Oggi scriveranno di Dino Zoff. Il suo viso sempre imbronciato apparirà con violenza sui social e a lui probabilmente non fischieranno nemmeno le orecchie. Perché io me lo immagino così, distante dal clamore, dalle onoreficienze forzate e dal soffio delle candeline davanti a figli e nipoti.
Oggi saranno più o meno 40 anni da quel 1982 in cui dopo aver fermato il Brasile con una parata irripetibile, insieme ai suoi compagni vestiti d’azzurro, a Bearzot e al partigiano Sandro, regalò all’Italia il suo mondiale più autentico. Un mondiale di sinistra, direbbe forse Gaber, mentre quello del 2006, non so perché, mi è sempre sembrato più vicino alla destra. E sì, lo dico io che a quel tempo avevo appena tre anni e mentre tutti urlavano davanti alla televisione di un bar del mare, piangevo. Lo dico perché poi dopo, pian piano, quel calcio ho capito che mi piaceva più di questo.
La verità, è che oggi mi è venuto di essere uno dei tanti a scrivere degli 80 anni di Zoff perché Zoff l’ho scoperto proprio da piccolo, guardando giocare mio padre che, fino a quando ha avuto voglia, di ruolo faceva proprio il portiere. E veniva chiamato Zoff per una somiglianza imbarazzante, nel volto, nel corpo, nei tuffi, nei capelli e nel carattere burbero e allergico alle parole di troppo.
Guardo spesso certe sue fotografie da giovanissimo e mi viene sempre in mente il vecchio Dino con la maglia grigia e la fascia bianca di capitano sul braccio. E chi lo sa, magari è proprio per questo che un po’ di quel carattere essenziale e taciturno, duro ma quasi invisibile agli occhi di chi deve dare necessariamente un’etichetta alle persone, me lo sono beccato anch’io.
Però, vabbè, qui è di Zoff che si parla, altrimenti diventa un discorso autoreferenziale, di famiglia, e non interessa a nessuno, neanche a mio padre.
Interessa, invece, l’ex portiere della Nazionale, quello che a 41 anni smette di giocare per non disturbare, per non apparire patetico, anche se vorrebbe andare avanti fino a 50. Interessa l’ex numero uno campione del mondo della potentissima e pluridecorata Juventus a cui, nel suo paese, Mariano del Friuli, non hanno mai dedicato un club di tifosi. Dispiaciuto? Neanche per sogno.
“Hanno cose più serie da fare – ha detto una volta – come ad esempio lavorare”.
Oggi, per qualche secondo, prima di tornare a impazzire per Ronaldo, Vlahovic, Maignan o Donnarumma, al popolo social e non social interesserà l’ex commissario tecnico dell’Italia di Totti, Pessotto, Fiore e Del Vecchio, quella che sfiorò la vittoria all’Europeo del 2000 e fu bastonata da Silvio Berlusconi, che definì il ct indegno per una mossa tattica sbagliata. Indegno proprio lui che sulla dignità ha costruito una carriera, una vita priva di eccessi e barzellette applaudite per oltre un ventennio da orde di pericolosi elettori. Indegno proprio lui che rispose al cavaliere con dignità rivoluzionaria, dimettendosi. Da quella mossa politica nessun politico ha mai imparato granché.
Magari, nel profondo, non sarà proprio così, ma mi piace credere che Zoff non abbia mai cercato applausi, consensi. Dino Zoff, raccontano le cronache e lui stesso, parlava quando proprio non poteva farne a meno, ma sapeva farsi ascoltare. Insomma, un atipico sovversivo del pallone. Uno che il pallone, appunto, lo faceva sembrare serio e al tempo stesso no con un semplice sguardo. Perché, dopotutto – si è lasciato sfuggire una volta, forse ancora prima di Nanni Moretti – “le parole contano, pesano”. Quindi, per non dirne altre a vuoto, finisco di scrivere qui e mi vado a cercare quelle foto di famiglia in cui mio padre era un portiere famoso e non lo sapeva.