di Gianfranco Donadio
Avevo meno di dieci anni quando, durante una di quelle campagne elettorali per elezioni comunali, quasi di felliniana memoria, venni attratto da una vecchia Fiat Seicento color crema. Era bellissima, aveva sul tettuccio un altoparlante a megafono e una voce dal di dentro recitava:
“Bandiera rossa alla riscossa!” e “Avanti Popolo; Popolo Avanti…!”. Fu mio padre a sussurrarmi che quella era la voce di Ciccio De Marco, poeta di Pedace.
Così comincia il mio mito. Doveva essere davvero una bella persona “quello della voce” delicata. Cercai il vecchio 45 giri dall’etichetta rossa, con il testo integrale in due tempi. Mi cerco gli altri vinili con tutte le poesie del poeta. Le ascolto e le riascolto durante la mia adolescenza e mi diverto ad immaginare i personaggi tipici di un qualsiasi paese di quell’epoca. Il personaggio diventa per me sempre più gigantesco, specie quando sento le sue parole via etere nelle periodiche trasmissioni radiofoniche della Rai regionale. Lo conosco per la prima volta una trentina di anni addietro, durante un’iniziativa di Anselmo Fata direttore di un mensile di Spezzano Grande, che ogni anno organizzava una rassegna di poesie e poeti, con ospite fisso il geniale e simpatico figlio di Ciardullo.
Viveva a Milano e tornava in estate a fare un giro nella sua Perito di Pedace, dove era nato nel 1917.
Torno spesso nel paese ricco di intellettuali e poeti, dove ho lavorato per alcuni miei reportage. Proprio nello scorso mese di settembre, pensavo di studiarmi un’ intervista che avrei voluto somministrare al grande Ciccio De Marco. Ma non ci sono riuscito. Apprendo, dal profilo facebook tutto sana ironia dell’amico Nunzio Scalercio, della scomparsa del mio caro poeta, padre di quel personaggio chiamato Rosarbino, come sottolinea Piromalli nel secondo volume delle pagine de “La letteratura calabrese”, (Ed. Pellegrini, 1996) un soldato che nelle lettere al padre, pur richiamandosi ai tratti fondamentali di Jugale, tenta una valutazione del mondo dal suo angolo visuale, contrapponendo il mondo della campagna a quello della città, la vita patriarcale a quella moderna. Ma Rosarbino sa giudicare con un metro di saggezza contadina le varie situazioni. Anche quella della scomparsa di suo padre che con la penna lo aveva creato.
Tratto da: Ciccio De Marco, “Mio caro patre – ovvero l’epistolario di Rosarbino” Ediz. Artecultura – Milano.
Mio caro patre, scrivo la presente
ppe dirti che domenica ho mangiato
alla casa d’a zita del sergente,
ca illo pure a mie mi ci ha portato:
Vieni – m’ha ditto – ca oie mi fidanzo,
e ppe la contentizza fanno il pranzo.
Finito il pranzo, ccu le panze all’aria
tutti quanti nzignamu a digerire,
mentre il poeta caccia la rimaria
de la sacchetta e ci la fa sentire,
ca il verso – disse – quannu è ricamato,
e megliu assai de lu bicarbonato!
Diceva ca la notte nun dormìa,
ppe cuntare le stille ad una ad una…
e mentre chi lu cuntu se facìa
pensava forte a na fanciulla bruna
chiamata freve, ma il suo nome vero
era Brambilla Rosa di Savero!
Quannu ha finitu illu, doppu n’ora,
ppe ne fare cuntienti a tutti nue,
Zia Ninì chi passava ppe tenora
ha dovuto cantare O sole sue…
e ancora, poi da sola n’ha cantato
fino a quannu i vicini hanno bussato!
Non ho altro da dirti ca ho frunutu.
Si lu vidi, salutame a zu Ntoni.
Famme sapire si Peppe lu Scutu
ch’era malatu è muortu o ancora noni!
Il vaglia ti l’ho fatto stamatino.
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