di Giovanna Marsico
Biagio Simonetta, 32enne di San Giovanni in Fiore, è considerato da molti una sorta di Saviano calabrese, ma questa definizione a lui sembra non piacere molto; giornalista e scrittore, si occupa soprattutto di ‘ndrangheta e di tematiche legate alle organizzazioni criminali. Ha lavorato per molti anni al Quotidiano della Calabria, dove ha approfondito gli eterni irrisolti della nostra terra, per poi approdare ai maggiori quotidiani nazionali, Corriere della Sera su tutti. Numerosi sono i suoi reportage sulla criminalità organizzata calabrese: dai veleni di Crotone dove i bimbi si ammalano di cancro, fino a Duisburg, dove la ‘ndrangheta ha commesso la strage più sanguinaria degli ultimi anni. Nel 2010 lascia, come troppi dei nostri giovani talenti, la sua terra e si trasferisce a Milano, dove collabora con alcuni giornali come freelance. Qui pubblica il suo libro “Faide. L’impero della ’ndrangheta”, per Cairo Editore. Un libro in cui racconta in prima persona come ha conosciuto e ha cercato di far conoscere questo triste fenomeno. Ho avuto occasione di parlarne con lui per un’intervista contenuta nel mio lavoro di tesi sul ruolo delle donne nella cosiddetta “Onorata Società”, partiamo da lì.
Ti occupi di ‘ndrangheta da anni, e quotidianamente ne racconti i retroscena. Cosa pensi del ruolo che le donne oggi rivestono all’interno di questa organizzazione?
“Direi che il ruolo delle donne all’interno della ‘ndrangheta è cambiato con il tempo. Già sul finire dell’800, in realtà, c’è traccia della loro presenza nei clan. Le chiamavano sorelle d’omertà. Potevano partecipare ad eventi delittuosi, ma per farlo dovevano travestirsi da uomini. Oggi non ne hanno più bisogno lo fanno in tacco 12.”
Il potere che si trovano a gestire è un potere di delega o è gestito in prima persona?
“La figura dominante è sempre quella maschile. Le donne intervengono per gestire latitanze, per mandare avanti il business quando l’uomo è detenuto. Invece è totalmente loro il compito di tirar su la famiglia e soprattutto l’educare i figli.”
Come ti spieghi che le donne più affini alla cultura della cura e dell’affetto, gestiscono fatti di sangue? Questa contraddizione le rende più fragili o più pericolose?
“E’ una domanda difficile. Penso sia soggettivo e non c’entra l’essere uomo o donna. Ci sono donne più cattive di altre. Ovviamente, però, essendo più fragili sono per natura più pericolose. Gestire certe situazioni con fragilità può partorire cose orrende. Poi se sono madri è ancora peggio.”
Sei d’accordo con la tesi che quello femminile nella ‘ndrangheta è un processo di pseudo emancipazione?
“Assolutamente sì. Per la mia personale esperienza, non vedo nulla di emancipativo nella ’ndrangheta. E’ un fenomeno vecchio fatto di valori assolutamente passati. Le donne rimangono comunque sotto la direzione dell’uomo. E questo non può essere considerato emancipazione.”
Riflettendo sui casi delle donne che si ribellano all’Onorata Società, e per questo rischiano e spesso perdono la vita, come Lea Garofalo, a tuo parere questa è la storia di uno Stato impreparato e troppo burocratico, che lascia sole queste donne, o è la lotta ad un nemico troppo forte che non dimentica chi tradisce?
“Sul fatto che lo Stato italiano è troppo burocrate si potrebbe aprire un discorso lunghissimo. Sicuramente alcune procedure non aiutano i collaboratori di giustizia. Sulla lotta ad armi impari, invece, credo che, purtroppo, sia proprio così. Il clan non dimentica. Si vendicano anche dopo anni. Su di te o su qualcuno vicino a te. La lotta è ad armi impari perché la ‘ndrangheta usa la violenza, e la violenza, per definizione, non può appartenere ad uno Stato civile.”
Quale secondo te è il modo più adeguato, da cittadini, per combattere nel quotidiano la ’ndrangheta?
“Parlarne, parlarne e ancora parlarne. Sono convinto che la letteratura e le parole possano smuovere le coscienze, molto più di un kalashnikov.”
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