di Andrea Bevacqua
Massimo apparteneva a quella generazione di ventenni calabresi che terminata la stagione della finta prosperità della nostra regione negli anni ottanta, aveva ripreso ad affollare gli atenei romani e del nord Italia. Insieme con lui erano partiti decine di rossanesi, molti di questi col tempo hanno deciso o si sono trovati costretti a non tornare più nella loro Itaca andando ad inaugurare la stirpe dei terroni 2.0, così come Piercamillo Falasca ha titolato un suo interessante saggio dato alle stampe qualche anno fa. Erano i primi anni novanta, gli anni dei pullman della Simet alle due del pomeriggio e a mezzanotte. Paragonati ai disservizi e alle linee precarie che offrivano ( e offrono) le Ferrovie dello Stato, i pullman erano gli unici mezzi a disposizione dei giovani per evadere e scappare dalla Calabria più velocemente possibile e se anche le canzoni contribuiscono a fare la Storia, sarebbe il caso di scomodare Eugenio Bennato che in quegli anni scriveva in un pezzo: “Quando ci vuole da Cosenza a Milano, un giorno di corriera”. Massimo, in realtà, non può essere iscritto nella categoria dei nuovi emigranti, semmai in quella dei migranti poiché le sue peregrinazioni mediterranee lo portavano spesso durante l’anno a ritornare e ripercorrere le strade e i marciapiedi di via Nazionale a Rossano. Mio padre che qualche libro lo aveva letto, giocava scherzosamente sull’origine comune dei cognomi Bevacqua e Bevilacqua e si era convinto che anche noi in fondo eravamo un po’ zingari. D’altronde lui stesso prima di tornare in Calabria aveva girato per lavoro mezza Italia passando da una località di provincia all’altra e mio fratello attratto da questa finta ma affascinante convinzione qualche anno dopo aveva pensato bene di incidere in un suo disco, un brano dal titolo “Anima zingara”.
Anima zingara o no, Massimo era un vero migrante; un figlio del Mediterraneo che tutto mescola e tutto unisce nelle contraddizioni Occidentali e afroasiatiche. E questa mescolanza di idee, tradizioni, costumi e società, Lui la viveva appieno. Fuori dalla chiesa, ieri, con una sua amica dei tempi dell’università a Roma ci raccontavamo le sue passioni per la lingua araba e francese, per Franco Battiato, i programmi televisivi anche quelli più commerciali, i quiz e il “Maurizio Costanzo”. Una volta, addirittura, la sua fragorosa risata irruppe durante il programma tanto da meritarsi l’attenzione di Costanzo, il quale chiese il nome e cognome di questo sconosciuto ragazzo seduto in platea: “Mi chiamo Massimo Bevacqua e vengo da Rossano”. E nella città bizantina, Massimo lo si poteva incontrare ciclicamente, d’estate maggiormente, su quel tratto di marciapiede di via Nazionale che va tra il primo bar aperto a Rossano scalo da zio Giuseppe e l’incrocio con via Milano. In mezzo il palazzo di famiglia che lo ha visto crescere. Era questo il regno rossanese di Massimo. In questi giorni, passandoci più volte, ho spesso pensato a quanto dovesse essere per lui sacro e inviolabile questo luogo. Qui smetteva i panni dello studioso e del ricercatore e riprendeva quelli della persona scherzosa e spensierata. In realtà, le testimonianze dei suoi colleghi e dei suoi studenti delle varie università che frequentava ce lo restituiscono così anche in quell’ambiente: persona solare e scherzosa, disponibile e studiosa, sempre pronto a spendersi per i bisogni degli studenti. Uno studioso e intellettuale vero, non distante dalla gente, capace di immergersi nella vita di tutti i giorni da Rossano alle aule affollate di studenti e docenti nelle università del Mediterraneo. In questa prospettiva viene automatico accomunarlo ad altri meravigliosi e intuitivi intellettuali degli ultimi tempi: Valerio Marchi sociologo romano che frequentava la Curva Sud e gli ultras romanisti e viveva nel cuore di San Lorenzo; Carlo Levi, antifascista spedito da Torino al confino in Lucania e che in pochi mesi divenne il medico dei contadini e il difensore delle ingiustizie subite dal Mezzogiorno e Marco Lombardi Radice, neuropsichiatra infantile, medico e ricercatore instancabile morto anche lui a quarantadue anni. Ma gli intellettuali non dovrebbero essere tutti così? Non dovrebbero stare in mezzo alla gente? La nostra esperienza borghese invece ci ha abituati ad un’immagine stereotipata e classista dell’intellettuale, intento a frequentare i salotti buoni, a volte anche della politica, e a condividere il proprio sapere esclusivamente con le fasce dominanti della società. Contravvenendo questa tendenza, Massimo stava invece studiando i nuovi slang dei giovani tunisini all’indomani della Primavera araba e vivendo buona parte del proprio tempo a Tunisi non poteva che osservarne i cambiamenti sociali. Forse questa era la sua grandezza, la grandezza di un Massimo che purtroppo ora non c’è più! Ci rimangono però il suo sorriso e i suoi modi sempre gentili ed educati, i suoi studi, i suoi scritti, le sue passioni che non devono e non possono andare persi. A noi che lo abbiamo conosciuto spetta adesso il compito e il “piacere” di non farne perdere la memoria. E allo stesso tempo a noi spetta anche il dovere della ricerca della Verità. Tra tante manifestazioni in giro per l’Italia, seguendo alcune volte itinerari sterili tra la stazione Termini e Piazza San Giovanni mai avrei pensato di sfilare in corteo in una domenica sera invernale con altri mille ragazzi, giovani, amici e parenti per le strade di Rossano, in una vera e propria lezione di civismo e partecipazione popolare. Ed è proprio da qui che bisogna ripartire, da quel pezzo di mondo e umanità che va dal bar di Zio Giuseppe all’incrocio con via Milano, tutti insieme per non dimenticarti e proseguire il tuo cammino!
Ciao Massimo …