Per me Padovano era Maradona. Sì, va bene, di Maradona avevo ancora visto e capito poco, ma anche se lo avessi visto e capito tanto, non avrebbe scalfito quella mia predilezione. Padovano era Maradona. Era più forte di Maradona. Forse perché quel coro me lo ricordava:
“O mamma mamma mamma, o mamma mamma mamma, sai perché mi batte il corazon, ho visto Padovano, ho visto Padovano, eh, mammà, innamorato son”.
Lo avevamo rubato al calciatore più forte del pianeta, ai napoletani, perché Michele Padovano, in fondo, per noi era napoletano, era cosentino, era il nostro campione. E ogni volta che scendeva in campo, riuscivi a distinguerlo subito dai suoi scatti rapidi e nervosi, dai suoi capelli lunghi e neri, dal suo numero undici che non era il dieci di Maradona, ma gli somigliava tantissimo. Roba da far impazzire le folle e da far innamorare le donne di ogni età. Anche quel pomeriggio ero andato allo stadio con papà per vedere lui. Soprattutto lui. Avevo dieci anni compiuti da qualche mese e già vivevo solo di pallone. E di Cosenza. Il San Vito era pieno, come al solito. Ma non era rumoroso come al solito. Il silenzio penetrava facilmente da ogni spiraglio di quelle gradinate calpestate e maltrattate migliaia di volte da una passione difficile da spiegare a chi è abituato a gioire per altri gol, per altre giocate, per vittorie più scontate. Come quelle che si sentivano uscire dalle radioline tenute incollate agli orecchi dei più anziani, magari proprio mentre Sergio Galeazzi stava per battere un calcio d’angolo sotto la Sud.
Non so come sia potuto accadere, ma la Juve, il Milan, l’Inter e il Napoli non mi hanno mai affascinato. Non sono riusciti ad agganciarmi alle loro magie, pur avendo a disposizioni armi letali e attraenti come Van Basten, Gullit, Matthäus e sempre lui, Diego Armando Maradona. Armi che in provincia non riuscivamo nemmeno a sognarcele di notte. C’era solo il Cosenza per me, perché il Cosenza me lo sentivo davvero mio, era raggiungibile. Come era mio Padovano, che quel giorno, però, si era perso.
«Papà, dov’è Padovano?».
Nessuna risposta. C’è silenzio in curva, c’è tristezza, ma non solo lì. Siamo tutti composti, ordinati come mai. Si percepisce uno strano imbarazzo. Cerco il mio idolo e non lo trovo. «Quello non è Padovano». No, non è Padovano. La maglia numero undici se l’è fregata De Rosa, e io nemmeno lo conosco Gigi De Rosa. Poi ad un tratto lo vedo. Accanto a Gigi Marulla, ma con un numero di maglia diverso, strano. Perché un attaccante gioca con la otto? Il Cosenza attacca e sfiora il gol. Il Messina è alle corde ma resiste. In quel cupo e surreale pomeriggio di novembre creare emozioni sul campo sembra essere l’unico modo per sentirsi vivi, per avere la conferma che siamo lì per davvero, che non è un sogno. Si parla a voce bassa, la curva non canta, non tifa. Siamo tutti seduti, persino gli ultrà, mentre la partita scorre via come un disco che hai già ascoltato troppe volte, e anche se quella melodia la canticchi continuamente, non ti colpisce più come prima. Ti lascia indifferente.
«Papà, perché Padovano gioca col numero otto?».
Papà continua a non rispondere, guarda la partita più attentamente del solito e si dispera per ogni occasione mancata. Ora sono troppe. «Lo hanno ammazzato, lo sanno tutti che lo hanno ammazzato», sento dire dietro di me. Mi volto ma non parla più nessuno. Insisto. Mio padre finalmente si gira verso di me. Sta sbucciando una nocciolina e me la dà. «È per Bergamini, era il suo numero». Mordo la nocciolina e gooool, ha segnato Padovano. Me lo sono perso. Ora si alzano tutti, come se non aspettassero altro, come se quel momento atteso avesse dato la chiave d’accesso a quell’esultanza liberatoria. E non vedo più nulla. Scavo con gli occhi tra le sagome giganti che mi sono davanti, ai lati e dappertutto. Cerco di capirci qualcosa guardando verso l’alto mio padre che, alzandosi sulle punte dei piedi, guarda verso il basso. Poi, però, riesco a vederlo il mio idolo, in ginocchio, sotto di noi. Indica il cielo con l’indice della mano e piange, sì, mi sembra proprio che stia piangendo. Mi emoziono. Piange anche un signore che è accanto a me. Mi incanto a fissare quelle lacrime che vengono inghiottite voracemente dalle sue rughe grandissime. Piange e dice «bastardi, lo avete ammazzato Bergamini». Era lui, quindi, poco fa. E dopo di lui, lo dicono altri e altri ancora. Come se avessero trovato improvvisamente la voglia di parlare. Sono circondato da una rabbia trattenuta chissà per quale ragione.
Ieri è morto Donato Denis Bergamini, lo hanno detto in televisione. Era andato con la squadra al cinema Garden, che è vicino casa nostra, e poi è morto. E qui sono convinti che lo hanno ammazzato. Si siedono tutti, di nuovo. Padovano volta le spalle alla curva e se ne va ad occupare di nuovo il suo posto, sul prato verde. Allontanandosi, mostra quel numero che non è suo. E riappare il silenzio.
«Papà, è vero che hanno ammazzato Bergamini?».
«Non lo so, può darsi», mi risponde.
Il Cosenza vince, 2-0. L’altro gol lo segna Gigi De Rosa, che ha indossato la maglia di Padovano. La undici. Ed è come se oggi avessero fatto gol Bergamini e Padovano. Siamo tutti soddisfatti, siamo tutti tristi, siamo tutti senza parole, anche se io vorrei dire che sono felice. Padovano saluta e scompare nel sottopassaggio. Calpesto le bucce di noccioline che invadono il cemento grigio che ci ospita. Papà mi stringe la mano, ci alziamo e ci confondiamo tra la folla, attaccati l’uno all’altro per raggiungere l’uscita. Fuori dallo stadio sembra di respirare un’aria più pesante, più sporca. Mi guardo intorno e adesso tutti vanno di fretta, nessuno è più seduto. Le macchine sono già in fila in mezzo alla strada, suonano nervosamente una dopo l’altra come se fosse una sfida da vincere ad ogni costo. C’è caos. Sento parole urlate intrecciarsi tra di loro senza comprenderne neanche una. Il silenzio è fuggito lontano. Si sono già dimenticati di lui. E delle lacrime di Padovano, che per me è Maradona. Un Maradona con il numero otto sulle spalle. Papà mi stringe la mano forte, mi fa male ma non glielo dico. Mi trascina di peso nelle sue rapide e folli traiettorie. Superiamo quasi di corsa sagome indefinite, auto ferme e auto che si muovono un centimetro per volta. «Sbrigati», mi dice. Vuole tornare a casa il prima possibile. Tra poco inizia 90° minuto e forse fanno vedere pure i gol del Cosenza. Speriamo. Affrettiamo il passo. Penso a domani che dovrò tornare a scuola. Penso che non ho fatto i compiti. Penso che le domeniche sono belle solo a metà. Dopo le partite, penso sempre al giorno dopo. Anche se ho appena finito di piangere per una vittoria sofferta. Come quella lì.
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Il calciatore Donato Bergamini è stato trovato morto sulla statale 106 a Roseto Capo Spulico il 18 novembre del 1989. Per due volte la giustizia italiana ha archiviato il caso come suicidio, ma una serie di nuove indagini sembrano dar ragione a quei tifosi che hanno sempre creduto che il loro campione sia stato ucciso. Una super perizia medico legale depositata in questi giorni al tribunale di Castrovillari attribuisce la sua morte «con elevato grado di probabilità, alle lesioni da scoppio causate dallo schiacciamento addomino-perineale con conseguente eviscerazione degli organi e rottura di vaso arterioso, a sinistra, in soggetto in liminae vitae o già morto per asfissia meccanica». L’hanno ammazzato Bergamini.