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SPOON RIVER | Micarano e i suoi fratelli nella belle époque di Rodotà

Matteo Dalena
Matteo Dalena
Febbraio25/ 2015
cosenza fine '800
Una foto d’epoca di Cosenza, quando il corso centrale era la fine della città.

di Matteo Dalena

Hoè giuvinò, Hoè giuvinò pigliativi st’alici, vènanu i l’Amantìa. In un volume poco conosciuto e ormai prossimo al mezzo secolo di vita si materializzano voci, scorci di bel vivere, candore umano e rotondità di un cosmo festaiolo e battagliero, non ancora “messo in riga” dal razionalismo fascista e poi sconquassato dalle successive gittate di grigiore e laterizi postmoderni. Luigi Rodotà, giornalista e poeta nato nel 1893 a San Benedetto Ullano, della stessa famiglia di Stefano, nel 1966 consegna all’editore Luigi Pellegrini, Visioni e voci della Vecchia Cosenza, caleidoscopio di immagini, suoni e bisbigli sciorinati sul sottilissimo confine tra il diretto e vivido ricordo e un autorevole “sentito dire”.

micaranoCi accoglie Micarano (nella foto), strampalato banditore alimentare della belle époque cosentina, che ogni mattina lasciava Piazza Piccola per dirigersi fino al limite estremo della città. Giù al Casotto del Dazio di via Mazzini, non ancora “Corso”, pronti alla pesatura i “gabellotti” ispezionavano i carichi di pesce o di carne macellata di fresco, mentre i cerchioni ferrati delle diligenze postali di Don Giuseppe Rizzo sparivano nella polvere o sprofondavano nel fango della periferia. Il passo di Micarano in direzione Piazza Piccola, luogo di aste e contrattazioni, doveva essere spedito. Riusciva quasi a tenere il passo di quella carrozza a due mantici che inerpicandosi lungo corso Telesio portava in Piazza della Prefettura. Era tutta là la città di cento anni fa. Circa ventimila anime compresse e brulicanti in un abitato che non andava oltre la sopracitata via Mazzini e le piazze del Carmine e della Riforma. Erano gli anni dell’acqua del Zumpo in quasi tutte le case e dell’arrivo del primo modello di automobile costruito dalla Morchand di Piacenza (19 aprile del 1902), della luce elettrica che il 19 ottobre del 1906 mandò in pensione i vetusti lampioni a gas e delle prime postazioni di telefonia pubblica (marzo del 1907). Mentre si celebrava il primo grande processo ai guagliuni i malavita, guappi armati di rasoi affilatissimi da far vibrare alla prima guardata storta. Tra mercati e spezierie, alambicchi e mortai, cartolai, merciai, orefici e sellai, orciuoli, pignatte, brocche, scodelle e campanelli si stagliavano inconfondibili i rantoli mattutini di vecchi strilloni come Micarano, tipi originali, derelitti o semplicemente strampalati di cui la memoria delle città è spesso disadorna.

Biasco ed Avarelli: Musici provenienti dal glorioso complesso banditistico del primo Novecento diretto dal Maestro Schiralli (comunemente detto “Quintale”) e poi dal Maestro Fusco, poi l’alcool, la miseria e qualche infermità nascosta accomunarono entrambi nel triste destino di stendere la mano ai passanti spesso con insistenza fastidiosa e molesta. Solo in qualche fugace lucidità di mente ritornavano tranquilli e con un altro volto: quello di Biasco e Avarelli docili ed appassionati elementi dei complessi musicali di un tempo. «Sono Biasco e Biasco vale – esclamava – son la musica, datemi la tromba». Avarelli invece mendicava il soldo, ostentando una curiosa maniera di parlare in francese. Poi un altro bicchiere di vino, seguito da qualche frase oscena, e tornavano a sonnecchiare sui gradini dei negozi, miserabili relitti umani dileggiati dai monelli impertinenti e malignetti, senza pietà.

Caiuzzo e Vincenzo: due deficienti che si somigliavano come due gocce d’acqua. Di età indefinibile, sembrava che il tempo di fosse fermato su di essi. Caiuzzo recava sempre sul capo una corona di ramoscelli e portava una quantità di cianfrusaglie che costituivano il suo orgoglio e, a tracolla, un rustico ed originale strumento tra il liuto e la chitarra donde traeva strani rumori che accompagnavano una sua danza tutta particolare. Dormivano accanto a un forno posto al pianterreno umido e buio di una casetta in un vicolo angusto dello Spirito Santo e trasportavano colà ogni giorno grosse fascine a legna da ardere per la cottura del pane. Un giorno il fumo ed i carboni del forno avevano insudiciato il viso e il corpo di Vincenzo fuor di misura tanto da apparire irriconoscibile e grottesco. Ma era festa e i due fratelli siamesi non potevano rinunziare al consueto giro per la città con chitarra e danza. Caiuzzo condusse Vincenzo lungo il Crati e, nel punto in cui l’acqua era più alta, lo costrinse, malgrado il freddo, a svestirsi e a tuffarsi tra i torbidi gorghi del fiume. Ma anche dal volto occorreva mandar via il nero fumo e cacciò in fondo a viva forza anche il capo di quel poveraccio. E lo mantenne giù per un bel poco! Quando ritenne d’aver mondato da ogni lordura il suo compagno, questi non dava più segni di vita! Poi scomparve anche Caiuzzo, forse vittima dello stesso destino e tacque per sempre la sua chitarra scordata.

nanuzzuNanuzzu: ultimo rappresentante dei vecchi strilloni cosentini (foto a destra), incurvato, dal passo sempre incerto e traballante, con qualche ruga più profonda sul viso e coi capelli ormai incanutiti che escono disordinati e ribelli fuor dal berretto bisunto. Ci viene incontro con quel suo caratteristico barbugliare smozzicato e con quel suo linguaggio strano che pochi comprendono. Vende ancora qualche giornale, arrancando su e giù per la città, pronunzia appena il titolo del giornale che vende, passa lungo i muri delle strade come un’ombra, quasi per non dar fastidio ai nuovi venuti. Il suo guadagno si traduce quasi sempre in un buon bicchiere di vino: quanto basta per rinfrancarsi dal freddo, dalla pioggia e dimenticare il tempo che passa.

Dopo di loro Don Luigi il Generale, Miliuzzu, Totonn’u Squalu, Centu lire, Michele da bicicletta, Mastru Alberto sono gli eredi involontari di una progènie forse maledetta dalla vita, quella dei questuanti strampalati e dai modi un po’ naif, allontanata dalla cronache alte della città ma destinata a rimanere incastonata nei ricordi sul confine della Città.

Matteo Dalena
Matteo Dalena

Storico con la passione per la poesia, imbrattacarte per spirito civile. Di resistenza.

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