Ci dicevano che eravamo in 100mila dietro lo striscione “Liberi Tutti” e negli occhi di una signora affacciata a Viale della Repubblica quel giorno sembrava vera pure la rivoluzione. Era il 23 di novembre del 2002. Eravamo ormai in marcia da più di un’ora. I cosentini avevano cominciato ad affacciarsi dal retro delle palazzine di via Popilia che a loro volta davano su Vagliolise. Il corteo partì dalla stazione dei tartari, uno striscione enorme dava il benvenuto ai manifestanti giunti da ogni parte d’Italia. Sventolava qualche tricolore dai balconi, i ragazzini guardavano con curiosità, battevano le mani a non si sa cosa.
Era la strada che i più di noi facevan tutte le mattine per andare a scuola, sul lato opposto il Tribunale. Lì il corteo si fermò e ci fiondammo come si fionda un ventenne a sentire le parole di quei volti che si vedevano sempre in tv. Riusciti alla garrincha a dribblare il servizio d’ordine potevi sentire bene Casarini ed Agnoletto gridare nei microfoni neri cosa pensavano di quel palazzo. Con accento nordico spiegavano alle tantissime telecamere quanto fosse brutta l’architettura visibile e quella invisibile che lo componeva. Imparavamo ad odiarlo anche mentre masticavamo rabbia per quel senso di appartenenza dei nemmeno ventenni che eravamo, ché della tua città puoi parlarne male solo tu che ci vivi quando hai quell’età e quelli di fuori non si devono permettere, nemmeno se si tratta del tribunale che manda in galera uomini e donne solo per le loro idee. Attimi, il bello ritornò presto a vincere, quando ripartimmo lentamente verso la fine della sopraelevata. Giorgio Giraudi, che ci insegnava le scienze della politica ad Arcavacata, stava spiegando al Tg1 perché un’intera città si era riversata in quell’incrocio stradale, ormai diventato una piazza. Ci fermammo a salutare Gianfranco, Michele, Tonino e tutti gli amici di Azione critica, impegnati a distribuire giornali dietro lo striscione col cappello giacobino. I palazzi intorno erano i primi che incontravamo dopo molto cammino. Una buona parte del popolo regalava dolci e faceva scendere con i panieri acqua e vino per i manifestanti. La cosa fu scritta nei titoli all’indomani sia dal Corriere della Sera che da Repubblica.
A Pagina 9 del quotidiano di via Solferino Marco Imarisio scriveva: “Davvero una strana città, Cosenza. Più che accogliere i no global, i suoi abitanti hanno scelto di fondersi con loro. Così, lungo i sette chilometri di manifestazione, diventa difficile disegnare la strada del corteo, separare i manifestanti dagli spettatori che in certe curve del centro sono così tanti da far pensare ad un’altra adunata invece è soltanto gente che applaude e si prepara all’aperitivo. E intanto aiuta a far nascere una strana protesta, senza rabbia, quasi gioiosa. Cartelli, magliette cori disegnati alla buona, ma questa volta il tema è soltanto uno, l’inchiesta della magistratura cosentina che ha portato in carcere tredici no global”.
Comprando il giornale il giorno dopo ci sembrò riconoscerci in quel rigo in cui si parlava di forum di paesini sconosciuti, non avevamo smartphone né pensavamo a Youtube sfilando, ma ci sentivamo finalmente parte della storia. Non sbagliavamo. Ad inizio di quel mese a Firenze c’era stato il Social Forum europeo, una sfilata di oltre un milione di persone. Era la prima volta che si ripresentava lo spettro di Genova, sentivamo gli appelli preoccupati delle autorità alla tv, ovunque si parlava dell’articolo di Oriana Fallaci. Ma andò tutto liscio, un’enorme festa che speravamo potesse bissare a Cosenza. Così fu, arrivati all’imbocco di Viale della Repubblica capimmo che la rabbia per quegli arresti quel giorno non avrebbe prevalso, aveva ragione il sindaco Eva Catizone, una sorridente signora bionda che vedevamo per la prima volta, a mostrarsi sicura di sé con i giornalisti e a rassicurare le nostre famiglie a casa. La accompagnava un parlamentare comunista che riconoscemmo subito per l’orecchino.
Matilde sorella maggiore di tutti sorrideva più del solito, pensavamo di aver trovato il sistema per ricacciare la violenza dai cortei, per riportare la maggioranza silenziosa in piazza, ci chiedevamo come finisse tutta quella gente quando si trattava di mettere mano alle urne. Poco prima di costeggiare l’ospedale, dove dalle finestre persino le suore si affacciarono a salutare il corteo, una signora riuscì a ficcarsi nelle pause del Nuntereggaechiù pompato dalle casse dei Cobas per chiederci di avvicinarci. Allungò una bottiglia d’acqua e si raccomandò di stare attenti. Poi ci diede una bandiera rossa, voleva la portassimo con noi. Venivamo dallo stordimento berlusconiano e più di uno l’avevamo anche votato, ma provammo a tenerla alta lo stesso.
L’entrata a Piazza dei Bruzi il quotidiano Repubblica la raccontò così: “E quando il corteo arriva a piazza Municipio un grande applauso accoglie i No global. Dal balcone del salone di rappresentanza del Comune spunta un lenzuolo con su scritto ‘Giustizia e pace si baceranno’”. Un verso delle sacre scritture che era anche lo slogan della veglia di preghiera organizzata dall’arcivescovo Giuseppe Agostino la sera prima al Duomo.
Che città che era Cosenza. Avevamo già deciso di fare un giornale e chiamarlo Mmasciata e il primo numero uscì un mese dopo quella giornata di gioiosa rivoluzione, eravamo fieri di crescere in un posto così; se non l’avessimo visto con i nostri occhi, oggi non saremmo riusciti a crederci.