E’ il mutuo ignorarsi dei giusti che sta salvando il mondo? Borges non è stato l’ultimo a chiederselo. Sul fenomeno ‘ndrangheta è in arrivo un capovolgimento di prospettiva che avvicinerà molti lettori alla risposta. Fra pochi giorni esce il testo “Calabria Ribelle “ di Giuseppe Trimarchi, edito da Città del Sole. Un lavoro di cui si parla da tempo, realizzato da un giovane mediattivista che pensa nel Mondo e agisce nella Locride. Colpisce subito il punto di vista e il metodo utilizzato per incatenare le storie. In Calabria Ribelle il dolore diventa rabbia, il dramma piovuto dal cielo si trasforma in una guerra da combattere sulla terra. L’autore ha messo insieme le storie di chi lotta contro il malaffare in Calabria e non solo; accanto a Liliana (mamma di Massimiliano Carbone ucciso a Locri nel settembre del 2004) a Mario (papà di Gianluca Congiusta ucciso a Siderno nel maggio del 2005) a Deborah (figlia di Lollò Cartisano, sequestrato e Bovalino e mai tornato a casa) e Stefania (figlia di Cecè Grasso, ucciso a Locri nel marzo del 1989), ci sono infatti anche le storie di Gaetano Saffioti (imprenditore sotto scorta), don Pino Demasi (parroco antimafia) e Michele Luccisano (vittima di usura). L’ambizione è quella di rompere qualche pregiudizio, di ricorrere all’antiretorica con l’ausilio di una metodologia rigorosa.
Peppe lo conosco, abbiamo lavorato insieme e spesso non ci siamo capiti. Colpa mia. Dovevamo prima conoscersi di persona, e avvenne sopra la statua di Telesio, a Cosenza. Sapevamo che ancora una volta ci avrebbero sfruttato ma che forse alla fine non era tutto inutile, e sorridendo speravamo di riuscire almeno a dare voce a chi non ce l’ha. A Gioiosa Marina è passato un po’ di tempo, e la voce ora gli tocca alzarla per farsi sentire da me. Non c’è abituato, ma ha bisogno di sopraffare la musica del locale per spiegarmi con passione qual è il suo intento: “I capitoli sono per metà racconto e per metà intervista, un botta e risposta tra me e loro. Ci sono anche le stesse identiche domande perché volevo capire come su uno stesso argomento, esistano idee e convinzioni diverse, perché diverse sono le angolazioni, diverse sono le esperienze di vita vissuta. Diverse sono le prospettive”.
Il procuratore Giuseppe Pignatone qualche tempo fa all’Unical disse ai pochi studenti intervenuti al suo commiato dalla Calabria di non credere agli eroi solitari. Perché è un’idea romantica che fa il gioco delle mafie, perché gli eroi solitari vengono sconfitti, soprattutto quando combattono mulini a vento. Peppe Trimarchi si colloca su questa scia di idee. Ha scritto un libro su nove persone che non si considerano eroi, in nessun modo. Uomini e donne poco conosciute, che nei riflettori credono poco. Che non lottano per hobby, ma per reazione all’ingiustizia della vita. Non si lamentano, non vantano minacce, non costruiscono alibi. Semplicemente non mollano, sperando di diventare parte di una regola, e non i protagonisti di un’eccezione. Raccontando il loro mondo quotidiano, prima e dopo che l’inferno gli piombasse addosso. Dando la dignità del racconto a delle esistenze per sempre cambiate dalla violenza, l’autore ambisce anche a far cadere il velo d’ipocrisia sul contrasto di facciata, sull’universo di carriere antimafiose. “Sì, con questo libro voglio che si ricominci a ridare il senso ad una parola usata, abusata, strumentalizzata e alla moda: antimafia. E’ questo quello che voglio fare”.
”Io sono un’insegnante senza spessore sociale. Non voglio compassione. Io sono la mamma di Massimiliano, questo è la mia forza. La giustizia negata a mio figlio è giustizia negata alla comunità locrese. È riscatto negato alla comunità. È libertà negata alla comunità. È rispetto negato alla comunità“. Così parla Liliana Esposito Carbone in Calabria Ribelle. Massimiliano è stato ucciso 10 anni fa a Locri e ancora non c’è giustizia per una storia che fatica a farsi conoscere dal grande pubblico.
“Durante quella guerra di mafia, insieme ai miei collaboratori, accompagnavamo i figli dei boss locali al Nord. Volevamo salvarli da quell’ambiente incancrenito dalla ferocia. Ricordo che in ogni famiglia si ripeteva sempre la stessa scena. Prima della partenza, la mamma mostrava al figlio la foto del padre o dei fratelli, e – togliendosi la pistola dal reggiseno- raccomandava al bambino di non dimenticare mai che erano morti per lui. Una frase devastante per una giovane mente. Tanti torneranno. In molti moriranno ammazzati”. Questo invece è uno dei ricordi di Don Pino De Masi, prete di Libera. I loro punti di vista aggiungono un tassello preziosissimo al mosaico che la Calabria sta costruendo sul muro del tempo grande, della memoria collettiva.
Il testo è zeppo di parole come queste, capaci di buttarci nel mezzo del punto di vista più vicino alle persone comuni, ed è concluso dai saggi di altri giovani giornalisti calabresi, che conosciamo bene. Agostino Riitano, più volte corsivista per le pagine di Mm, racconta come il cancro del menefreghismo stia divorando il tessuto sociale nell’hinterland milanese, ormai zeppo di mafia, mentre ai premi Montanelli Danilo Chirico e Alessio Magro (del loro libro “Dimenticati” parlammo in anteprima su Mm a dicembre del 2011) chiosano su cosa voglia dire davvero “antindrangheta”.
Insomma probabilmente è vero che l’insieme di chi individualmente ha il coraggio di fare il proprio dovere con dignità sta salvando questo mondo in bancarotta, ma forse è anche vero che rompere lo stato di isolamento di queste storie può creare l’opportunità di cambiarlo davvero, il mondo.