(NB. Questo articolo contiene spoiler, anticipazioni che potrebbero svelare alcuni tratti salienti della trama del film Lazzaro Felice, di Alice Rorhwacher, nelle sale italiane dal 31maggio)
Lazzaro felice non è un film per tutti i gusti. All’estero è stato trattato da capolavoro mentre l’intellighenzia protosovranista che va forte dalle nostre parti l’ha recepito come una cartolina sbagliata dell’Italia, un pamphlet di luoghi comuni che piacciono alla sinistra italiana e agli stranieri in cerca di stereotipi esotici, che riportano l’ordine del discorso alla lotta di classe e al vocabolario caro al pensiero gramsciano.
In effetti il film di Alice Rohrwacher che ha vinto il premio per la miglior sceneggiatura a Cannes è un film antico – nella scelta del full frame e dei personaggi – che ricorda i primi capolavori di Ermanno Olmi, recentemente scomparso, a cui la regista ha dedicato un pensiero nel ritirare il premio. Di quell’autore “santo” che raccontava gli ultimi per vocazione, si ritrova molto nel Lazzaro contemporaneo, che, come nei Vangeli, resuscita, e senza volerlo vive un presente che lo respinge e infine lo uccide di nuovo, del tutto. Una storia amara e triste, che racconta, ai giorni nostri, la vita da mezzadri (pratica abolita nell’82) di 54 contadini, stipati da decenni in tre casupole in una piantagione di tabacco, tenuti in schiavitù da una marchesa cinica e opportunista, che sfrutta la loro ignoranza e il loro isolamento dal mondo. Un gruppo di primitivi in via di estinzione, sopravvivenze di un tempo che – almeno al primo sguardo – sembra finito da un pezzo: non ricevono soldi in cambio della loro fatica, accumulano debiti con la padrona, sono analfabeti, educati solo alla religione cattolica, di cui la marchesa si fa sacerdotessa, non hanno accesso ad alcun tipo di tecnologia e vivono in una comune promiscua, anti-igienica e immorale. Intorno a loro, soltanto l’orizzonte dei campi, immersi nel silenzio severo della terra e delle sue creature che conoscono la storia e ricordano sempre.
Il “grande inganno” della mezzadria “legale” improvvisamente crolla, sotto i colpi di un capriccio mascherato da battaglia ideologica del figlio viziato della marchesa, e i contadini si ritrovano improvvisamente in città, dove, traditi dalla Giustizia che aveva promesso loro case sicure (in una dinamica che ricorda la gestione dei terremotati), si rifugiano nelle baracche improvvisate vicino ai binari del treno. Abbandonato il loro mestiere secolare e con esso la loro identità, i braccianti si ritrovano a vivere di espedienti, rubando di qua e di là, in una condizione di disagio maggiore rispetto a quello vissuto in campagna, dove almeno mangiavano (poco), dormivano al sicuro e avevano un nemico certo: la “serpe velenosa” che li teneva a stecchetto e li comandava.
Il giovane Lazzaro, per un incidente fatale, non partecipa all’esodo e raggiunge la sua comunità, ormai cittadina, al risveglio da un letargo durato 20 anni. Oggi come allora si fida ciecamente del prossimo, è sempre disponibile e accogliente, non si stanca, non mangia, non ha bisogno di riposare: è ancora lo schiavo perfetto; non come gli altri, che si sono adeguati alle leggi della città, in un processo di imbarbarimento al contrario, che li ha resi liberi, ma li fa sentire a loro agio con la ferocia urbana.
L’arrivo in città del giovane santo, scambiato dai suoi per un fantasma, è funzionale al recupero delle radici per la sua comunità, in preda a quella che Ernesto De Martino chiamava la perdita della presenza. E racconta, anche in modo didascalico, uno dei mali del nostro tempo, le banche, contro le quali Lazzaro si oppone con l’arma della parola, ben più pericolosa della presunta pistola che nasconde in tasca.
Lazzaro, che è anche il principe Myskin di Dostoevskij e il San Francesco del Cantico dei Cantici, travalica lo spazio e il tempo, portando con sé la musica dei giusti – quella della zampogna – degli ingenui, degli ultimi della fila, di quelli che sono rimasti nell’anticamera della storia, che si sono ribellati al male per sbaglio e non per ideologia.
La sua fine e la corsa in salita del lupo per le vie trafficate di una città industriale è la morte rituale di alcune parti di noi, sotto i colpi di un’età postmoderna che ci uccide ogni giorno e ci impone il ritorno brusco alla guerra di sopravvivenza di tutti contro tutti.
Il film, che non scade in un atteggiamento passatista e primitivista verso il passato mitico, anzi gioca con gli stereotipi, mescolando gli archetipi (religiosi, mitologici e letterari), riprende con delicatezza la tradizione demologica e meridionalista italiana, portando sullo schermo i temi cari al già citato Olmi, Pasolini, Bertolucci e soprattutto alle penne di Antonio Gramsci, Carlo Levi, Corrado Alvaro, Ernesto De Martino, Alberto Mario Cirese, Diego Carpitella, Luigi Lombardi Satriani, Vito Teti e tanti altri che hanno raccontato, spesso da meridionali, il mondo contadino in lungo e in largo.
Oltre all’amarcord storico-antropologico di come eravamo nel passato prossimo, il film fotografa il presente degli sradicati, in cui l’identità si fa mobile ed è pronta a tutto pur di adattarsi al nuovo ordine delle cose. L’ingresso brusco di Lazzaro nella modernità, così, ci conduce alla ri-scoperta della città e dell’alienazione urbana, che è complementare a quella provocata dall’isolamento in campagna, così come la servitù dei mezzadri corrisponde alle prestazioni lavorative odierne gratuite o semi gratuite di nuove vittime del lavoro che, diversamente da Lazzaro, sono consapevoli della loro schiavitù moderna.