine della grande città mineraria: Dal levare al cadere del sole, con un riposo per la colazione. Si lavorava a giornata o a cottimo per una misera paga estremamente sensibile alle fluttuazioni del mercato dalla quale venivano immediatamente detratti i «diritti di scrivania, le spese di contabilità, quelle di riparazione e acciaiatura per gli utensili da lavoro». Erano ambienti malsani ed estremamente pericolosi. Si temevano le esplosioni di grisoù, si respirava antimonio, si era sottoposti a prevaricazioni e abusi soprattutto a sfondo sessuale per cui, molti anni dopo, le vittime diventeranno aguzzini. La mafia o «la banda», come la chiama Angelo Di Maria, in miniera era soprattutto “partito”, forza viva e attiva capace di far spostare questo o quel minatore da una mansione all’altra, da un cantiere all’altro soprattutto a seconda della sua pericolosità:
ZOLFATARI D’ORO Dopo la dismissione, soprattutto al fine di evitare disordini sociali, l’exit dal settore solfifero, da quel capitalismo zombie senza più significato, produsse nei tre paesi del triangolo zolfifero – Sommatino, Riesi e Ravanusa – pensioni di tutto rispetto, rimpinguate da assegni per infortuni e soprattutto da “buone uscite” fino ai 3-400 milioni delle vecchie lire anche per chi nel sottosuolo non era mai sceso. Chi aveva denaro lo investì nel mattone e nella terra, per due generazioni unico sbocco per paesi totalmente svuotati della propria identità. Le famiglie dei minatori continuarono a cullarsi sulle reversibilità, rifuggendo ogni rischio ma annullando di fatto ogni prospettiva di sviluppo e imprenditorialità. Paesi che, in assenza di sviluppo, persino Cosa Nostra sembra aver snobbato. Così, a contatto con quegli ecomostri di un non lontano passato, gli ex minatori sembrano quasi rimpiangere l’età d’oro dello zolfo siciliano: «Poveri in gioventù, ricchi in vecchiaia – scherza l’ultranovantenne Angelo Di Maria – sono più di 40 anni che non lavoro e prendo la pensione, grazie zolfo».
Nel Califfato c’è un uomo misterioso, ha un nome strano e un passaporto tedesco in tasca. Al Baghdadi in persona l’ha messo a capo del cosiddetto Ministero della Pubblica Istruzione dell’autoproclamato Stato Islamico e tutti gli insegnanti che operano nei territori sotto la bandiera nera di Daesh in Siria e Iraq devono fare i conti con la sua parola e il suo volere.
Bambini in un campo d’addestramento del Califfato, scatto dell’Associated Press.
“Giuro su Dio che non volevo questo lavoro, non mi piace lavorare in uffici. Sono venuto qui per combattere gli infedeli “.
Raccontano che a Mosul, in piedi nel cortile che unisce la serie di edifici pubblici destinati al ministero, abbia arringato la folla di dipendenti e impiegati con queste parole di fuoco. E’ diventato ben presto famoso e rispettato con il nome di Dhul – Qarnayn; letteralmente significa “colui che possiede due corna” e nel Corano indica un antico sovrano che ha combattuto le ingiustizie e protetto il suo popolo contro gli infedeli. Alcuni storici ritengono che questo è stato uno dei tanti nomi di Alessandro Magno, ma chi contesta la teoria considera Dhul-Qarnayn semplicemente il nome di un uomo saggio del passato che educava il suo popolo alla religione. A seguire un sacco di puttanate esoteriche, fatto sta che se la trovata del nome serviva a incuriosire e ad ammantare di mistero la sua figura, la missione può ritenersi compiuta. Nessuno sa il vero nome di questo ministro, ma tutti stanno imparando a conoscere le sue azioni e le sue decisioni in materia di educazione. Educazione alla guerra più che altro, visto che le poche cronache del suo insediamento raccontano di un discorso fatto di cifre del dipartimento dell’istruzione destinate a investimenti sulle armi. Il giornalista Giulio Battiston, spiega su Pagina99 come il Diwan al – Taalim, il ministero dell’Educazione, abbia cambiato radicalmente ogni aspetto possibile, fino ai nomi delle scuole, che oggi inneggiano anche ad al – Zarqawi il giordano fondatore di al Qaeda in Iraq.
Il tedesco dell’Isis lo conosceva bene, e in poco tempo è divenuta una temuta celebrità nel nuovo Stato Islamico. Questa fantomatica figura ministeriale fa la spola da un dipartimento all’altro, da una scuola all’altra, per annunciare indiscutibili rivoluzioni, ne sia un esempio l’università di Mosul, una delle più grandi e antiche istituzioni educative in Iraq, che sotto il regno del Duocorno si sta lentamente trasformando in una struttura per la formazione estremista. Legge, Scienze politiche e Scuole di belle arti sono state chiuse a favore di nuovi corsi di studi islamici e l’intero piano di studi è stato stravolto per far spazio a materie radicali sulla religione. Arte, musica, filosofia e studi sociali sono state annullate dai programmi scolastici e la geografia, la storia e le lezioni di letteratura, così come qualsiasi insegnamento del cristianesimo, sono stati messi fuori legge. Le espressioni “Repubblica dell’Iraq” o “Repubblica della Siria” sono state cancellate dai testi e l’uso di canzoni o poesie con connotazioni di patriottismo sono state vietate. Restano in piedi solo le materie di base come la matematica, l’arabo e l’inglese. Agli studenti è permesso anche studiare chimica e fisica ma solo perché queste erano le leggi usate da Dio. Nei libri di scienza, qualsiasi riferimento al darwinismo o all’evoluzione è stato eliminato e sostituito da frasi che indicano infatti Dio come creatore di tutto, anche dei programmi scolastici.
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“Non è importante costruire scuole e università, è molto più importante per sconfiggere i nemici dell’Islam“.
Alle donne è stata conservata la possibilità di frequentare le università, ma non di farlo insieme agli uomini. Le femmine il lunedì, i maschi martedì. Non poteva mancare la divisa, che in questo prende spunto da quella indossata dai talebani afghani: lunga camicia e pantaloni larghi prodotti in vasta scala anche a dimensioni più piccole in modo da poter essere indossati anche alle medie, dove inizia la campagna di scouting per arruolare nuovi combattenti. Per le ragazze è ovviamente previsto il niqab – il velo tradizionale che copre quasi tutto il viso, lasciando solo gli occhi visibili – ma secondo il ministro anche a 10 anni le ragazze della scuola dovrebbero indossare l’hijab, il velo che copre la testa e il torace.
“Questo curriculum di studi creerà soltanto una generazione di estremisti e assassini“, hanno anonimamente bisbigliato alcuni genitori al cronista di NiquashKhales Joumah, ma la possibilità di ribellarsi è pari allo zero. L’ambiguità di Dhul-Qarnayn si incarna anche in un metodo spesso affabile, raccontano che è solito alle battute di spirito con il personale con il quale si rivolge nel suo morbido accento egiziano, trovando anche occasione di pregare con loro, dimostrando modestia e umiltà pronte ad essere messe da parte al minimo segno di disobbedienza.
Uno degli insegnanti a Mosul, Wajih, tornando a casa ne ha descritto la sua figura alla famiglia. “E’ un gigante con un grande barba folta, e non ha nemmeno 30 anni”.
La figlia più piccola stava disegnando mentre l’insegnante proseguiva il racconto della visita del ministro alla moglie; quando ha finito sul foglio è comparso un mostro con due corna e una spada.
Nell’estate del 1931 il Cosenza Calcio è pronto ad affrontare un nuovo campionato di Prima divisione, su per giù ciò che oggi chiamiamo Lega Pro. La squadra viene inserita nel girone F, quello meridionale, insieme a formazioni come Messina, Palermo, Catania, Salernitana, Reggina e Catanzarese. L’avvocato Tommaso Corigliano, presidente della compagine, desidera il salto di qualità e ingaggia giocatori di indiscusso valore. Tra questi spicca il nome del centrocampista torinese Vittorio Staccione, il cui curriculum fa sognare gli sportivi cosentini.
Il calciatore torinese Vittorio Staccione in una rara foto dell’epoca
Ha 27 anni e viene da tornei fantastici trascorsi prima nella sua Torino, dove vince uno scudetto poi revocato per il caso Allemandi (combine), e poi a Firenze. Le cronache del periodo raccontano di un Vittorio poco entusiasta di quel suo trasferimento in Toscana; oltre ad allontanarsi da casa, deve sopportare la delusione di un declassamento di categoria che considera ingiusto. Ma la compagine viola è ambiziosa e col tempo Staccione si ambienta perfettamente diventando un pilastro e uno dei giocatori più amati della squadra del marchese Luigi Ridolfi, grande amico di Benito Mussolini nonché fascista della prima ora. Qui, durante una festa di piazza, conosce una ragazza di Fiesole, Giulia Vannetti, che diventerà l’amore della sua vita. I due si sposano e vanno a vivere insieme. Sono anni meravigliosi che culminano, nella stagione 1930-1931, con la tanto agognata vittoria del campionato. Firenze è in festa, le strade della città sono prese d’assalto dall’entusiasmo dei tifosi per un traguardo atteso a lungo.
Ma a Vittorio non è concesso di gioire.
Nelle ultime gare di quella strepitosa cavalcata, è sceso in campo con il cuore a pezzi. Da pochi mesi la sua Giulia non c’è più. E’ morta durante il parto insieme alla bambina che aveva in grembo, abbandonando suo marito nel momento più felice. Il dolore di Vittorio Staccione è immenso, il mestiere di calciatore viene svuotato di senso. La Fiorentina lo capisce e, crudelmente, andando contro la volontà del popolo gigliato e dello stesso calciatore, retrocede Staccione di ben due categorie. E’ il momento di vestire la casacca del Cosenza.
Per l’avvocato Corigliano si tratta di un colpo di mercato sensazionale. Per il calciatore, invece, è una botta tremenda, incomprensibile. L’ennesima. In un attimo quel piccolo ragazzo piemontese (è alto appena 1,71), da una vita da Serie A, è passato alla depressione e all’anonimato più cupo. Non ne può più, vorrebbe lasciare il calcio e mandare tutti a quel paese, ma succede qualcosa di inaspettato. Magicamente, quella minuscola e insignificante realtà del Sud riesce a fargli cambiare idea.
La targa in marmo dedicata a Vittorio Staccione posta sulle mura dello stadio Zini di Cremona
Nel piccolo impianto sportivo del “Città di Cosenza“, inaugurato proprio in quell’autunno (successivamente diventerà “Emilio Morrone“), Staccione insieme ai suoi compagni si rende protagonista di anni memorabili. Grazie alle sue doti tecniche e all’esperienza accumulata a Torino e a Firenze, guida la mediana con intelligenza, senza risparmio, ma entra nel cuore dei tifosi rossoblù soprattutto per la sua voglia di non arrendersi mai, anche al cospetto di avversari superiori. Oltre al calore della piazza bruzia, a fargli dimenticare i dolori concorre un suo grande amico e compagno di squadra in granata, l’ungherese Mihály Balacics, chiamato dall’avvocato Corigliano a guidare la panchina rossoblù. Il Cosenza nella stagione 1932-1933 raggiunge un incredibile terzo posto, andando vicinissimo alla promozione. Pur mancando l’obiettivo più ambito, quella rosa di giocatori tra i quali si ricordano Pampaloni, Fenili e De Martino, entra nei cuori della tifoseria cosentina per l’impegno e l’attaccamento alla maglia mostrati in ogni partita. Staccione è alla soglia dei 30 anni e sta vivendo una seconda giovinezza in una terra alla quale mai poteva immaginare di legarsi così tanto. Quella terra povera, desolata e distante da casa, è riuscita, seppur parzialmente, a curare le sue ferite più profonde, rendendolo più resistente di fronte ai tormenti che, nonostante la giovane età, hanno già segnato il suo cammino.
Ma arriva di nuovo il tempo di partire, anche stavolta a malincuore.
Dopo tre anni in cui totalizza 77 presenze in campionato, lascia la Calabria per andare a giocare con il Savoia. E’ l’inizio del declino. In un solo colpo la sua rinascita diventa un lontano ricordo. Torre Annunziata non è Cosenza e a lui bastano poche settimane per comprenderlo. Non lascia il segno come vorrebbe e, pur avendo appena compiuto da poco 31 anni, decide che è arrivato il momento di smettere con il calcio. Con la mente è perennemente altrove, corre e suda tirando il gruppo durante gli allenamenti, ma ha troppa rabbia in corpo e si chiede continuamente cosa ci faccia lì. Il tormento per la morte prematura di sua moglie è tornato a riempire le sue giornate, il pallone non lo appassiona più. Torna a Torino fra ai suoi familiari e trova lavoro alla Fiat come operaio. E’ il 1935 e per l’ex calciatore Vittorio Staccione inizia una nuova stagione della vita.
Si avvicina alla politica, disapprovando e combattendo l’impero mussoliniano. Il primo marzo 1944 è tra i principali artefici della protesta che porta gli operai delle fabbriche più importanti del Nord a scioperare e a resistere contro i soprusi e le follie del regime fascista. Una presa di posizione dura e da leader assoluto, così come faceva quando giocava a calcio. Gli costerà cara.
L’OVRA, la polizia politica fascista, lo perseguita. Finisce in manette più volte, anche per i suoi legami con i partigiani torinesi e il 13 marzo 1944 entra anche nel mirino delle SS, che lo catturano insieme al fratello Francesco Staccione. Deve essere messo a tacere, non può più rimanere in Italia. Fascisti e nazisti decidono di trasferirlo nel campo di concentramento di Mauthausen – Gusen.
Il campo di concentramento di Mauthausen
Trascorrono mesi terribili. Lentamente. Il lavoro è massacrante e le prevaricazioni subìte quotidianamente dalle SS, che temono il suo carisma contagioso, annientano quasi istantaneamente il suo invidiabile fisico d’atleta. La fatica invade la mente e cancella ogni pensiero legato al passato, anche il più doloroso. Resiste con tutte le sue forze, come era abituato a fare nel rettangolo di gioco, ma in questo campo non basta.
L’orrore del tempo lo uccide un grigio 16 marzo al termine di atroci e lunghe sofferenze per una cancrena alla gamba martoriata dagli incessanti calci dei soldati nazisti. Quelle gambe da mediano instancabile che sono state la sua fortuna e il suo sostegno nei momenti più bui, lo hanno abbandonato a pochi passi dal triplice fischio finale di una guerra assurda e incomprensibile. Il 5 maggio le avanguardie della 3ª Armata americana liberano il campo di Mauthasen. È il 1945 e il secondo conflitto mondiale è ormai giunto al suo epilogo, lasciandosi alle spalle storie di dolore, di rabbia e di pallone. Storie come quella di Vittorio Staccione, il centrocampista che voleva solo resistere.
Tra pochi giorni il Tribunale di Castrovillari sarà chiamato a pronunciarsi in merito alla richiesta di archiviazione avanzata dal pubblico ministero per la posizione di tre carabinieri indagati per la morte di Vincenzo Sapia. Il 29 gennaio, a più di un anno e mezzo da quel tragico 24 maggio 2014, in cui il giovane di Mirto Crosia morì durante un intervento delle forze dell’ordine, quella storia sbagliata potrebbe esaurirsi in una bolla di sapone.
Vincenzo Sapia, morto a 29 anni nella sua Mirto Crosia
Eppure, i numerosi interrogativi che persistono sui tragici minuti di quel sabato mattina di primavera meriterebbero un iter processuale completo, ne sono convinti tutti coloro che vogliono capire come sia morto Vincenzo. I dubbi riguardano principalmente le modalità di intervento delle forze dell’ordine, intervenuti per calmare il giovane e indagati per concorso in omicidio colposo. Nei giorni successivi alla vicenda e a seguito dei risultati dell’autopsia, il caso è stato velocemente archiviato dall’opinione pubblica attribuendo la morte a cause naturali. Questo è anche quello che emerge dalla relazione tecnica disposta dal pubblico ministero, che ha escluso presenza di segni sul corpo riconducibili ad azioni violente o ad azioni di soffocamento. Un semplice arresto cardio-circolatorio che ha stroncato la giovane vita di un ragazzone di 29 anni e di 100 chili.
Una ricostruzione a cui la famiglia Sapia non ha mai creduto, ritenendola incompleta e incapace di far piena luce sulla morte di Vincenzo. Ancora senza risposta, infatti, rimane l’interrogativo su cosa possa aver causato, in un ragazzo giovane che aveva problemi di salute ma non aveva mai sofferto di problemi cardiaci, un malore acuto fino a provocarne la morte. Inoltre, se consideriamo che l’azione di difficile contenimento condotta dai carabinieri in fase di immobilizzazione del soggetto, come pare raccontato anche da alcuni testimoni, sia stata svolta attraverso una presa al collo e una costrizione a terra – modalità molto simili a quelle che portarono alla morte di Riccardo Magherini a Firenze – appare comprensibile da parte di chi ha perso un proprio caro ipotizzare che ci possano essere degli elementi che siano stati presi scarsamente in considerazione nel corso dell’autopsia. Argomenti che i legali della famiglia Sapia vogliono ora portare all’attenzione del giudice. La speranza per i parenti del giovane, infatti, è rappresentata da una nuova relazione tecnica, commissionata dai legali della famiglia Sapia, nella quale la professoressa Emanuela Turillazzi, direttore dell’Istituto di medicina legale di Foggia, analizza la consulenza tecnica depositata dal medico legale dottor Walter Caruso. Una relazione che potrebbe offrire nuovi particolari alla ricostruzione dei fatti. Del resto, l’avvocato della famiglia Sapia, Fabio Anselmo, legale esperto in casi di presunta mala-polizia e già difensore della famiglia Cucchi, Aldrovandi e Magherini e da qualche tempo anche di quella Bergamini, sta mettendo in campo tutta la sua esperienza per cercare di scongiurare il rischio dell’archiviazione.
Una foto di Vincenzo sul luogo del suo tragico decesso
Se si riuscisse a superare questa delicata fase, infatti, ci sarebbe la possibilità di affrontare tutti i dubbi che avvolgono l’intera vicenda all’interno di un’aula di tribunale, nell’interesse di tutte le parti coinvolte. Si potrebbe per esempio ascoltare la ricostruzione dell’accaduto dalla voce dei protagonisti, non solo dei carabinieri intervenuti quella mattina, ma anche e soprattutto dei numerosi testimoni che erano presenti sul luogo della tragedia, tra i quali l’attuale sindaco del paesino tirrenico teatro dei fatti, l’avvocato Antonio Russo. Si potrebbe approfondire la conoscenza sulle rilevazioni autoptiche e si potrebbero interpellare altri strumenti, come ad esempio le registrazioni delle telecamere del vicino ufficio postale. E soprattutto, si riuscirebbe a dare finalmente delle risposte alla comunità di Crosia, profondamente scossa da questa tragedia.
Non è che arriva la morte di David Bowie e si oscura la presentazione del libro di Stefano Cuzzocrea. Che poi chissà cosa avrebbe scritto Cuzzo della morte del “Duca bianco”. Sicuramente qualcosa di diverso rispetto a tutti gli altri. Non è una frase di circostanza, questa cosa non la si sottolinea solo perché Stefano Cuzzocrea è stato strappato via da questa terra il 13 aprile del 2015. Le parole di circostanza con Cuzzocrea non hanno nulla a che fare e per rendersene conto, se non si ha avuto la fortuna di conoscerlo personalmente, basta leggere “Ho un complesso rock – La musica non tarderà a toccarvi l’anima” edito dalla Round Robin di Luigi Politano che con Stefano ha diviso gli anni di Rivist@ – rivistaonline.com. Il libro raccoglie più di duecento articoli legati al mondo della musica: interviste, concerti, recensioni tutte in pieno stile Cuzzo.
Furia, Orrico, Politano e D’Orrico (foto Filo di Sophia)
La prima uscita ufficiale calabrese del libro (Stefano è nato a Paola, il “capoluogo” del Tirreno cosentino), coincide con il primo appuntamento 2016 de Il Filo di Sophia, il collettivo di cultura indipendente che per la presentazione di “Ho un complesso rock” ha messo insieme Politano con l’attore e regista Ernesto Orrico, il giornalista Eugenio Furia, il cantautore Aldo D’Orrico (nelle vesti di Al The Coordinator, suo ultimo brillante progetto musicale), il dj set targato Partyzan con Fabio Nirta e Robert Eno a far girare i piatti. Tutti loro hanno condiviso un pezzo di quella strada chiamata vita insieme a Cuzzo.
Alla prima del Filo, nell’aula F1 del Cubo 18 dell’Università della Calabria, ci stava anche “2 be pop” , il progetto in Rete creato dallo stesso Cuzzocrea. Un modo per unire insieme le arti con spazio privilegiato, ovviamente, per la musica. L’associazione la presenta Gaia Cuzzocrea, figlia del giornalista quarantenne, insieme ad Aldo Viglioti. Spiegano che, fra i tanti progetti, c’è anche quello di creare un festival di giornalismo musicale in Calabria. Un sogno? Chi lo sa, del resto gli articoli di Stefano Cuzzocrea ci insegnano che nulla è impossibile. Lui è passato dall’ascolto dei suoi miti alla scrittura delle loro fatiche e non tralasciando mai (stiamo parlando di uno che ha scritto anche per Rolling Stones, Max, Rumore giusto per citarne qualche testata) la scena locale “calabrese”. Grande conoscitore di hip hop e, come ha raccontato Eugenio Furia, che si è cimentato in questa arte con rime «mai banali o politicizzate».
Furia lo conosce da 20 anni (nessuno dei presenti vuole usare tempi verbali relativi al passato parlando di Stefano. Come non condividere questa scelta?), e ne racconta di ogni. Ne celebra la conoscenza musicale, l’arte nello scrivere e la sua totale inadeguatezza a stare in una redazione tradizionale per far attività da deskista. Le migliori pagine di Cuzzocrea sono quelle scritte sulle cose che ha visto e sentito di persona. Ernesto Orrico legge alcuni degli scritti presenti nel libro e altre parole lasciate sui social perché Stefano aveva visto lungo sull’uso della Rete e dei suoi strumenti in tempi non sospetti. Mette a fuoco i pregi e sottolinea i difetti come scrive lui stesso nel libro. Ci si commuove alla presentazione di “Ho un complesso rock” ma, come ogni volta che compare Stefano, non c’è tempo per le lacrime perché bisogna far salire in alto la musica. In modo che se la goda pure lui.
Nel gennaio del 2006 successe una cosa che faremmo meglio a non dimenticare. Il giorno è il 17, una fila rumorosa di giornalisti si accalca nel palazzo del potere aspettando di poter accedere nella sala del consiglio comunale: quella mattina faranno cadere il sindaco donna dal suo scranno e una lunga pagina di storia della città potrà terminare. I fari della stampa nazionale sono puntati da mesi su Cosenza e sul suo primo cittadino.
Antonino Catera (San Pietro in Guarano 28/02/ 1957 – Cosenza 17/01/2006)
Uno di quei giornalisti non dovrebbe essere lì, è il suo giorno di riposo, ma da buon caposervizio alla cronaca cittadina non vuole lasciare la sua squadra in balìa degli eventi. Il tempo di sfilare il tesserino dell’Ordine dal borsello e lo vedono accasciarsi al suolo. Non c’è niente da fare, Antonino Catera del ’Quotidiano della Calabria’ muore d’infarto in pochi istanti a 49 anni sui marmi di palazzo dei Bruzi, sede del municipio di Cosenza. La tragedia del giornalista svela la miseria umana del potere. Mentre il corpo di Antonino rimane sul marmo senza vita, infatti, i politici, timorosi che un rinvio potesse cambiare le carte in tavola al loro gioco, iniziano ufficialmente la discussione. Si chiede la sfiducia al sindaco in un clima irreale, a una manciata di metri dal dramma umano. La seduta verrà sospesa solo dopo lunghe e imbarazzanti polemiche. Uno dei momenti più bassi del rapporto fra potere politico e stampa in Italia, tanto che la vicenda fece parlare di sé per molti giorni, anche su testate nazionali. Negli anni successivi arrivò l’intitolazione di alcune sale importanti della città al giornalista scomparso e si attende che alla sua memoria venga intitolata anche una strada nel suo paese nativo, San Pietro in Guarano.
Il ricordo di Moisè Asta
Ne scrissero anche i media nazionali
Centinaia i messaggi dei lettori
Ma quello che non va dimenticato è anche e soprattutto l’esempio di Catera, un giornalista buono prima che un buon giornalista. Antonino era il collega che non amava i riflettori e che spegneva per ultimo le luci in redazione, telefonando agli amici a tarda notte per non perdere il contatto con un mondo che andava a ritmi diversi da quello di una redazione giornalistica. La malattia del giornalismo lo colpì molti anni prima, durante gli studi di Medicina a Parma. Erano anni molto diversi da questi, la sistemistica computerizzata era diventato il fenomeno di massa e Antonino, grande appassionato di sport, si dimostra subito un mago. Prima le collaborazioni con “I Concorsi”, poi il settimanale a tiratura nazionale “Colonna Vincente”, dove arriverà al ruolo di redattore capo. Di fatto tutte le domeniche si fingeva inviato dai campi di Serie A e Serie B scrivendo e impaginando articoli e servizi. Ben presto questa passione divenne una coraggiosa scelta di vita e dalla farmacia di famiglia approdò alla redazione centrale del “Quotidiano della Calabria” dove si occupò di sport per più di dieci anni; poi, in un periodo particolare per la vita del giornale, viene investito del prestigioso ruolo di caposervizio alla cronaca cittadina. Interpretò il suor ruolo di responsabilità con modi da fratello maggiore, restando sempre dietro le quinte. Ma la sua morte sul lavoro si prese la scena, lasciando un vuoto incolmabile ma anche molti insegnamenti. Da amante della grafica, tra fu tra i primi a strizzare un occhio al metodo della fotonotizia, lottò sempre per trovare spazi a pagine speciali aperte alla società civile e applicò i toni irriverenti alla cronaca politica locale, volendo rubriche come “Spifferi”. Ma, soprattutto, è stato un collega buono e gentile con tutti, avviando decine e decine di ragazzi al ruolo del collaboratore, sempre pronto ad assistere nuovi praticanti e a raccontare la sua esperienza ai più giovani. Teneva moltissimo alle visite delle scolaresche in redazione, anche se aveva finito tardi si presentava la mattina dopo a guidarli per la redazione dicendogli: “è bello fare il giornalista”.
Cosenza è considerata da molti la città regina del concerto di Capodanno. Più che agli sfarzosi spettacoli di piazza di questi anni il titolo lo si dovrebbe però attribuire a una bellissima storia che arriva da un passato dimenticato.
La sfida era di quelle impossibili. Quell’ultima mattina del 1898 un maestro e 35 allievi, scapestrati e macilenti, arrivarono con trombe, tromboni, grancasse e filicorni a calcare la ribalta del “chiosco” dell’allora Novissima Villa comunale di Cosenza, oggi Villa Vecchia. Molti di loro erano stati salvati da morte sicura per fame, inedia o malattia, e trovarono nella storia della banda musicale dell’Orfanotrofio Vittorio Emanuele II una leggendaria occasione di riscatto. A guidarli c’era il maestro Giovanni Vavalli, un giovane convinto che se non col fisico almeno con le ali della musica, ognuno di quei bambini avrebbe potuto varcare i confini dell’istituzione totale, severa e austera, assaporando quella libertà che vivifica e salva.
QUESTI RAGAZZI Se nella mente di chi era cresciuto nella miseria più nera – in bassi più simili a latrine e stalle che a case, esposto alle scudisciate della fame e ai famelici morsi d’insetti portatori di febbri letali – s’innestavano pensieri di bruttezza, “la musica – secondo Giovanni Vavalli – avrebbe avuto il compito di rialzare il morale dei ricoverati, elevandone la mente all’ideale del bello”. E così, senza stipendio né gratificazione alcuna se non il piacere di quei primi rudimenti che cominciano a essere interiorizzati, a partire dal settembre del 1896 e con enormi sacrifici per reperire sia gli strumenti musicali che le divise, il giovane insegnante chiese all’allora direttore dell’orfanotrofio, Raffaele Mileti, di poter organizzare il primo nucleo della banda musicale. Richiamando alla memoria una delle tante e campali battaglie del Risorgimento, la “sfida” di Vavalli gonfiava i petti del direttore e dell’intero consiglio di amministrazione dell’orfanotrofio, e incuriosiva gli eminenti filantropi che, per mezzo della Camera di Commercio e della Cassa di Risparmio di Calabria, arrivarono a stanziare 200 lire per l’acquisto di strumenti musicali e di quel panno blu filettato scarlatto per paramani e bavero da aggiungere alle normali divise dello stabilimento. A “questi ragazzi” andava data semplicemente una chance, un obiettivo concreto, una sfida da trasformare in possibilità concreta per la vita.
LA RIVINCITA DI CAPODANNO Tra una lezione di meccanica e l’altra di tipografia nei numerosi opifici di cui era dotato l’orfanotrofio,lassù sul colle Triglio, le lezioni di Giovanni Vavalli procedevano senza sosta. La città incuriosita attendeva la propria banda di musici, perfetti figli di nessuno. La Lotta e La Cronaca di Calabria, quotidiani di quel tempo, sembravano cogliere l’importanza della sfida in atto e ne seguivano con onestà e spirito critico i progressi in numerosi servizi, avanzando talvolta speranze o al contrario perplessità sulla riuscita. Forse sospinto da tutto questo entusiasmo, l’esordio dei piccoli artisti arriva però troppo presto, ed è però un mezzo fiasco. Il 26 giugno del 1898 “nel vasto giardino dell’Ospizio gremito da un pubblico numeroso ed intelligente, accorso, per invito del presidente Mileti, a dare un giudizio sulla banda”, qualcosa va storto. Se dalle proprie colonne La Lotta invita la banda di Vavalli a “uscire quando questa sarà seria e stabile, e quando i ragazzi saranno in grado di soddisfare il pubblico”, il giudizio espresso dal giornale diretto da Luigi Caputo è meno tranciante: “Noi non diamo un giudizio su questo primo esperimento, ma per la cronaca registriamo che molti e molti furono gli applausi per quei giovanetti, che già suonano dopo un solo anno di scuola pezzi difficili e scelti”.
Insomma, non si può più sbagliare. Vavalli potrebbe fare un passo indietro ma crede a tal punto nei progressi dei suoi 35 “monelli” da pretendere la ribalta di Capodanno. Il buon Mileti lo asseconda: si può fare. Il programma è complesso ma snello, certamente modellato dal maestro sulle caratteristiche dei propri allievi: si apre con la Marcia Cinese di Weber e si va avanti con la sinfonia de I promessi sposi di Ponchielli, il valzer Armi e amori di Santoro, l’introduzione all’atto primo del Rigoletto di Verdi, culmina nella polka trionfale L’amore della danza di Tarditi. Stavolta è un vero successo. Dalle prime ore del mattino i ragazzi di Vavalli percorrono disciplinatamente le principali vie della città dei Bruzi, raccogliendo applausi e monetine gettate dai fastosi palazzi agghindati con drappi e coperte a salutare l’arrivo del nuovo anno. A mezzogiorno in punto la Villa è gremita. Dal «Chiosco», dov’è schierata in alta uniforme, la banda dell’orfanotrofio è chiamata a gran voce a ripetere il programma strimpellato per tutta la mattinata per le vie della città. Al pari del pubblico, l’esigente cronista è stavolta ampiamente soddisfatto: «Il programma fu eseguito benissimo, che i giovanetti della banda suonarono con disinvoltura e scuola e che il pubblico non lesinò gli applausi». Il cachet dei giovani artisti è rappresentato, davvero altri tempi, dalla gratitudine della città e dal premio assicurato dal Prefetto: paste e liquori per tutti.
Per approfondire:
ASCS, Prefettura, Opere Pie, Orfanotrofio, Banda Musicale.
Cronaca di Calabria: 4 marzo, 26 giugno, 31 dicembre 1898, 6 gennaio 1899.
Orfanotrofio Maschile Vittorio Emanuele II Cosenza, 1855-1955. I cento anni dell’Orfanotrofio, Scuola tipografica dell’Orfanotrofio Maschile V. E. II, Cosenza 1955.
Il mondo è piccolo perché Roccella è grande. Parole nate come battuta sono diventate profezia. Erano scritte sulla maglietta stretta in mano alla sua partenza da Carlo Iannuzzi, giovane attivista calabrese che nella scorsa primavera aveva deciso di lasciare il lavoro in Italia per trasferirsi a Buenos Aires, in Argentina. Un lungo viaggio, ma mai lungo quanto la notte fra il 26 e il 27 di novembre.
Carlo Iannuzzi in una sua recente foto (da Facebook)
Un giovedì sera; Carlo è a cena con alcuni amici calabresi di Argentina con i quali dopo divide in tre un taxi per rientrare a casa, nel quartiere popolare di Almagro, un luogo poco frequentato da turisti. La vettura verso l’1 e 30 della notte lo lascia ad un solo isolato da casa e prosegue il suo viaggio, ma quell’isolato in realtà è una distanza molto più lunga del previsto. Due ore dopo un passante vede due uomini correre sulla Via pubblica Peron 3333 e insospettito dalla scena torna su suoi passi. Lì trova Carlo in stato di totale incoscienza, riverso in terra con una gravissima ferita alla testa dalla quale esce molto sangue. Carlo è senza i suoi effetti personali: zaino, portafogli, telefono. Si pensa ovviamente a una rapina. Il Pronto Intervento invia dopo circa 20 minuti un’ambulanza. Carlo Iannuzzi viene sottoposto ad un delicato intervento chirurgico all’Ospedale Ramos Mejia di Buenos Aires. Solo sabato 28 novembre, intorno a mezzogiorno, il fratello Elio riceve questo messaggio su Facebook:
“Caro , ho visto attraverso Facebook sai Carlo Iannuzzi. Stiamo cercando di contattare un parente in Argentina con urgenza , lo so è ricoverato , privo di sensi in ospedale Ramos Mejia . Se conoscete un membro della famiglia , si prega di contattare l’Ospedale , Consolato , o il 9 Commissario di Buenos Aires . Se non si conosce, dispiace disturbarla . Comisaría 9 Bilinghurst 471 (Capital) +5411 4862-3333 Hospital Ramos Mejia: Gral. Urquiza 609, C1221ADC Buenos Aires 011 4931-1884 Grazie”.
Un tuffo al cuore. La famiglia cerca di assorbire il colpo nel più breve tempo possibile e contatta il Consolato Italiano di Buenos Aires che, attraverso il vice console Gianluca Guerriero, consiglia il trasferimento con urgenza all’Hospital Italiano della città. Il Ramos Mejia, secondo il rapporto consolare, presenta pessime condizioni igienico-sanitarie, insufficiente numero di personale medico e deficienza di attrezzature medico-sanitarie adeguate. Carlo viene trasferito d’urgenza e in ore delicatissime riesce a vincere la sua battaglia con la vita. Qui inizia un braccio di ferro parallelo per il suo diritto alla salute. Il conto dell’Hospital è salato (circa 50mila euro) e nella vergognosa assenza delle istituzioni e delle norme, un comitato spontaneo si è messo in moto per aiutare i familiari di Carlo a sostenere il suo recupero. Si chiama “El Puente per Carlo” (QUI) ed è stato presentato nella sua Roccella Ionica; in poco tempo è riuscito a mobilitare moltissime persone in giro per il mondo, anche grazie a testimonial d’eccezione come Javier Zanetti, storico capitano argentino dell’Inter.
E’ attiva una raccolta fondi in Italia e una in Argentina, unitamente a un’opera di pressione civile sulle istituzioni e sui media. Dalla Regione Calabria dopo un mese dal tentato omicidio ancora nessun cenno di risposta alle sollecitazioni ufficiali, ma si attende fiduciosi, visto che le notizie che giungono dall’Argentina ci dicono che nei prossimi giorni Carlo verrà trasferito in un centro di riabilitazione neurologica e fisica e le spese sanitarie da qui in poi verranno assorbite grazie alla stipula di una nuova polizza sanitaria che si chiama Medicus e che garantisce alta e qualificata assistenza medico-sanitaria dalla sua azienda, la Arte Grafico Editorial Argentino, nella quale il giovane ingegnere informatico era stato assunto a tempo indeterminato. Lo stesso tipo di contratto che aveva a Bologna, dove decise di lasciare tutto per inseguire il sogno argentino. Si tratta infatti da sempre di uno di quei ragazzi cresciuti a colla di manifesti e sogni, una persona che ama viaggiare e si batte per un mondo migliore, fin dalle piccole cose.
“Mesi fa qualcuno mi chiese come riuscissi a lasciare i sorrisi che a Picatari mi stavano intorno. A quegli occhi dedico questa giornata. A quegli occhi voglio dire di non arrendersi, di avere fiducia in se stessi perché siamo molto più forti di quanto vogliano farci credere. Non abbandonate i vostri sogni, non permettetegli di farlo. Il solo limite che abbiamo è quello che idealizziamo. Siate più liberi di come vorrebbero che foste. Mettete tutto in discussione, soprattutto voi stessi. Sfidatevi, non abbiate paura a farlo perché è in quell’attimo che sentirete quanto siete pieni. Alzate le vele compagni, seguite la strada, prendete gli schiaffi, prendeteli tutti, perché le cadute rendono il viaggio più vivo, non più difficile”.
Sono alcune delle parole che Carlo Iannuzzi da Roccella Ionica affidò al suo profilo Facebook una volta arrivato in Argentina. Il suo viaggio, più vivo di prima, continua a vele spiegate con decine di conterranei, compagni e amici in tutto il mondo pronti a soffiare forte.
Il mondo è un posto piccolo quando le radici sono grandi.
“Quando ero piccolo volevo fare il biologo, non ci pensavo nemmeno a fare il giornalista. Questo mestiere è fatto di mille cose, mille sacrifici. Non è per niente facile.Non è facile da nessuna parte, ma qui in Calabria di più, è ancora più difficile”. Lo scriveva Alessandro Bozzo, grande cronista di Calabria Ora morto suicida alle idi di Marzo del 2013. A Cosenza in questi mesi è finalmente entrato nel vivo il processo che vede imputato per violenza privata l’editore che si fece beffe del contratto a tempo indeterminato guadagnato da Alessandro in una lunga e brillante carriera. Ma in realtà lo scritto risale a qualche anno prima, quando entrambi erano finiti in una lettera minatoria arrivata in redazione. Lo si può rileggere in “Avamposto”, un libro di Roberta Mani e Roberto Rossi che per Marsilio editore ricostruiva le storie dei giornalisti infami minacciati dalla criminalità in Calabria. Una storia più complessa di Star Wars, quella della libertà di stampa in punta allo Stivale, soprattutto perché i protagonisti sono impegnati a combattersi fra loro in una saga in cui è difficile riconoscere qual è la banda del bene e quella del male. Di certo c’è che lontana dalle grossolane luci della ribalta di un tempo – che più di una assurda distorsione in una terra dove nulla è come sembra finirono per generarla – con gli anni la situazione è andata ad aggravarsi.
Il servizio di Pino Corrias su Vanity Fair del 2010 sui cronisti minacciati in Calabria. In copertina foto dal film “Ace in Hole”.
E’ triste notizia di queste ore infatti la disposizione della scorta ad una giovane giornalista in forza al Corriere della Calabria, AlessiaCandito. La brava cronista reggina in forza anche a L’Espresso, scrive da tempo sulle nuove dinamiche criminali in riva allo Stretto e, per come ha raccontato il sito della sua redazione, è stata di recente fatta oggetto di alcune mail dal carattere intimidatorio indirizzatele da un ex collaboratore di giustizia oggi latitante in Libano. Sulla questione il cdr della testata “trattandosi di personaggio pericoloso, latitante per fatti di mafia ed in contatto con pezzi deviati dei servizi segreti italiani e non” aveva chiesto ufficialmente una presa di posizione istituzionale. L’assegnazione della scorta è segnale che il pericolo è stato ritenuto concreto dagli inquirenti. Stessa cosa che è successa a tanti, troppi, fra cui Michele Albanese, storico giornalista del Quotidiano della Calabria, che da ormai due anni convive con gli uomini dello Stato chiamati a sottrarlo alla minaccia delle cosche della Piana di Gioia Tauro, dove il parroco di una cittadina invitò i fedeli a prendere a schiaffi LucioMusolino, cronista del Fatto quotidiano che come Albanese si occupava degli inchini delle statue votive davanti alle case del boss.
Alcuni diranno: sono i pericoli del mestiere. Come se fosse tollerabile che in un paese democratico chi fa il mestiere di (provare a) dire la verità debba vedersi privato della libertà di poter girare indisturbato, di poter incontrare chi vuole, di poter vivere come qualsiasi altro cittadino e, in ultima istanza, di poter continuare a fare il suo lavoro. L’Italia, intanto che sottovaluta, arretra ogni anno che passa nelle classifiche sulla libertà di stampa e nulla fa per porre rimedio a leggi obsolete che portano a casi assurdi come quello che arriva sempre dalla Calabria con l’arresto di Francesco Gangemi, giornalista e politico di 82 anni. I domiciliari all’ottuagenario ex sindaco di Reggio Calabria (esperienza sciolta per mafia nel 1992) sono stati decisi la scorsa settimana in base all’esecuzione di condanne per diffamazione accumulate nel corso della sua lunga e controversa carriera. Se è verosimile che la parola può ferire più della spada, è però certo che nessuna società che si voglia definire avanzata può trattarle allo stesso modo.
Un altro problema enorme e tutto italiano, quello delle cosiddette querele temerarie. Da anni il clima politico sul diritto di cronaca è sempre più pesante e sono diversi gli analisti che sostengono che oggigiorno sia proprio il vuoto normativo sulla diffamazione a rappresentare il motivo perché l’Italia continua ad arrancare nelle classifiche internazionali. I dati del resto non mentono, e cristallizzano la crescita esponenziale delle querele e delle relative richieste di risarcimenti per danni provocati dalla pubblicazione di notizie scomode. La stragrande maggioranza degli atti finisce in un nulla di fatto giudiziario che intanto fa spendere un mare di soldi ed energie allo Stato e all’imputato giornalista, restringendo la sua libertà di cronaca e il diritto di cronaca dei cittadini. Assurdo, basterebbe aspettare che prima che si possa parlare di risarcimenti si accerti il reato ipotizzato con una condanna o che almeno, come avviene in molti altri paesi, chi presenta una querela versi una cauzione pronta a risarcire il querelato in caso di assoluzione o archiviazione. Lontanissima epifania per l’Italia e la Calabria, dove un magistrato ha chiesto in maniera preventiva con una raccomandata mezzo milione di euro al giovane direttore del DispaccioClaudio Cordova per non essere querelato.
Ma il tintinnìo non si ode solo per le querele. Ormai la questione delle fonti è esploso fino ai corridoi vaticani, ma a latitudini meno giubilari c’è chi come Agostino Pantano a Palmi sta rischiando la galera per ricettazione solo perché ha fatto ciò che si fa da quando è stato inventato il giornalismo: pubblicare atti giudiziari di interesse pubblico come la relazione di scioglimento per mafia del Comune di Taurianova. Ma in realtà basta molto meno, tipo scrivere “in maniera ossessiva sul sindaco”, motivo per il quale Gabriele Carchidi si è visto oscurato preventivamente dalla procura di Cosenza il suo Iacchitè, o porre semplici domande. Antonino Monteleone, inviato di La7, ha osato farle in tribunale a Napoli al giudice coinvolto nel caso De Luca e per questo è stato posto in stato di fermo per quasi sei ore. Il suo è uno dei pochi casi in cui si arrivò a prendere chi lo minacciò bruciandogli la macchina sotto casa, a Reggio Calabria. Una città di una regione dove in questi anni sono state chiuse redazioni come quella dell’Ora della Calabria, rea di non aver cacciato la notizia sul figlio del sottosegretario come le veniva amichevolmente suggerito dallo stampatore (a proposito, che fine ha fatto il processo del caso “Cinghiale”?), o in cui i giornalisti senza nessun preavviso si sono trovati chiusi fuori dalla redazione, come successo ai colleghi della Provincia di Cosenza. Un cartello immaginario fuori dalla porta deve avergli suggerito: questo non è un posto per giornalisti.
La parte degli arrivi internazionali a Yangon è una parte di aeroporto ferma ad almeno cinquanta anni fa. Quella dei voli domestici invece sembra un enorme mercato di epoca coloniale, con colonnati di teak, gente che fuma dalle balaustre e grandi bilance pesa-bagagli che ricordano più una fruttivendola che un aeroporto. Non ci sono nastri trasportatori ma decine di facchini che smistano le valigie da stiva, attaccando talloncini colorati compilati a mano. Anche le nostre carte d’imbarco sono compilate a mano, con alcuni adesivi prestampati ci assegnano i posti sull’aereo. Tutto ciò senza mai mostrare i passaporti. Il piccolo aereo con i motori ad elica ci fa fare un salto nel tempo, mentre dal finestrino seguiamo con lo sguardo fiumi e immense foreste. Il volo in poco più di un’ora ci porta a Heho. Scendiamo sull’unica pista e l’aereo riparte, come una sorta di buffo autobus del cielo. Arriviamo a Nyaungshwe in taxi, vicino al lago Inle. Siamo nello stato Shan e dopo il traffico caotico di Yangon e il caldo opprimente, l’aria fresca e la tranquillità di questo paesino di pescatori ci spinge a fare una lunga passeggiata fino al monastero di Shwe Yan Pyay. Nel cortile bambini che giocano a pallone, mentre i monaci chiacchierano nell’imbrunire. Torniamo ormai al buio al nostro bungalow, usando le torce dei cellulari per farci strada. Conserviamo il giro sul lago e il giorno dopo decidiamo di andare a Kakku e al mercato dei cinque giorni che ruota in diverse città intorno al lago Inle. Lo raggiungiamo a Taunggyi. Per accedere all’area di Kakku abbiamo bisogno di una guida della tribù pah-o, la zona infatti conserva una certa autonomia e ci spiegano che, per una questione di superstizione, gli stranieri non possono entrare se non sono accompagnati. La nostra guida è una ragazza dolcissima, sorride radiosa e indossa il vestito tradizionale della sua tribù.
Ci conduce nel mercato di Taunggyi, una miriade di frutta, fiori, carne e pesce tenuti a terra su stuoie che si ribellano ad ogni forma più elementare di igiene. Arriviamo al banchetto del thanaka, una crema ricavata dalla corteccia di alcuni alberi, che le donne usano principalmente per proteggersi dal sole. Mi chiedono se voglio provarlo e ovviamente accetto. Regalo 50 kyat (l’equivalente di meno di 40 centesimi di euro) e la venditrice passa la banconota su tutta la sua merce, in segno di buon augurio.
La strada per Kakku ci dà un primo assaggio di quanto sia difficile muoversi in Myanmar. Alla velocità massima di cinquanta chilometri orari, attraversiamo campi coltivati, arati ancora con i buoi. Ci fermiamo a guardare alcune donne che mietono il riso: sembra di essere in un quadro di Van Gogh. Kakku è un sito archeologico composto da quasi 2500 stupa buddhiste. Una collinetta che sembra provenire da un altro mondo, porta i segni di una devozione antica che si intreccia con gli elementi della natura e antiche storie di esseri mitologici, mentre il vento muove le centinaia di campanelle attaccate agli stupa. La guida ci racconta le storie, ci mostra i posti più belli nel labirinto di monumenti, mentre si ripara dal sole con un ombrello. Ci dice che non le piace l’abbronzatura e io sorrido pensando a tutti i soldi che gli occidentali spendono per fare esattamente il contrario.
Prima di tornare a Nyaungshwe, la guida ci fa visitare un villaggio pah-o. Un’anziana sorride, ci accoglie in casa sua. Lasciamo le scarpe sull’uscio ed entriamo in un mondo fatto di stuoie, di pareti intrecciate di giunchi, focolari al centro della stanza. La nostra accompagnatrice ci chiede di non dimenticare tutto questo, di non dimenticare la sua tribù. Proveremo a mantenere la promessa.
SUL LAGO INLE
Il giorno dopo passiamo l’intera giornata in barca, scandagliando l’intricato labirinto di canali che si diramano lungo le sponde del lago Inle. Le imbarcazioni degli inthas, la tribù del lago, sono lunghe e agili e i pescatori le manovrano con grazia mentre pescano con grandi nasse. Le figure di queste persone sottili, sotto i grandi cappelli, costruiscono immagini quasi fiabesche, in bilico sui remi corti si muovono come se danzassero sull’acqua. In Asia non è difficile finire in un mercato e anche qui, in uno dei tanti minuscoli villaggi, siamo circondati da venditori che ci offrono le più svariate mercanzie. Passiamo da un villaggio all’altro, mentre bambini giocano nell’acqua, donne lavano vestiti e le case-palafitte si specchiano nelle acque calme del lago. Visitiamo un opificio tessile dove filano la fibra dei fiori di loto ma la vera particolarità di questa zona sono gli orti galleggianti. Gli inthas hanno sviluppato un metodo di coltivazione che sfrutta le alghe presenti sott’acqua che fanno da “terreno” per tutti gli ortaggi più comuni.
La guida ci annuncia che vedremo le donne giraffa. Ho pensato ci fosse una piccola comunità di Padaung, la tribù di appartenenza di queste donne famose per gli anelli che portano intorno al collo (qui una gallery), e invece ci troviamo in un negozio di souvenir di fronte a tre di loro, di cui una giovanissima, intente a lavorare al telaio. Avremmo voluto evitarlo; in questo contesto, come in alcune zone della Thailandia, le donne giraffa sono utilizzate come fenomeni da circo per attirare i turisti e in realtà, oltre allo zoo etnico, è ancora abbastanza nebuloso il motivo per cui indossano questi cerchi di ottone e nessuno si preoccupa di spiegarlo. Scatto poche foto, sorrido con un’espressione di scuse. La più anziana forse capisce e ricambia il mio sorriso. Ci sono diverse leggende in merito agli anelli che indossano. Alcuni dicono sia un modo per abbellire il loro corpo, altri invece che furono utilizzati al contrario per dissuadere gli stranieri dal cogliere la virtù delle donne padaung. Tuttavia è sicuramente la più suggestiva quella che narra che gli spiriti maligni Nat si arrabbiarono molto con la tribù kayan, detta anche padaung di cui fanno parte le donne giraffa. Gli spiriti Nat aizzarono le tigri contro le donne della tribù che, per difendersi dai morsi letali dei felini, decisero di rivestire il collo, i polsi e le caviglie con anelli di metallo.
Prima di rientrare a Nyaungshwe, ci allunghiamo fino a Inthein. Uno tra i luoghi più importanti della zona del lago Inle, è un pezzo di spiritualità rubato alla giungla che avanza. Molte stupa sono in rovina, altre restaurate, altre completamente dorate. Intorno decine di ragazzi e ragazze che studiano, spio sui loro quaderni: stanno facendo compiti di geometria. L’ultima tappa sul lago è il monastero di Nga Phe Kyaung, più noto come monastero dei gatti che saltano. In realtà non abbiamo trovato monaci intenti a dare spettacolo con i mici che sonnecchiavano sui tappeti, ma una struttura costruita interamente in teak con un sistema di palafitte, che conserva al suo interno pregevoli statue del Buddha e piedistalli finemente intarsiati.
Bisognerebbe saper abbandonare più spesso quello che di superfluo ci raccontano sui luoghi per apprezzarne la vera bellezza.
Matteo si rallegra è l’anagramma di Sergio Mattarella. E che l’elezione del dodicesimo capo dello Stato sia una dimostrazione di forza del capo del governo Matteo Renzi, è cosa indiscutibile.
Dal momento in cui con sorriso beffardo il premier toscano ha fatto il nome dell’invisibile siciliano all’assemblea del Partito Democratico, quella a ricostruire la storia del prossimo inquilino del Colle è stata una corsa giornalistica pazza più del solito.
Nato nel 1941 a Palermo, vedovo. Vita riservata ma biografia pubblica, famiglia in politica da almeno tre vite. Un fratello ucciso dalla mafia, due figli avvocati. Sulle parole pubbliche, però, gli archivi dell’Ansa girano a vuoto; risale infatti a una mattina del 2008 l’ultima dichiarazione pubblica di Mattarella. Apriti Internet: Wikipedia e Google mai così criptici, su Youtube si trova una sola intervista. Vecchie redazioni hanno avuto un gran da fare nello scongelare quirinalisti e notisti di corridoio, riscoprendo l’importanza di un mestiere che non si improvvisa, ma si studia per molti anni.
Nel frattempo però, la rete del nuovo giornalismo, non poteva bucare il racconto anticonformista, così in tanti si sono avventurati nel Vestito di Arlecchino, come viene chiamato nell’ambiente giornalistico il pastone di notizie raccattate negli archivi. Ne è venuto fuori un pastrocchio inaudito, che in un’epoca strana come la nostra è finita anche per sembrare verità a molti sventurati, alcuni dei quali persino in Parlamento.
Uranio impoverito, parentele scomode, appoggi a personaggi ambigui, crociate anti-pop: raccattando e rattoppando brandelli di ricerca si è messo in piedi un fantoccio che non assomiglia al Sergio Mattarella che, sempre più pochi in realtà, ricordano per averlo studiato sui libri, ma al politichetto medio da lanciare contro la lapidazione populista.
In realtà ci si poteva arrivare pure senza libri. Se sei nato negli anni ottanta la tua vita sociale ha conosciuto due significative rivoluzioni rispetto a quelle dei tuoi genitori: l’abolizione del maestro unico a scuola e l’abolizione della leva militare obbligatoria. Questi due provvedimenti hanno la firma del ministro Sergio Mattarella. Più Einaudi che Pertini, raccontano. Perché Mattarella dice poco a chi non sa cosa sia la prima repubblica, perché alla nascita della seconda era il ministro che ha lasciato la poltrona e la politica perché il suo nome non finisse vicino a quelli che con la legge Mammì stavano spianando la strada all’impero di Silvio Berlusconi.
Ah, un’altra cosa. Sempre se sei nato negli anni ottanta, hai esercitato i diritti da cittadino in modo diverso da chi ti ha preceduto, anche questo grazie ad una Legge Mattarella, quella del 1993. Conosciuta anche come Minotauro o Mattarellum, è la riforma elettorale seguita all’ultimo storico referendum radicale del 18 e 19 Aprile, con il quale il 77% dei votanti ha abrogato il suo passato. Il Mattarellum (definizione del grande politologo Giovanni Sartori) in verità al tempo venne archiviato come la rivincita dei politici sul popolo.
Cosa successe, in realtà: con un voto incontestabile milioni di italiani avevano deciso convintamente di abbandonare il sistema elettorale proporzionale con cui avevano votato le generazioni passate, ma la legge elettorale della Camera approvata dal Parlamento pochi mesi dopo il voto presentava lo stesso un sistema misto, con il mantenimento di una piccola quota di proporzionale (25%). Il testo presentato in prima firma da Mattarella venne per questo aspramente criticato da Marco Pannella e considerato un tradimento del risultato referendario.
Probabilmente il leader radicale non era lontano dall’aver ragione, ma il potere legislativo, del resto, non sta sulle spalle del popolo. La legge deve farla l’Aula, e quel Parlamento con la Mattarella tenne conto dei quesiti referendari pur restituendo al paese un sistema elettorale intelligente, un compromesso all’italiana unico al mondo, che gli anni a venire dimostrarono funzionante.
Poi arrivò l’era del Porcellum, con Roberto Calderoli e i suoi fratelli, e solo l’altissimo sa quando finirà questa farsa di potere, che, al netto di eccezioni, vuole che la carica fa l’uomo – come ama dire chi da anni commenta con autorevolezza eventi quirinalizi- e raramente viceversa. Perciò per capire che Presidente della Repubblica sarà Sergio Mattarella – seppur lascia ben sperare il fatto che la politica ritorni a esser roba da più uomini fatti così, e da meno uomini fatti colì – si dovrà aspettare di vederlo all’opera.
AGGIORNAMENTO 19 aprile 2017 | Gabriele Del Grande ad aprile del 2017 viene arrestato e imprigionato in Turchia per non ben chiari motivi e, come segno di protesta, dopo nove giorni di prigionia ha iniziato lo sciopero della fame in carcere. L’Italia si sta mobilitando per il suo rilascio immediato.
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Approdo, invece che sbarco. Bruciare le frontiere, piuttosto che attraversarle. E’ di questa inversione di senso di cui si è parlato con Gabriele Del Grande – giornalista e autore del blog Fortress Europe – all’Università della Calabria, in un seminario organizzato dal Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali.
Fresco di proiezione (al centro Auser di Cosenza) del film-documentario “Io sto con la sposa”, di cui è regista insieme a Antonio Augugliaro e Khaled Soliman Al Nassiry, presentato fuori concorso nella Sezione Orizzonti della Mostra del Cinema di Venezia, con già diversi riconoscimenti (The Human Rights Nights Award per il Cinema dei Diritti Umani e il Premio di critica sociale Sorriso Diverso – Venezia 2014), Gabriele Del Grande parte dalla fragilità dei diritti umani quando si parla di migrazioni, che vengono citati in modo quasi maniacale nei documenti europei ma, altrettanto spesso, vengono infranti nei centri di accoglienza disseminati nel Paese.
La proiezione con dibattito di “Io sto con la sposa” al centro Auser di Cosenza
Il suo blog, attivo dal 2006, raccoglie storie di naufragi e va al di là della macabra conta dei morti dei media tradizionali. Lo scopo infatti è quello di raccontare le storie di tutti coloro che affrontano i cosiddetti “viaggi della speranza” e rimangono fuori dal “giro dei visti”. Perché, per alcuni cittadini dei paesi mediterranei che sono fuori dagli accordi di Schengen, il diritto alla mobilità è spesso negato nelle lunghe code davanti alle ambasciate.
Uno studio della London School of Economics and Political Science, analizzando i flussi migratori che in questi anni hanno interessato il bacino del Mediterraneo, è arrivato alla conclusione che più è elevata la difficoltà di ottenere i visti e più è alto il numero dei migranti. Infatti, per quanto riguarda la zona dei Balcani, i flussi migratori sono enormemente diminuiti da quando alcuni Stati sono diventati membri UE. Del Grande spiega anche i diversi metodi attraverso i quali è possibile accedere al mercato nero dei migranti: dalla corruzione presente nelle ambasciate per ottenere i visti regolari, all’acquisto di contratti di lavoro che permettono di ottenere il visto per motivi di lavoro ma sono solo un pretesto per entrare in Italia, fino ad arrivare al contrabbando e all’acquisto dei “biglietti” per le carrette del mare.
Ma non è finita qui. Nella miriade di storie che vedono coinvolti i migranti, ci sono anche quelle relative al “business della sicurezza” come definito dalla professoressa Donatella Loprieno, ovvero tutti i fondi italiani ed europei che servono per finanziare i centri di detenzione in Libia che dovrebbero fermare, o quantomeno dissuadere, le migrazioni dalle aree sub-sahariane e non solo. I flussi migratori vengono regolati anche in base agli accordi tra gli Stati (a tal proposito è interessante guardare i dati delle partenze dalla Libia prima e dopo la morte di Gheddafi) ma ovviamente questo non viene mai ufficialmente confermato, nonostante tra diminuzione dei flussi migratori e firme di accordi internazionali ci sia stata una coincidenza non trascurabile.
La costruzione di una “fortezza Europa” risponde quindi a un’ossessione di sicurezza che non è da considerarsi un muro impenetrabile, ma un enorme “filtro di status”, come lo definisce il professor Ercole Giap Parini, che non ferma semplicemente il migrante ma lo riduce a una condizione di disperazione. Inoltre, ormai, non è più pensabile pensare a una migrazione dai paesi in via di sviluppo o che vivono conflitti, a quelli tradizionalmente più ricchi. Ormai, come spiega Del Grande nel video e come ha scritto Mmasciata.it (QUI), è sempre più alto il numero di migranti tra Paesi “ricchi”. E’ quindi auspicabile uno ius migrandi che non sia solo un diritto sulla carta o solo per alcuni, ma possa esplicarsi nel diritto alla mobilità per tutti, senza “paure cromatiche”.
Oggi scriveranno di DinoZoff. Il suo viso sempre imbronciato apparirà con violenza sui social e a lui probabilmente non fischieranno nemmeno le orecchie. Perché io me lo immagino così, distante dal clamore, dalle onoreficienze forzate e dal soffio delle candeline davanti a figli e nipoti.
Oggi saranno più o meno 40 anni da quel 1982 in cui dopo aver fermato il Brasile con una parata irripetibile, insieme ai suoi compagni vestiti d’azzurro, a Bearzot e al partigiano Sandro, regalò all’Italia il suo mondiale più autentico. Un mondiale di sinistra, direbbe forse Gaber, mentre quello del 2006, non so perché, mi è sempre sembrato più vicino alla destra. E sì, lo dico io che a quel tempo avevo appena tre anni e mentre tutti urlavano davanti alla televisione di un bar del mare, piangevo. Lo dico perché poi dopo, pian piano, quel calcio ho capito che mi piaceva più di questo.
La verità, è che oggi mi è venuto di essere uno dei tanti a scrivere degli 80 anni di Zoff perché Zoff l’ho scoperto proprio da piccolo, guardando giocare mio padre che, fino a quando ha avuto voglia, di ruolo faceva proprio il portiere. E veniva chiamato Zoff per una somiglianza imbarazzante, nel volto, nel corpo, nei tuffi, nei capelli e nel carattere burbero e allergico alle parole di troppo.
Guardo spesso certe sue fotografie da giovanissimo e mi viene sempre in mente il vecchio Dino con la maglia grigia e la fascia bianca di capitano sul braccio. E chi lo sa, magari è proprio per questo che un po’ di quel carattere essenziale e taciturno, duro ma quasi invisibile agli occhi di chi deve dare necessariamente un’etichetta alle persone, me lo sono beccato anch’io.
Però, vabbè, qui è di Zoff che si parla, altrimenti diventa un discorso autoreferenziale, di famiglia, e non interessa a nessuno, neanche a mio padre.
Interessa, invece, l’ex portiere della Nazionale, quello che a 41 anni smette di giocare per non disturbare, per non apparire patetico, anche se vorrebbe andare avanti fino a 50. Interessa l’ex numero uno campione del mondo della potentissima e pluridecorata Juventus a cui, nel suo paese, Mariano del Friuli, non hanno mai dedicato un club di tifosi. Dispiaciuto? Neanche per sogno.
“Hanno cose più serie da fare – ha detto una volta – come ad esempio lavorare”.
Oggi, per qualche secondo, prima di tornare a impazzire per Ronaldo, Vlahovic, Maignan o Donnarumma, al popolo social e non social interesserà l’ex commissario tecnico dell’Italia di Totti, Pessotto, Fiore e Del Vecchio, quella che sfiorò la vittoria all’Europeo del 2000 e fu bastonata da Silvio Berlusconi, che definì il ct indegno per una mossa tattica sbagliata. Indegno proprio lui che sulla dignità ha costruito una carriera, una vita priva di eccessi e barzellette applaudite per oltre un ventennio da orde di pericolosi elettori. Indegno proprio lui che rispose al cavaliere con dignità rivoluzionaria, dimettendosi. Da quella mossa politica nessun politico ha mai imparato granché.
Magari, nel profondo, non sarà proprio così, ma mi piace credere che Zoff non abbia mai cercato applausi, consensi. Dino Zoff, raccontano le cronache e lui stesso, parlava quando proprio non poteva farne a meno, ma sapeva farsi ascoltare. Insomma, un atipico sovversivo del pallone. Uno che il pallone, appunto, lo faceva sembrare serio e al tempo stesso no con un semplice sguardo. Perché, dopotutto – si è lasciato sfuggire una volta, forse ancora prima di Nanni Moretti – “le parole contano, pesano”. Quindi, per non dirne altre a vuoto, finisco di scrivere qui e mi vado a cercare quelle foto di famiglia in cui mio padre era un portiere famoso e non lo sapeva.
L’estate del 1978 era quella dei Mondiali di calcio nell’Argentina del generale Jorge Rafael Videla. A meno di un chilometro dallo stadio Monumental di Buenos Aires, c’è il complesso dell’Esma (Escuela Mecanica de la Armada), dove già da due anni si susseguono nel silenzio e nella paura generale gravi delitti nei confronti dei dissidenti del regime militare. Gli oppositori vengono arrestati, seviziati e in molti casi fatti sparire nel nulla. Succede ogni giorno, tranne nel corso delle partite della Selección, ascoltate in religioso silenzio dagli altoparlanti delle prigioni dai militari aguzzini. D’altronde quel grande evento sportivo è stato voluto proprio per distrarre il popolo dai massacri della dittatura.
Alla fine, l’Argentina di Mario Kempes conquisterà il titolo iridato in finale contro l’Olanda, priva del suo asso Johan Cruijff.
Sugli spalti, a seguire buona parte delle partite di quel Mondiale, c’è anche il giovane Gianni Di Marzio che ha da poco concluso il primo campionato di serie A alla guida del suo Napoli. Un ottimo sesto posto in classifica, con conseguente qualificazione alla Coppa Uefa.
Il tecnico pertenopeo si trova in Sudamerica per scoprire giovani talenti che siano in grado di rendere più forte la squadra della sua città. Viaggia da una parte all’altra del Paese, fino a quando un pomeriggio, durante un breve tragitto in taxi che lo sta traghettando verso l’ennesima partita di quella competizione, chiede un po’ per gioco all’autista se conosce qualche giovane promessa ancora poco conosciuta. L’uomo al posto di guida lo guarda dallo specchietto retrovisore e senza nessuna esitazione gli fa un nome: Diego Armando Maradona. Un ragazzino di appena 18 anni inserito dal ct argentino Cesar Menotti della prelista di 40 calciatori per i Mondiali, poi però fatto fuori in quella definitiva.
“Gioca nell’Argentinos Juniors”, rivela l’uomo a Di Marzio.
L’Argentinos Juniors in quel periodo è una polisportiva e a curare il settore calcistico c’è un ingegnere di Aiello Calabro, provincia di Cosenza, tal Settimio Aloisio. Quando Di Marzio lo contatta telefonicamente, Aloisio quasi non ci crede. Conosce bene quell’uomo che appena due anni prima aveva portato in serie A la sua squadra del cuore, il Catanzaro. Quando gli viene chiesto di Maradona, l’ingegnere calabrese si illumina. Per Di Marzio è disposto a tutto. In pochi giorni mette in piedi una partita per far ammirare al suo mito quel talento brutalmente trascurato dall’Argentina. Ma al momento di scendere in campo, Maradona non si presenta. Pare sia ancora arrabbiato per l’esclusione dai Mondiali, è convinto di essere stato vittima di un’ingiustizia. A quel punto Di Marzio chiede ad Aloisio di portalo a casa del ragazzo, a Villa Fiorito, un sobborgo di Buenos Aires piuttosto malandato. Proverà lui a convincerlo a giocare. Quando finalmente lo vede, rimane deluso: è basso, molto basso, ha i capelli lunghi e tutto sembra tranne che un atleta. Però vuole vedere lo stesso all’opera. Riesce a convincerlo riempiendolo di parole e ragionamenti come solo lui è capace di fare e quando il giovane Maradona scende finalmente in campo, l’estate di Gianni Di Marzio prende una piega inaspettata. In un sol colpo svaniscono i chilometri fatti fino a quel punto, la fatica e le partite viste in quella terra lontana e violenta. In tre giocate (dribbling, punizione e sforbiciata), insomma, in appena dieci minuti, il tecnico napoletano capisce di avere davanti qualcosa di mai visto prima. Allora non perde tempo: per paura che qualche altra squadra italiana possa soffiarglielo e, soprattutto, per non far alzare il prezzo, racconta ai giornalisti presenti che quel ragazzino non è da Napoli. Subito dopo corre dal ragazzo e gli fa firmare una serie di documenti offrendogli la cifra di 220 mila dollari. Resta con lui per tutta la durata del torneo mondiale.
Diego Armando Maradona è felice, ogni giorno si presenta davanti all’albergo di Di Marzio e lo aspetta fuori anche per ore. Sa bene che, dopo tante delusioni, quella che gli si è presentata è l’occasione che può cambiargli la vita. I due spesso pranzano e cenano insieme e Maradona è presente anche all’aeroporto quando il suo nuovo papà calcistico si appresta a tornare in Italia.
“No me olvides”, non ti dimenticare di me, gli grida in spagnolo.
E chi se lo scorda Maradona. Giunto a Napoli, Di Marzio parla del talento argentino al presidente Corrado Ferlaino.
“Questo è un campione” – assicura – “ci fa fare il salto di qualità”. Gli dice di avergli già fatto firmare un precontratto ma, stranamente, Ferlaino, non si fida. “Gianni, ti sei fissato con i giovani. Ora basta”, gli fa. Troppi soldi per un ragazzino di 18 di cui si sa poco e niente, e poi, come se non bastasse, in quell’epoca le frontiere sono chiuse. E così l’affare del secolo salta in un attimo.
Quando, sei anni dopo, nel 1984, lo stesso Ferlaino acquisterà Maradona dal Barcellona per 13 miliardi e mezzo di lire, Di Marzio siederà su un’altra panchina. Il rimpianto più grande di una carriera inimitabile.
un campione eccelle nel suo compito, un mito invece nel suo compito e in quello degli altri. Diego Maradona ha morso il calcio, lo ha divorato, lo ha fatto suo, lo ha sposato. Dalla povertà di Buenos Aires è esplosa una divinità, un modo nuovo di intendere un calciatore, fino a quel tempo mai esistita. Il mito non ha tempo, dopo il suo essere, diventa infinito, si fa quasi fatica a ricordarlo come reale, sorpassa il pensiero e la razionalità. Maradona è riuscito nell’intento di unire i Sud del mondo in un solo inno, ha cercato Napoli e lo ha trovato: un fatto palese, accaduto, oggettivo. Le sue magie calcistiche hanno oltrepassato il campo, la personalità lo ha reso leader popolare, schierandosi sempre dalla parte dei più deboli, senza vergogna nel mostrare le sue fragilità, criticate spudoratamente fino alla morte da chi fa della propria vita una minestra di pregiudizi, decisamente disumani. Diverse sono state anche le proteste: ha visto? Una calciatrice spagnola ha addirittura rifiutato di partecipare al minuto di silenzio, anche una cantante famosa l’ha definito un uomo poco apprezzabile, sollevando un vespaio di polemiche. Perché non capite Maradona? Chi si scandalizza è sempre banale, lo scriveva Pasolini. Del resto, il moralista immagina che non si possa sbagliare mai, e s’illude, ma soprattutto, il moralista, non ha né coraggio e né fantasia, perché non parla davvero per cambiare il mondo, ma per conservarlo: viscido, “normale” e cattivo quale è. Il moralismo è l’arma del potere, ed il moralista ne è lo strumento. Gli abissi di Maradona hanno segnato il mito, lo hanno scolpito, chiediamoci per un attimo, chi siamo? Sbagliamo, cadiamo, ci rimettiamo in sesto e ricadiamo, sperando sempre che ci sia qualcuno, lì, infondo, pronto a farci una carezza. Le dichiarazioni accusatorie contro l’argentino sono l’esempio di una parte della nostra società standard e qualunquista, che non ha mai cambiato rotta. Perché abbiamo bisogno di questo? Cosa ci rende così piccoli? Diego ha alzato “La mano de Dios” in cielo per dare giustizia ad un popolo, poi ha dribblato gli avversari come birilli, regalando il fulcro dell’emotività nella cosiddetta rete del secolo: un’opera d’arte, non solo calcio. Con la morte di Maradona è finita un’era, c’è un prima e c’è un dopo, il mondo piange, ha perso un massimo, colui che ha regalato felicità in dei luoghi dove forse non l’avevano mai provata veramente prima. Diego non c’è più, ce lo raccontano, ma il mito è incancellabile, sarà eterno.
Salvatore Intrieri
Diego Armando Maradona (Lanús, 30 ottobre 1960 – Tigre, 25 novembre 2020)
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Caro Salvatore,
uno striscione argentino molto citato in questi giorni, di e a Maradona diceva: “No importa lo que hiciste con tu vida, sino lo que hiciste con las nuestras” (“non importa cosa hai fatto con la tua vita, importa quello che hai fatto con le nostre”). Che stupenda forma di letteratura popolare sono gli striscioni, scrivono il romanzo di questa epoca meglio di tanti libri. Il mondo (mediato) è stato travolto da una marea di emozioni e ricordi in questi primi giorni senza Maradona, riuscendo a cancellare dalla sua agenda ogni emergenza. Anche solo questo fatto, con uno sguardo attento, può restituirci la misura del livello di pressione che ha sopportato in vita quest’uomo fatto mito. Davvero difficile provare a trovarne altre di parole, ma il tuo tentativo, a pieno titolo quello di uno mmasciatista della prima ora, è riuscito e mi lascia senza molti argomenti a cui controbattere. “Chiediamoci per un attimo, chi siamo?”, scrivi. E penso che in fondo quel “10” che ha portato sulle spalle come nessun altro essere umano prima e dopo, si poteva anche leggere “IO”.
Luca Garritano è un talento inespresso. Qualche anno fa era lì lì per esplodere e poi non se n’è fatto più nulla. Vai a capire perché. Probabilmente non sa spiegarselo neanche lui, nato e cresciuto nel quartiere popolare di via degli Stadi, a pochi passi dallo stadio San Vito che poi, un giorno, è diventato Gigi Marulla.
Già, Marulla, l’idolo di Luca e di chi come lui è diventato grande mangiando pane e pallone, o meglio, pane e Cosenza. Eppure lui, da calciatore, la maglia rossoblu, quella vera, non l’ha indossata da subito, pur essendo bravissimo già in giovanissima età. Si sa come va, certe storie di provincia si conoscono a memoria: puoi essere campione quanto vuoi, ma a casa tua non sarai mai abbastanza.
Luca andava ogni domenica in curva a dannarsi l’anima per i presunti fuoriclasse della serie D che giocavano per la sua squadra del cuore. Mentre lui del Cosenza aveva solo lo stemma del Real, società giovanile grazie alla quale l’Inter un bel giorno lo ha scoperto, facendolo debuttare tra i grandi. Poi tanto girovagare tra alti (soprattutto all’inizio) e bassi, nell’attesa che potesse definitivamente spiccare il volo. “Diventerà un fuoriclasse“, si diceva nell’ambiente pallonaro, però non se n’è fatto più nulla. E questo, vabbè, già lo sappiamo.
Quando ogni illusione, a soli 24 anni, sembrava quasi del tutto svanita, ecco che arriva la chiamata più attesa e meno attesa. “Luca, vuoi giocare col Cosenza?” La risposta è ovvia. Banale. Scontata. Un sogno che si realizza e annulla in un attimo l’Inter, la serie A e ciò che poteva essere e non è stato. Garritano indossa la numero 24 rossoblu e l’uno dicembre del 2018, nei minuti di recupero di una partita tiratissima e vitale per la salvezza, emerge – lui che è piccolo piccolo – come un Gigi Marulla fra le maglie bianche del Padova. E lo affonda. Il Cosenza vince, lui diventa re per una notte, destinata stavolta a durare, si spera. E invece no. Luca Garritano si spegne ancora. Ed è inutile chiedersi di nuovo perché. Le critiche nei suoi confronti diventano aspre, cattive, difficili da mandar giù. Segna ai rivali del Lecce e della Salernitana, ma ormai qualcosa si è rotto.
In estate lascia il Cosenza piangendo, torna al Chievo Verona e nessuno dalle sue parti sembra rimpiangerlo. Fino a una sera caldissima di un’estate surreale del 2020. I tifosi del Cosenza e i parenti di Luca Garritano hanno davanti due schermi, due partite lontane l’una dall’altra eppure all’improvviso mai così vicine.
Il Cosenza sta battendo nettamente la Juve Stabia, ma non basta per evitare i playout. Serve un gol del Chievo che gioca contro il Pescara. È l’87’ minuto e il risultato al Bentegodi di Verona è inchiodato sullo 0 a 0. C’è chi è convinto che sia una partita appattata. Il pareggio va bene a entrambi. Effettivamente nessuno dei ventidue in campo sembra chissà quanto convinto di fare qualcosa di più. Anzi, nessuno tranne uno. Ha il numero 16 sulle spalle e suda, corre e tira continuamente in porta come un dannato. Lo guardi bene e, sì, è proprio lui: Luca Garritano da via degli Stadi. Tutta Cosenza, anche quella che non ha pianto neanche una lacrima quando è andato via, adesso fa il tifo per lui.
“Luchettì, facci il miracolo“. Che ingrati, verrebbe da dire. Con tutto quello che gli avete sputato addosso. E invece lui il miracolo lo fa. Forse perché è un professionista, o semplicemente perché il suo cuore sa andare oltre. All’88’ minuto, Luca Garritano buca la rete del Pescara e con un anno di ritardo si prende il suo Cosenza. Lontano dalla sua Cosenza. Lontano dalla festa e dal suo miracolo sportivo. Insomma, niente di particolare, sia chiaro, soltanto una semplice storia di calcio di provincia, in un tempo vuoto e malato di un posto dove il calcio che Luca sognava da piccolo non sembra esistere più.
No, vabbè, mica Gigi Simoni è stato uno degli allenatori più vincenti della storia del Cosenza Calcio. No, proprio no. Anzi, lo hanno pure esonerato a metà campionato perché si rischiava addirittura di retrocedere. Eppure, di giocatori forti in quella squadra ce n’erano eccome: da Marulla a Padovano, da Galeazzi a Ciro Muro, da Napolitano a Bergamini.
Donato “Denis” Bergamini. Ecco, lui forse un po’ più degli altri. Probabilmente, se non fosse stato per Denis, dell’esperienza di Gigi Simoni (da non confondere con il portiere, lui sì vincente coi Lupi) in riva al Crati sarebbe rimasto un ricordo sbiadito e lontanissimo. Oppure no. Oppure, chi lo sa, col suo talentuoso numero otto biondo a scorazzare in mezzo al campo, quel Cosenza avrebbe centrato la Serie A sfuggita per un soffio nella stagione precedente. Maledetti “se”, che non portano mai da nessuna parte e ogni volta ti fanno risvegliare dentro una serie di rimorsi e rimpianti e nostalgie che se sei un tipo sensibile da quella situazione non ne esci vivo manco per sbaglio.
Gigi Simoni il 18 novembre del 1989 aveva 50 anni e alle spalle un curriculum di tutto rispetto: tre promozioni in A con Genoa e Pisa. Un mister da sogno per una piazza piccola piccola del Sud, tornata in B dopo 25 anni di inferno. Era stato chiamato in terra bruzia per stupire, poi, però, qualcosa è andato subito storto. A partire da quella strana e grigia serata di autunno.
Luigi Simoni da Crevalcore è in ritiro con la squadra e Denis Bergamini non si trova. È sparito poco prima di cena, quando tutti erano al cinema a guardare un film che non ricorda più nessuno. Il piccolo grande tecnico dai capelli bianchi risponde al telefono e dall’altra parte c’è una voce femminile. È quella di Isabella Internò, la ragazza non ragazza del suo numero otto biondo svanito nel nulla. L’avrà vista due o tre volte in quei pochi mesi calabresi e poi null’altro.
“Mister – gli dice la ragazza non ragazza con un tono stranamente pacato – Donato è morto…è finito sotto un camion!”.
Punto.
La storia di Luigi Simoni a Cosenza finisce in quel preciso momento, finisce sotto quel camion. E, al tempo stesso, inizia. Non è importante se il giorno dopo, insieme ai suoi ragazzi privi di Denis, batterà il Messina al San Vito in una partita fredda e surreale. Non conta neanche il suo fallimento personale su quella panchina. Il faccione di Simoni a Cosenza resterà per sempre impresso nella mente dei tifosi per quel momento lì. Un momento terribile.
Qualche anno dopo, parlando con un giornalista, rivelerà che per lui Denis a quel tempo era come un figlio: “Era riservato, ma non avrebbe mai potuto togliersi la vita”. E perderlo in quel modo, quel figlio acquisito, è stato uno shock. Un colpo improvviso e inspiegabile, superato per intensità soltanto dalla prematura scomparsa del vero figlio, Adriano, esattamente dieci anni dopo Bergamini. Destino beffardo. Ottobre 1999, ancora su una strada, stavolta però in un incidente per niente misterioso.
Un dolore atroce che aveva cancellato in un colpo solo tutto ciò che era accaduto fino a poco tempo prima: l’Inter, Ronaldo, la Coppa Uefa, lo scudetto mancato tra le polemiche e la Panchina d’oro. Tutto svanito in un attimo.
Come Denis. Come Adriano.
Tutto svanito in fondo al dolore di un uomo buono, pacato, un uomo che oggi muore, lasciando il calcio vero, quello con la faccia pulita, un po’ più solo.
Ezio Vendrame lo chiamavano il George Best del Tagliamento. È un po’ era vero, somigliava al fuoriclasse irlandese, ma, forse, era ancora più folle. Giampiero Boniperti lo aveva paragonato addirittura a Mario Kempes. Ma chi lo ha visto giocare almeno una volta sostiene che Ezio era ancora più grande. Negli anni 70 era un calciatore fortissimo, geniale, strafottente e anticonformista. Erano tutti convinti che se avesse avuto una testa da calciatore, sarebbe diventato un campionissimo. Ma a lui non interessava diventare qualcuno in un mondo che definiva di plastica, dopato.
“A me piace giocare a calcio, non fare il calciatore”. (Ezio Vendrame)
Era amico del cantautore Piero Ciampi e scriveva anche lui canzoni. Quando, durante una partita con il Padova, lo riconobbe sugli spalti, fermò il gioco per salutarlo. Del cantante diceva: “Mi ha stravolto la vita, se prima mi sentivo un ostaggio del mondo del calcio, dopo averlo conosciuto quel pensiero è stato più forte“.
Cresciuto in un orfanotrofio e non perché non avesse famiglia, nella seconda parte della sua esistenza era diventato uno scrittore e un poeta. Non sopportava il calcio fisico, per lui esistevano solo tecnica e anima. E lui, di tecnica e anima, ne aveva da vendere. Capelli lunghi, look trasgressivo e talento incompiuto senza rimpianti. Un po’ come Mario Balotelli, l’unico per cui aveva deciso di fare il tifo: “è autentico in un mondo di omini, non si nasconde, sbaglia e ci mette la faccia“.
In certe partite, assalito dalla noia, saliva con entrambi i piedi sul pallone e guardava tutti dall’alto. Un pomeriggio, sempre con addosso la maglia del Padova, stufo di dover recitare la parte di chi non sapeva che quella che stava giocando era una partita combinata, prese il pallone, dribblò i compagni di squadra, il suo portiere e davanti alla porta fece finta di calciare. “Un malato di cuore – disse poi – non può venire a vedermi giocare“.
Il gol non lo entusiasmava come un tunnel o un colpo di tacco. Il titolo del suo libro più celebre, “Se mi mandi in tribuna, godo”, aveva preso spunto da un episodio della sua esperienza con la maglia del Napoli. A Cagliari, nel marzo del 1975, spedito in tribuna da mister Vinicio che non lo sopportava, decise di consolarsi nel bagno dello stadio con una ragazza appena conosciuta. Anche se, giurava, “non ho mai fatto l’amore senza sentimento“.
Nato a Casarza della Delizia dove è sepolto Pier Paolo Pasolini, oltre che con Padova e Napoli, ha giocato anche con Spal, Siena e Lanerossi Vicenza. Per un breve periodo è stato anche un allenatore.
Oggi, 4 aprile, dopo una lunga malattia, Ezio Vendrame è morto. Aveva 72 anni. Una volta, a Vicenza, guardò in faccia i suoi tifosi e li definì fuori di testa.
“Io non vi capisco, in fondo so solo tirare calci a un pallone, non sono un chirurgo che salva vite umane e nemmeno un operaio che si deve fare un culo così per arrivare alla fine del mese. Chissà quante cose sapete fare voi meglio di me. Che cosa saranno mai queste partite di calcio. Inventatevi delle alternative domenicali. Andate a vedervi un bel film, leggetevi un libro, oppure restate a casa e fatevi una bella scopata, cazzo. Non possiamo vivere di solo calcio“.
Scende la curva dei contagi e salgono i decessi. Scendo le scale per lasciare l’organico davanti al portone e salgono i vicini spaventati. Esco per fare la spesa e sto in fila, davanti all’ingresso, in attesa del mio turno, a un carrello di distanza dal bestione biondo con mantello, guanti e mascherina da supereroe.
Aspetto, mi annoio, mi assento e non so perché mi viene in mente Marco Pantani che scattava in salita per rendere più breve l’agonia. Vorrei imitarlo. Marco, l’erede di Fausto, che come Fausto è andato via troppo presto e senza ragione.
Si avvicina il mio turno e penso a un preside che ieri ha riunito i docenti in una sorta di collegio digitale surreale, poi li ha congedati augurandogli di superare l’emergenza in salute e senza lutti familiari. E non è affatto strano. I funerali sono spariti, insieme alle condoglianze a chi non può neanche piangere davanti alle bare aperte.
Qui in Lombardia, dove il Covid ha trovato nella pianura un terreno fertile per espandersi ovunque come una mafia, ci si parla addosso indossando metri di distanza e accessori di Carnevale. Nel mio paese minuscolo di trenta contagiati e morti intorno, le sirene delle ambulanze sono la colonna sonora di un dramma neorealista senza bianco e nero, sospese soltanto dal minuto di silenzio e dai “tricolori dal balcone per ricordare i nostri cari”, come consigliato dal sindaco.
L’immagine del Papa gregario, che invece di mollare la presa, tira in salita la nostra solitudine, mi fa pensare al Medioevo o a certe montagne tremende e silenziose del dopoguerra, quando le vittorie di Coppi diventavano romanzo, mentre quelle di Merckx – lo diceva lui stesso – erano solo cronaca.
Un uomo solo al comando ci ricorda che nessuno si salva da solo.
Le parole sudamericane di Bergoglio insistono sull’uguaglianza, un concetto talmente dimenticato da entusiasmare persino chi non va a messa la domenica o non ha mai preso parte a uno sciopero.
Ora corro verso casa, mi guardo intorno, ho il fiato corto, fatico. Vedo l’arrivo. Il postino si incazza, distribuisce buste e pacchi sotto la pioggia, incrocia il mio sguardo e mi chiede perché debba correre rischi così, senza indicazioni precise.
Sempre in salita, dice. “In questi giorni non c’è mai un momento di pace“.
Vorrei aiutarlo, passargli un goccio d’acqua o una boraccia, ma spunta una volante della polizia, rallenta davanti ai miei occhiali appannati dalla mascherina e mi fa capire che sto per diventare un pericolo pubblico. Che ci faccio lì, sulla strada, accanto al postino? Faccio per andarmene e se ne va pure lei. Lentamente. Come una ammiraglia. Salire le scale con buste e pacchi d’acqua naturale è come fare Tourmalet e Cima Coppi in un’unica tappa, ma con le gambe di un velocista. Servirebbero le sue di gambe, quelle del grande Fausto, per scalare questa vetta senza ossigeno.
Sì, proprio lui che fu sconfitto solo da un errore medico: si pensava a una semplice influenza e invece era malaria. Aria cattiva. Aria d’altri tempi e un po’ anche di questi. Quando arrivo al traguardo, butto tutto a terra, lascio bici e scarpe sul pianerottolo e mi accontento, ancora una volta, di non essere arrivato fuori tempo massimo. Uscire di casa è diventato faticoso e non sono più allenato, ma in compenso neanche oggi mi squalificheranno.
L’edizione che ho nella mia libreria è quella del 1967. Apparteneva a tale Bruno Samori (chissà chi era, chissà perché questo volume adesso è in questa strada ammucchiato tra tanti altri); le pagine sono quasi gialle e macchiate nell’angolo, nella parte in cui sono rilegate. L’ho trovato su una bancarella torinese: due euro e il sorriso del signore che me l’ha venduto, giallo pure quello, per le storie del “Le libere donne di Magliano“, scritto nel 1953 da Mario Tobino.
Il manicomio in cui tutto succede, perché “nel manicomio
tutto si svolge tra i muri”, è nella campagna Toscana: “è su un colle, un
piccolo colle”. I corridoi sono bui.
È qui quindi che vive un esercito di creature addolorate e
deliranti, innamorate e impaurite, agitate e abbandonate. Feroci.
Schizofreniche, depresse, spiritate.
Tobino spesso ne descrive gli occhi, perché ognuna porta
nello sguardo ciò di cui deve liberarsi, la condanna.
Fate e streghe giovani o vecchie che trascorrono le proprie
giornate nelle loro celle, “piccole
stanze dalle pareti nude”, con le finestre sbarrate.
Un microcosmo indipendente, con le sue regole e con i suoi
ritmi scanditi dalle malattie.
Qui vivono gli infermieri che arrivano dal paese, qui vive
il medico che racconta mentre cura e studia i suoi pazienti, racconta mentre li
ama.
Li ama mentre e proprio perché li racconta, facendo i conti
con l’impotenza: i malati possono guarire, oppure no; e hanno volti e
ossessioni e passati tragici e felici. Lasciare traccia e coltivare la memoria
di chi abbiamo visto soffrire è una delle forme più pure d’amore che ci è
concessa, nonostante quell’impotenza.
Ci scopriamo umani perché compassionevoli.
Fuori intanto, nei cortili e oltre la collina, la natura
segue il proprio corso: le stagioni si alternano, gli alberi inaridiscono e
poi, puntuali, rifioriscono.
Alle 20, ogni giorno, tutti alle finestre per applaudire gli sforzi immani del personale sanitario. In Spagna siamo a questa puntata della serie tv, come successe in Italia agli inizi, così anche la popolazione spagnola ha scelto per animare chi prova a frenare la pandemia a costo della propria stessa salute.
Da ragazzo, le sirene delle ambulanze non credo di averle mai sentite. Non le sentivo nel quartiere popolare di Cosenza dove stavo il giorno, non le sentivo la sera nel paesino dormitorio dove abitavo. Probabilmente nel quartiere le ambulanze entravano senza bisogno di sirene, non c’era mica traffico. Idem nel paesino. Nemmeno quando mi ero spaccato la testa sbattendo sullo spigolo di un marciapiede provando a impennare con la bici a 14 anni avevo sentito la sirena. Un po’ perché ero mezzo svenuto, un po’ perché mi aveva portato in ospedale mia mamma con la sua 126 scassata, con mia zia che sventolava un fazzoletto bianco e suonava il clacson nel traffico (o era lei che guidava?). Di certo mi ricordo che la nostra sirena era un tir che si era reso conto della situazione e aggiungeva decibels al clacson spompato della 126.
Ricordo che ci feci caso per la prima volta a Praga, in gita col liceo. Sotto l’hotel passavano ambulanze e facevano un casino assurdo, un suono diverso da quelle italiane, o almeno credo.
Quando a 25 anni sono andato via di casa, ho iniziato a sentire le sirene ogni giorno. Città più grandi, traffico più intenso, più ambulanze. Poi però ti abitui, fanno parte del paesaggio urbano. Dopo tutto una sirena è autoctona, i pappagalli tropicali che gracchiano tutto il giorno meno. Da qualche giorno però, a Madrid invece che il chiasso spagnolo regna il silenzio, niente traffico, niente bar, niente ressa. Si sentono le gazze, i pappagalli, qualche rondine e mai mi sarei sognato di sentire il canto degli uccelli a Madrid. Interrotto solo da ambulanze. Una ogni 5 minuti. 3400 morti. Silenzio, uccelli, sirene e applausi al personale sanitario alle 20. Terza settimana così. E chissà quanto manca.
Vivo in un quartiere di Madrid nel quale la maggioranza dei nostri vicini ha votato per il PP e per VOX, perciò proviamo a bilanciare questi applausi urlando ¡Que viva la sanidad publica! inneggiando a più fondi per la ricerca (chiaro esempio di conflitto di interesse personale, perché è quello che faccio nella vita). Riassumendo: VOX vede ogni tassa come fumo negli occhi e il PP ha per anni tagliato i fondi alla sanità in favore di opere di dubbia utilità, come per esempio un campo da golf in pieno centro di Madrid.
Ma il virus non ha colore politico e in questi giorni sta colpendo a destra e a sinistra ovviamente, senza distinzioni. I primi a cadere sono stati i due leader di VOX, Ortega Smith si è contagiato durante un viaggio a Milano e durante il congresso del partito ha contagiato anche Santiago Abascal (e chissá quanti altri militanti). I due Rambo hanno lanciato proclami battaglieri contro il virus, il primo è un ex militare che ama sparare con fucili da guerra proibiti ai civili, il secondo si vanta di girare sempre con la sua Smith & Wesson, ma i proiettili non gli serviranno in questa battaglia. Abascal ha annunciato di aver sconfitto il coronavirus in una settimana ed è già fuori dalla quarantena, in barba ai decreti ministeriali.
Meanwhile, a video has appeared of Mr. Ortega Smith, Vox secretary general, firing a rifle at a military shooting range. "That's one of those Islamic State fuckers", he says in the next video, pointing to a head shot on the paper target. Via @TraderLifterpic.twitter.com/6ATpaLvs7W
Per par condicio virale, a sinistra sono risultate positive anche la moglie di Pedro Sanchez e tre ministre, fra le quali Irene Montero (che è anche la moglie del vicepresidente Pablo Iglesias), presumibilmente contagiate durante la grande manifestazione dell’8 marzo. Preoccupa la vicepresidenta Carmen Calvo.
Fernando Simón, l’imperturbabile responsabile della protezione civile, dall’aria stralunata e dalla voce mite, è positivo al Covid-19. Ogni mattina snocciola dati, spiega le misure da adottare e anima gli spagnoli a continuare la lotta. Si pensava fosse solo stress, e invece. Molto stress sta accumulando il premier Pedro Sanchez; oltre alla crisi, deve gestire la positivitá di sua moglie, di sua madre e di suo suocero. Dovrebbe stare in quarantena, ma anche Simón gli ha dato via libera vista la situazione, le conferenze stampa le fa da solo, le domande dei giornalisti gli arrivano via Whatsapp.
Tuttavia, il caso piú emblematico è la positivitá di Esperanza Aguirre. Ex ministra, ex presidente del senato e soprattutto ex governatrice della Regione di Madrid, la Aguirre era una delle papabili alla successione del ex capo di governo Mariano Rajoy, ma gli immancabili scandali di corruzione (vedi campo da golf) e una fuga da un posto di blocco che scatenò un inseguimento in piena Madrid degno di un film hollywoodiano fermarono la sua carriera. La Aguirre è stata una paladina della sanità privata e dei tagli alla spesa pubblica, arrivò addirittura a cercare lo scontro fisico provocando il personale sanitario che protestava contro le sue politiche.
Appena saputo della positività, lei e suo marito sono stati ricoverati in un ospedale di Madrid, ovviamente pubblico. Poi sono guariti in pochi giorni. In maniera assurda, invece, la vicepresidente Carmen Calvo, paladina della sanità pubblica, è invece ricoverata in un centro convenzionato: qui ai dipendenti statali si affibbia per decreto un’assicurazione sanitaria complementare, eredità dei governi del PP.
La situazione è gravissima e a qualcosa dovremo pure appigliarci, quindi la speranza è che gli applausi ai sanitari si tramutino in una più grande consapevolezza di quanto sia importante spendere nella sanità pubblica, pianificare e promuovere la ricerca. In molti qui in Spagna ci auguriamo che il coronavirus sia un piede di porco per cambiare il modello di sviluppo e sembrerebbe che non siamo gli unici, come confermano segnali sempre più forti provenienti dalla BCE e dal suo vice presidente Luis de Guindos, ex ministro all’Economia dell’ala ultraliberista del PP.
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nella foto di copertina: Due operatori sanitari si abbracciano al di fuori del Pronto Soccorso del Severo Ochoa Hospital a Leganes, in Spagna.(Reuters – Susanna Vera)
Dicono che questa sarà una settimana cruciale. È una speranza legata ai giorni di isolamento a cui siamo stati obbligati e ai contagi che hanno smesso di galoppare. Anche se le vittime della peste sono ancora troppe.
Qui in Lombardia, poi, non ne parliamo proprio. A pochi chilometri di distanza dal mio avamposto di tricolori sventolanti, scope sbattute sull’uscio di casa da fantasmi con le unghie delle mani smaltate di rosso e cani che portano padroni senza volto verso il fiume, sono morte quattro persone e la polizia ha attivato un numero di telefono al servizio dei cittadini in cui si dà campo libero alla delazione.
L’appello su Facebook tollera l’intolleranza: “Ogni notizia, ogni voce, può essere utile”. Ogni notizia. Ogni voce. Ogni drone, autorizzato a sorvolare i cieli della penisola alla ricerca di infettati e trasgressori di decreti. Ma forse è giusto così. In questi tempi di guerra invisibile, è naturale coltivare il terrore, il sospetto, la diffidenza, l’insofferenza.
Persino io, la mattina, quando vorrei dormire un po’ di più, me la prendo coi piccioni che tubano furiosamente sulla ringhiera del mio balcone. Perché me lo fanno apposta, lo so. È chissà se fra di loro c’è un lontano parente di “Paddy”, che nel 1944 raggiunse in volo l’Inghilterra per portare un messaggio cifrato sul conflitto in Normandia. Nel silenzio surreale di questo non luogo di provincia, popolato prevalentemente da anziani, alcuni dei quali colpiti dal virus e dalla depressione, emerge l’urlo di dolore o d’amore dei piccioni maligni che non so nemmeno se soffrono il freddo come me.
Il freddo ci mancava. Ho sentito che le temperature in picchiata di questi giorni porteranno altre patologie di raffreddamento che causeranno nuova confusione nell’individuare la diagnosi corretta. Che tradotto, significa fare uno starnuto e sentirsi addosso il Covid 19. Ma passerà presto, per poi toccare all’allergia.
Non solo starnuti, il mio balcone sul Po è raggiunto anche da moderati sospiri di sollievo. Notizie che vengono da dietro l’angolo e da un po’ più in là. La prima riguarda una donna che ha donato un mucchio di mascherine al comune in cui vivo. La seconda coinvolge l’ospedale da campo di Bergamo: dopo venti giorni di attesa snervante, il governatore leghista Attilio Fontana ha accettato l’invasione della “pericolosa” Emergency di Gino Strada, che ora potrà insegnare le tecniche di contenimento del contagio tra i medici. Attività, queste, messe a punto dalla ONG italiana per anni nel bel mezzo di guerre stavolta visibili e neanche troppo lontane, ma che a queste latitudini non hanno mai fatto piangere nessuno.
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#NiUnaMenos | Il femminismo nel mondo e a casa mia
Francesca Pignataro
“Se le nostre vite non valgono noi scioperiamo”, questo lo slogan principale del movimento #NiUnaMenos (Non una di meno in Italia), che l’8 marzo ha trovato eco nelle piazze di almeno 50 paesi del mondo ed in innumerevoli città italiane. Quella che più ha impressionato è stata la marcia a Montevideo, in Uruguay; Mmasciata.it ha trasmesso in diretta attraverso i suoi canali social la marcia del corteo partito dal Colosseo a Roma, io ho partecipato a quella organizzata tra Cosenza e la sua università.
All’Unical si è occupato dell’organizzazione dello sciopero il Comitato Unico di Garanzia, in collaborazione con il Centro di Women’s Studies “Milly Villa” assieme al Centro antiviolenza “Roberta Lanzino”. Le motivazioni dello sciopero sono differenti, accomunate però da un problema comune: l’ancora irrisolta questione della diseguaglianza di genere. Questioni centrali, oltre alla violenza di genere, sono ad esempio il cosiddetto gender wage gap, la richiesta di maggior sostegno ai centri antiviolenza, anche se uno dei temi più caldi, almeno in Italia, è la rivendicazione del proprio diritto di usufruire di quanto stabilito dalla legge 194/1978 in tema di aborto. Delle pensiline dell’università intorno alle 11 è partito il corteo, che ha percorso l’intero ponte, tra uno slogan ed un altro, fino ad arrivare in piazza Vermicelli. Donne e uomini hanno scioperato assieme sotto la pioggia, una piccola folla, guardata con relativo sospetto dai passanti, che hanno scelto di non aggregarsi. Se tutti, almeno si spera, condividono i motivi della lotta, in molti hanno considerato l’evento “inutile”, seppur per ragioni diverse. Secondo alcuni, ad esempio, è necessario lottare assieme per sovvertire il sistema capitalistico ed instaurare il socialismo, perché questa è l’unica strada possibile da percorrere per superare le diseguaglianze di genere. Oppure ancora, il movimento femminista, per qualcuno, dovrebbe autolimitarsi e comprendere che esistono problematiche più gravi ed urgenti di cui occuparsi. La lotta però, come suggerisce un uomo che ha preso parte al corteo, ha senso ed è indispensabile all’interno di questa società, ma è necessario inserirla in un contesto più ampio perché le discriminazioni di genere sono schemi sociali creati nel corso della storia.
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Nel pomeriggio, verso le 17, la manifestazione si è spostata a Cosenza, partendo dal Comune per arrivare a piazza Kennedy, percorrendo l’isola pedonale di Corso Mazzini. Il corteo era certamente più numeroso e, fortunatamente, non mancavano gli uomini ed emozionante era vedere le bambine ed i bambini manifestare assieme ai propri genitori e nonni. La manifestazione in sé ha mostrato una città attenta, certamente consapevole dell’esistenza di un problema, ma l’interesse dimostrato potrebbe esser stato mosso da passioni passeggere e domani, finita la ricorrenza (nessuno vuole demonizzare le date simboliche), c’è il rischio che si torni a normalizzare tutti quei comportamenti discriminatori oggi condannati.
È stato un tentativo di lotta che ha richiamato all’attenti un certo strato di popolazione e ha mostrato uno dei pochi aspetti positivi della globalizzazione. Come suggerisce un manifestante, l’idea di scioperare assieme in diverse parti del mondo dimostra come sia possibile riuscire ad ottenere una globalizzazione non solo dei mercati, che forse è meno positiva, ma anche e soprattutto dei diritti. La giornata ha mostrato però anche i suoi limiti, acutamente segnalati da chi crede nell’esigenza della lotta, ma è scettico sulle modalità in cui essa viene condotta. Per esempio, se il maschilismo è un male, lo è anche la misandria, proprio per questo non sono stati apprezzati tutti gli slogan proposti. Rivolgersi all’uomo, inteso come maschio, con troppa violenza è controproducente perché aumenta il divario tra i sessi, generando incomunicabilità, come suggerito da un attento osservatore, ed inoltre non tiene conto delle nuove categorie di cui il movimento femminista si occupa: le persone transgender e non binarie.
È insomma indispensabile cercare dei nuovi modi per combattere, utilizzare una comunicazione innovativa, in linea con la quarta ondata del femminismo, che disconosce il ricorso alla violenza e che condanna anche il sessismo di rigetto. La manifestazione si è conclusa in modo allegro e con una piacevole parentesi di femminismo intersezionale, ricordando le lotte di donne discriminate non solo in quanto donne, ma anche a causa della loro etnia e collocazione geografica, facendo ad esempio riferimento al caso di Malala Yousafzai, giovane Premio Nobel per la Pace pakistana nel 2014 e simbolo dei diritti civili e della lotta per l’educazione. Cosa resta di una giornata all’insegna della parità? La certezza che le modalità di lotta possono migliorare, che le nuove generazioni possono ed hanno il dovere di diventare parti attive della società per combattere un sistema ancora maschilista, ma l’unica cosa che non si può smettere di fare è resistere e non arrendersi allo stato delle cose, ricordando che “non è libero l’uomo che opprime la donna”.