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L’INESPRESSO | Quando dire Finocchio significa campione

Melo Nicotera
Melo Nicotera
Febbraio22/ 2016

(ispirato ad una storia verosimile)

Frosinone, correva l’anno 1949. Aristide Finocchio, meccanico ciociaro, sin da piccolo coltivava un sogno: diventare calciatore professionista. L’Italia in quel periodo stava cominciando a rialzare la testa dopo gli anni bui del secondo conflitto bellico mondiale. Negli occhi e nel fisico di Aristide erano ancora presenti le macerie dell’internamento subito dal regime hitleriano. In una fredda mattina del gennaio 1938, le speranze del giovane frusinate vennero spazzate via dall’arrivo di una camionetta tedesca. Il suono lugubre dell’allarme delle sirene era lontano, la paura del nemico sempre più vicina: la famiglia Finocchio finì nelle grinfie del nazifascismo. Il mondo crollò ai piedi del giovane Aristide; tra le mani solo il ricordo di un pallone rattoppato preso a calci dalla sanguinosa cupidigia umana. Anni di terrore, violenze, angherie. Aristide Finocchio, costretto dagli eventi a diventare adulto troppo in fretta, vide la negazione della vita palesarsi giorno dopo giorno, in maniera lenta, atroce, inesorabile. Nella sua mente scorrevano le orrende immagini del calvario subito dal padre, colpevole di ripudiare la guerra, la lotta tra popoli, la supremazia sui più deboli. Il generale Alzheimer, capo di quel brutale reggimento tedesco, calpestò la dignità, la quotidianità, il futuro di Giacomo Finocchio. Alla vista della morte, all’impotenza che deriva dalla stessa, Aristide scelse di correre lontano dalla prigionia, dalla gabbia mentale e fisica che opprime il sogno e la libertà di un individuo. Divenne un partigiano della Resistenza, un simbolo contro il becero totalitarismo.

Poi l’Italia, finalmente, venne liberata. Passarono molti anni dai quei tragici momenti; Aristide, come tutte le mattine, indossava la tuta da lavoro e trovava dentro di sé la forza di reagire alla marchiatura del fisico e dell’anima. In mano sempre quel famoso pallone rattoppato, ricordo di un’adolescenza negata. Aristide Finocchio ormai aveva abbandonato l’idea di calcare i palcoscenici più importanti del calcio professionistico. Il 21 luglio 1949, però, si riappropriò di una chimera che gli era stata portata via in maniera subdola, senza una valida spiegazione. Aprì la saracinesca della sua officina e la fece diventare una porta di calcio; alle tre figlie diede la maglia del sudore, del sogno utopico, della forza di volontà. Proprio in quel momento, Aristide Finocchio segnò la rete più importante nella partita mondiale dell’inclusione sociale e del rispetto altrui.

Lo sport è da sempre strumento basilare in materia di osservanza alle regole, di sana competizione, di rispetto dell’avversario. In questo contesto si inserisce la storia di Gianmario Frocio, nipote di Aristide Finocchio, talento in erba dell’atletica leggera italiana. Sulla scia dell’esempio del nonno, che scelse di correre verso la strada della libertà, il sedicenne Gianmario, rimasto incantato dai racconti della madre sulle battaglie di Finocchio, ha avvertito il dovere morale di non interrompere la corsa verso il traguardo del riconoscimento di diritti fondamentali nel mondo. La bacheca di Frocio è già ricca di importantissimi riconoscimenti e di una serie di medaglie conquistate a livello giovanile, traguardi raggiunti nella categoria dei 200 metri piani, disciplina che ha accolto la falcata leggiadra del compianto Pietro Mennea. Gianmario Frocio, oltre all’evidente talento, ha dimostrato anche una spiccata sensibilità verso tematiche di stretta attualità. Difatti è salito agli onori della cronaca per una singolare protesta dopo aver vinto l’oro in una gara. Dal gradino più alto del podio, pronto a ritirare la medaglia, scelse di restare a torso nudo per solidarizzare con le opere d’arte italiane “coperte” per la visita di un importante politico straniero. L’imbarazzo del premier e della maggioranza di Governo fece il giro del mondo. Il gesto di sfida al potere di Gianmario è stato comunque accolto positivamente dall’opinione pubblica italiana; nella pista d’atletica romana si sentivano cori solo per il nipote di Aristide Finocchio. L’Italia si è stretta al nuovo eroe, al figlio di una nazione: la famiglia tradizionale abbraccia un Frocio.

Martina Finocchio è la primogenita di una dinastia di vincenti. Dopo un brillante percorso scolastico, decise di iscriversi alla facoltà di Giurisprudenza alla Sapienza di Roma. Negli anni universitari, affrontati grazie ai sacrifici del padre, ebbe modo di venire a contatto con culture diverse, con usi e costumi delle varie civiltà che popolano il mondo. Martina, da sempre in lotta contro la corruzione e i favoreggiamenti, divenne parte attiva del “Movimento del Sessantotto”, fenomeno socio-culturale che si batteva per costruire un mondo utopicamente migliore. Durante una manifestazione di protesta, mentre tentava di scappare dalle cariche della polizia, venne messa in salvo da Charles Gay, giornalista nero della Lousiana, inviato in Italia dal suo direttore per raccontare il fenomeno che stava rivoluzionando la stabilità della politica mondiale. La Finocchio, di lì a poco, si innamorò di questo gigante dell’informazione statunitense. Un amore nato senza vincoli di sesso, razza, religione. Da questa relazione, invisa in quegli anni all’Italia bigotta e conservatrice, nacque uno sportivo leggendario, un ragazzo nero capace di tagliare traguardi impensabili con la divisa della nazionale italiana addosso. che scriverà pagine importanti della pallacanestro italiana.

Finocchio, Frocio, Gay – contrariamente a quanto si possa pensare – hanno scritto una pagina importante della storia tricolore. Rappresentano tre diverse epoche, tre modi differenti di conquista di piccoli traguardi nel panorama mondiale. Hanno scelto una saracinesca, una pista d’atletica, un parquet di basket per affermare un diritto: il diritto al sogno, alla libertà, alla speranza per il futuro. Senza negarlo a nessuno.

Melo Nicotera
Melo Nicotera

Aspirante utopista del mondo dell’informazione. Gira, vede gente, si muove, conosce, fa delle cose: la scrittura è uno strumento di legittima difesa. Ha collaborato con alcune testate online.

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