Ho capito di amare Antonio Cassano il giorno in cui indossò un giubbotto marrone, col collo in pelliccia alto 5 centimetri, per la sessione fotografica che celebrava il suo arrivo al Real Madrid. In quel momento mi fu chiaro che il ragazzo di Bari vecchia veleggiasse al di sopra delle categorie che usiamo per orientarci nella vita di tutti i giorni. Quel giorno Fantantonio rese plastica la fusione tra David Bowie e la proposta delle vetrine degli outlet di moda. In quella fredda giornata l’ex fantasista salì sul palco delle presentazioni dello stadio Santiago Bernabeu per cantare le parole dello Stato Sociale: ‘sono pop, sono cool, [non] sono come tu mi vuoi’ ed il 24 di luglio scorso è tornato ad intonare quella melodia per terminare il ritornello: ‘… sono un po’ stanco di aspettarti e così/per un po’/ vado via/ ma ti lascio qui il pilota automatico, amore ematico, al caffè’.
Occupy football.
Cassano non è mai stato il talento che è esploso, non è mai stata la promessa che s’è compiuta o il messia arrivato a portare la luce; Antonio ha occupato il calcio, ha reso quella zolla sulla trequarti avversaria uno squat in cui interagiva con i compagni a modo suo. La sera in cui si fece conoscere al pubblico, quella del gol all’Inter di Laurent Blanc, un vero appassionato se la ricorda per tutta la vita: io stavo mangiando dei rustici nella rosticceria ‘Raf’ di Piazza Europa, a Cosenza; il calore che pensai provare a causa della colata della salsa di pomodoro del panzerotto era dovuto, invece, al riscaldamento delle mie cellule al cospetto dell’azione di liberazione degli spazi che Cassano aveva appena iniziato a promuovere nell’immaginario collettivo. Antonio Cassano è stata la vera causa del calcione che Francesco Totti rifilò a Mario Balotelli durante una finale di Coppa Italia. Il fantasista romano, quella sera, capì che Mario gli avrebbe sottratto lo status di partner ideale del enganche pugliese. Difatti nel 2012 Antonio e Mario fecero divertire tutte le appassionate e gli appassionati di futbol (scritto alla latinoamericana) in quell’Europeo in cui l’Italia distrusse la Germania grazie alla ditta di delanteros più eterogenea che si potesse immaginare.
La minaccia fantasma.
Per anni ha aleggiato sulla figura di Antonio Cassano lo spettro di un trasferimento alla Juve; razionalmente, dopo aver indossato le casacche di Roma, Real Madrid, Inter e Milan l’approdo del barese sulla sponda bianconera del Po sarebbe stato un evento plausibile. Ma ci sono momenti in cui la storia decide di eludere il proprio corso. Se Cassano avesse portato la maglia numero 10 che fu di Angelo Alessio, Romeo Benetti e Omar Sivori la Rivoluzione sarebbe stata completa; il sistema calcio come prodotto e surrogato avrebbe cominciato ad implodere, per tornare ad essere delle persone che lo praticano per strada; i videogiochi come FIFA avrebbero rinunciato alla loro perfezione virtuale per creare un crossover con Grand Theft Auto, per regalarci l’ebbrezza di una vita vissuta al limite. Invece, come se i bolscevichi avessero deciso di andare al bar invece di sfondare le porte del Palazzo d’Inverno, come se Giulio Cesare avesse inteso organizzare un barbecue sulle sponde del Rubicone o come se i Clash avessero scelto di non incidere Sandinista! perché troppo sperimentale, Cassano nella parte finale della sua carriera ha deciso di percorrere la provincia settentrionale italiana.
Antonio ha oltrepassato Eboli.
Forse l’unico errore della sua carriera è stata la continua fuga nord. Cassano non è mai stato un volatile che migra a settentrione per poi tornare o un salmone che risale la corrente per deporre le uova; Antonio è semplicemente il persiano che occupa il salone di casa che diventa irrefrenabile quando ha una palletta fra le zampe. Per questo, probabilmente, avrebbe fatto meglio a rimanere nella Parigi del sud e, tutt’al più, venire a svernare a Cosenza, in riva al Crati, dove la gente rispetta e sostiene le occupazioni, dove sappiamo riconoscere e coccolare il talento e, dove, soprattutto, facciamo dei panzerotti da brividi.