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L’INESPRESSO | Longjimeau Menez

Ettore De Franco
Ettore De Franco
Novembre11/ 2016

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Sono passati otto anni dal momento in cui la Rivoluzione cominciò a fallire. Era l’agosto del 2008 e l’AS Roma si assicurava le prestazioni di Jeremy Menez, uno dei migliori talenti a livello continentale, con la speranza di colmare il gap con l’Inter che in quell’estate assumeva José Mourinho come allenatore. Il movimento calcistico viveva un momento di trasformazione, o di restaurazione, dipende dai punti di vista: la Juventus tornava in Europa grazie ad un grande campionato, quello del 2007-2008, in cui aveva conquistato la qualificazione in Champions da neopromossa; Pep Guardiola diventava il condottiero di un FC Barcelona destinato ad avviare un ciclo di vittorie e spettacolo che ancora non s’è esaurito, nonostante l’allenatore catalano abbia iniziato una peregrinazione che lo porterà sulle sponde malinconiche che ospitano chi non è in grado di trovare il suo posto nel mondo; mentre il Cosenza Calcio, quello di Ambrosi, Occhiuzzi e De Rose cominciava l’ultima stagione propriamente gloriosa dei Lupi, quella che sarebbe culminata con la vittoria del campionato di serie C2. Il Direttore Sportivo dei Rossoblù era, all’epoca, Massimiliano Mirabelli, da poco nominato uomo-mercato del Milan, l’ultima squadra italiana di Menez. Tutto torna.

Il 2008 è stato anche l’anno in cui la Crisi Economica mondiale venne riconosciuta come tale anche dai governanti di Europa e Stati Uniti; così come Messi esplodeva definitivamente per diventare uno dei più grandi giocatori della storia del fútbol anche la bolla immobiliare detonò per convertirsi in uno dei momenti più oscuri della storia recente dell’umanità che, proprio come la cavalcata blaugrana sul tetto del mondo, ancora non ha esaurito i suoi effetti. L’unico antidoto al ritorno dello strapotere della Vecchia Signora, alla spocchia di Mourinho, al tiqui-taca, al ritorno del Cosenza nel limbo di campionati altalenanti ed all’affermazione della finanza sulla dignità delle persone sembrava, quasi un decennio fa, Jeremy Menez da Longjimeau, Parigi. La sua insolenza in campo, i suoi tagli repentini che mettevano in ansia schiere di difensori abituati a ragionare con la sicurezza di linee, verticali e diagonali; le sue gambe da giocatore di strada più che da automa palestrato adattato all’interazione con la sfera di pezze esagonali, il suo ciondolare noncurante dell’avversario da seguire o delle telecamere che scrutano l’anima, promettevano squarciare le nubi che coprivano il sol dell’avvenir.

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Jeremy Menez ai tempi della Roma

Le promesse che fenoMenez racchiudeva nella sua esile figura erano il risultato di una lunga gestazione, erano il frutto del passaggio di Lenin da Longjimeau, del suo seminare il germe della Rivoluzione finanche nelle banlieues della Francia settentrionale. La schizofrenia stilistica di Jeremy era dovuta all’aver condiviso i luoghi dell’infanzia con David Reinhardt, nipote di Django, chitarrista eclettico e non inquadrabile in alcuna corrente, proprio come l’ala transalpina, che non è mai stato un attaccante puro ma neanche una wing vecchio stampo oppure un centrocampista. Menez è Menez, un eroe alla ricerca di se stesso da cui dovremmo imparare a non far caso ai rimproveri di chi ci circonda. Jeremy è uno dei pochi giocatori fieri di esibire una dentatura irregolare in un mondo in cui sembra obbligatorio avere un sorriso alla Ennio Doris. Il Mago Houdini di Longjimeau è un personaggio mitologico che sembra assorbire il dolore fisico per trasformarlo nel carburante dell’imminente resurrezione, come quando nell’agosto di quest’anno, durante la sua partita d’esordio col Bordeaux, ha visto il suo orecchio tranciato da un’entra orrenda di un avversario. Jeremy Menez, il ragazzo che avrebbe potuto sostituire Vincent Cassel ne La Haine per il suo fisico asciutto e nervoso, ha perso la sua Rivoluzione accettando di giocare la partita decisiva sul proprio corpo. Tutto ciò lo rende un paladino sconfitto ma non pensionato e, se un giorno decidessimo d’invocare il suo aiuto per sostenere una famiglia vittima di uno sfratto, per porre rimedio ad un gol in evidente fuorigioco o semplicemente per avere qualcuno con cui gridare che ‘non saremo mai come volete voi’, basterà chiudere gli occhi e ricordare il favoloso tacco con cui segnò al Tardini di Parma.

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Jeremy ha appena segnato di tacco
Ettore De Franco
Ettore De Franco

Terzino destro limitato tecnicamente ma in grado di chiudere le diagonali. Avviato alla scrittura dal Nonno che gli chiedeva di cercare sul vocabolario le parole risolutive dei suoi cruciverba. Rosso e blu ma più rosso che blu. Ambasciatore bruzio presso il nord della Penisola iberica ed in tutti e due fronti della Guerra delle Malvine/Falklands, attualmente in riposo, da tutto.

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