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L’irripetibile di Totti

alfredo sprovieri
alfredo sprovieri
Maggio29/ 2017

Per chi non sa cosa si prova ogni spiegazione è inutile, per gli altri nessuna spiegazione è necessaria. Siamo al minuto numero 29 della prima frazione di gioco; la Roma, reduce da 11 anni di delusioni nella San Siro nerazzurra, è già in vantaggio; secondo le vibrate proteste dei nerazzurri messe a verbale dal direttore di gara, Vincenzo Montella ha festeggiato con un aeroplanino di troppo. Ventisei ottobre dell’anno 2005, stadio “G. Meazza” in Milano: un Francesco Totti al trotto segue le consegne dell’allenatore Luciano Spalletti e con loro il tentativo di imbastire la manovra di Juan Sebastian Veron. Il piratesco argentino all’altezza del centrocampo scambia la palla con Ze Maria, poi la cede a Ivan Ramiro Cordoba e si butta nello spazio, sulla fascia destra, per una sovrapposizione che può portarlo verso un rapido scambio con il brasiliano che, intanto, ha di nuovo ricevuto la palla, ma stavolta in verticale. Gli uomini dell’Inter in questo momento sono disposti in perfetta posizione da triangolo e alla Roma manca un raddoppio: la superiorità numerica è a un passo e ci sono i prodromi per un pericoloso assalto alla tre quarti avversaria. Questo accade perché Totti a un certo punto ha arrestato la sua pigra rincorsa e con una specie di saltello ha deciso di abbandonare Veron al suo destino, qualsiasi esso sia. Si è posto a gambe larghe in una mattonella anonima segnata dal taglio dell’erba, un piedistallo all’apparenza inutile che però, non si sa bene per quale legge custodita nella zona franca al confine fra geniale intuizione e colpo di fortuna, diventa proprio quello in cui finisce la palla calciata da Ze Maria e sporcata da un intervento ravvicinato di Christian Chivu.

 

UNO – sulla linea del centrocampo – 

Il folto crinito capitano della Roma allora accoglie la palla nella sua metà campo difensiva e inizia un’impresa che resterà per decenni negli occhi dei presenti. Nel 2004, nella sua prima e poi ospitata televisiva su un canale capitolino (si trattava di “Pressing” condotta da Alberto Mandolesi), Totti disse che quella è la situazione di gioco che predilige, quella in cui puoi guardare in faccia l’avversario e puntarlo nella speranza di vederlo giacere al tappeto. Veron e Cordoba, come i ciclisti piegati sulle gambe nel momento migliore dello scatto in salita, sono rimasti indietro e non recupereranno in discesa. Sulla linea del centrocampo tocca quindi a Esteban Cambiasso ricucire lo strappo e lasciare il cerchio in un rapido scivolamento di posizione verso la fascia. Totti lo vede e rallenta un attimo, valuta i metri di vantaggio e al momento giusto sposta la palla sulla sua sinistra, in modo che l’estirada del piccoletto che arriva da destra possa toccare ma non sottrarre la palla dalla sua disponibilità. A certi livelli pochi rimpalli sono davvero casuali, tanto che la palla, sporcata dall’ex Real Madrid, si sposta ancora verso destra e sembra poter essere di nuovo preda del rientro di Ze Maria, ma quando anche lui prova l’entrata da tergo per ricacciare la palla verso la difesa, Totti mette il piede davanti e rende tutto vano. Ha ancora il controllo assoluto, ha già lasciato due avversari a terra e ad attenderlo c’è Marco Materazzi. Il centrale nerazzurro finirà stordito da una serie di cose, prima di tutte la sbagliata posizione iniziale del corpo, errore che cerca di recuperare con una piroetta su se stesso non appena il 10 avversario inizia a spostare la palla verso destra, verso lo specchio di porta.

DUE – gioco di squadra – 

Al limite dell’area di rigore si palesa l’emsemble che solleva l’acuto solista: il movimento dell’attacco della Roma è come un’imboscata di arcieri merovingi, che veloci e precisi si fiondano nella parte opposta a quella del loro condottiero per confondere il nemico e aprire una breccia. Amantino Mancini passa così deciso e potente alle sue spalle che l’arcigno difensore è tradito da un riflesso incondizionato nella sua direzione. L’incertezza letale, che apre il sipario al capolavoro di Totti, che a passi ormai ravvicinati marcia allineando il proprio corpo alla direttrice che punta al centro del bersaglio. Francesco alza velocemente il capo e quando lo china a guardare il pallone carica il destro come a sparare forte, per poi invece arrotare con dolcezza la pelle della sfera, che oltrepassa il difensore in scivolata e il portiere in accenno di uscita per addormentarsi in rete, dall’alto verso il basso. Un istante sublime, accolto dopo qualche momento di rabbia e stupore anche dall’applauso di Roberto Mancini e del pubblico di fede interista, lo stesso, quest’ultimo che aveva riempito di insulti e fischi il romano durante il riscaldamento preparatorio. Non è il primo cucchiaio di Totti e non sarà l’ultimo, ma in questo c’è stato qualcosa oltre il rito. Una serie di elementi lo pongono fuori dal marchio di fabbrica, rendendolo irripetibile. Riavvolgiamo il nastro: Totti in maglia bianca è lanciato in modo frontale verso la porta, il pallone non è fermo come contro Van Der Sar agli Europei e nemmeno lento o in fermata come contro Peruzzi o Buffon (quella volta di sinistro) all’Olimpico; sospinto dal destro del capitano giallorosso rotola veloce sull’erba compiendo un moto di rotazione orario. Per riuscire nel cucchiaio a quella velocità, con la fatica dei 30 metri compiuti e la forza gravitazionale impressa all’azione, c’è bisogno di invertire il giro della palla con il famoso colpo a scavetto. Tenendo anche conto che il tabellino di “Repubblica” riporta un terreno in mediocri condizioni, è una roba difficilissima da fare e senza alcuna possibilità di precisione. Per questo Totti colpisce quasi in modo impercettibile tre volte la sfera nel portarla verso il centro, alternando il gesto con rapidi movimenti a fintare il passaggio: addomestica la bestia per poterla destinare a una fine di una precisione disarmante.

 

TRE – restringi l’ipotenusa – 

Un minimo rimbalzo, un millimetro più sopra o più sotto, un decimo di secondo prima o dopo, e la palla avrebbe incontrato le gambe del difensore o i guantoni del portiere, che quella sera è Julio Cesar: non proprio uno degli ultimi arrivati, anzi, in quel momento un fenomeno spesso accostato ai migliori del mondo. I commentatori di “Sky Sport”, Caressa e Bergomi, con il rallenty si rendono conto che l’estremo difensore brasiliano non ha nemmeno superato la linea che demarca la cosiddetta area piccola di rigore, non è avanzato più di cinque metri verso il pallone e non è rimasto sorpreso e immobile ad applaudire il gesto come fece nel 97 Ferron con Boksic. Julio Cesar ha allungato tutta la sua stazza in un superbo corpo di reni all’indietro, ma non è servito a nulla. Un portiere arrivato al livello in cui è in quel momento il brasiliano ha ripetuto d’istinto miliardi di volte quello che viene insegnato agli esordienti come rimpicciolimento dell’ipotenusa: ovvero i rapidi passi in avanti dell’estremo difensore, vietati nei calci di rigore, che devono scattare quando il calciatore carica il tiro e che sono direzionati al centro della palla per restringere più possibile il lato più grande del triangolo formato negli altri due lati immaginari dalla distanza che intercorre dallo stesso centro della palla ai due pali della porta. La sua posizione è corretta, irreprensibile: e la giocata del romanista che è perfetta in modo irreale. Nel secondo tempo la partita capitolerà nelle mani di un altro sceneggiatore e il campione giallorosso verrà espulso insieme a Veron per un testa a testa nel recupero, ma questa è un’altra storia. Oggi non ci è dato sapere se e quando nascerà un altro giocatore capace di interpretare in modo così moderno, potente e poetico un’azione come quella. Ciò che sappiamo è che Francesco Totti c’è riuscito.

alfredo sprovieri
alfredo sprovieri

Nel 2002 ha fondato "Mmasciata". Poi un po' di tv e molta carta stampata. Più montano che mondano, per Mimesis edizioni ha scritto il libro inchiesta: "Joca, il Che dimenticato".

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