di Iole Perito
Esisterà sempre il teatro. Esiste ancora il teatro. Ce lo (ri)ficca in testa, come un ritornello rimasto sul fondo dei pensieri, Massimo Ranieri che con la sua regia e la sua magnifica interpretazione di quel classico dei classici che è William Shakespeare, infonde un senso di pace (senza averci litigato prima) con l’arte intramontabile del palcoscenico fatta come Dio comanda, o a ‘mestiere’, per dirla come direbbe chi ne ha viste non poche di compagnie avvicendarsi sulle tavole. Tanto per cominciare: nelle interviste gli domandano con stupore il perché – a 63 anni snocciolati allegramente al cabaret – abbia scelto di cimentarsi col ‘Riccardo III’, come se scegliere un’opera fra quelle della tetralogia minore del drammaturgo inglese sia cosa innaturale per lui, Ranieri, che un tempo, con la faccia del bimbo non sbocciato, accompagnava Anna Magnani nella celebre scena di ‘O’ surdato nnammurato’. Da Nannarella in poi, lavorando con altri grandi mostri teatrali, televisivi e cinematografici (cerca su Google quindi Wikipedia) non ha mai allentato la personale missione dell’artista che solo con la sua arte sente di vivere (provate a immaginarlo che spinge un carrello al supermercato: impossibile. E comunque non è detto che non lo faccia). Massimo Ranieri è un re Riccardo impeccabile, lontano dallo stereotipo dell’essere Massimo Ranieri. Anzi, dimenticatelo non solo nei musical al ritmo di ‘Spingule francesi’ o ‘A’ rumba de’ scugnizzi’ (dignitosissimi pezzi da riguardarsi su youtube durante grigie giornate di inverno). Dimenticatevi pure dei suoi Eduardo per la televisione. Mai monocorde, piuttosto poliedrico, capace di re-inventarsi ed essere iper-realistico nei panni di un personaggio shakespeariano di cui offre una resa straordinaria, nella voce e nel corpo. La voce e il corpo, appunto: quando si apre la quarta parete sorge il dubbio che non sia lui. Ingrassato da cuscini nascosti sulle spalle e sulla pancia, aggobbato, ma rispetto al testo originale nemmeno troppo, Ranieri amplifica del personaggio l’aspetto della seduzione che nel suo caso necessita di un riscontro esteticamente credibile. Le complesse vicende che si intrecciano tra le due famiglie dei Lancaster e degli York (guerra delle due rose) e il dominio definitivo dei Tudor, scorrono lungo una scenografia circolare che detta i cambi di quadro, a loro volta scanditi dal rullo dei tamburi (le musiche sono di Ennio Morricone e già questo dice quasi tutto sull’investimento della produzione). I tocchi dei tamburi annunciano l’incedere della morte. Un’ecatombe, un’escalation di vittime su vittime in nome della conquista del potere. “Ho sparso talmente tanto sangue che ormai un peccato tira l’altro”; esclama più o meno così Riccardo nel delirio di un’ambizione che in questo adattamento non si consuma a colpi di spada bensì di rivoltella. Riccardo seduttore, diavolo, capace di non fare trasparire la verità del suo stato d’animo, falso quando tradisce, falso quando ama: il male in terra, distruzione di anime abbindolate dai suoi meschini sotterfugi per ottenere un trono di solitudine, viene qui inscenato in una versione da noir anni ’40. Papillon, paltò e whisky contraffatto che viene scolato come carica per un assassinio o per sopportare un dolore, come nel caso delle vedove/madri che piangono in eleganti abiti Capucci con alti colli di seta, a mo’ di strega di Biancaneve. Strepitosi gli attori, nessuno escluso, compresi i comprimari. Ammalianti al punto che lo spettatore potrebbe seguirli a occhi chiusi e gli sembrerebbe di ascoltare un perfetto doppiaggio per il grande schermo. La rappresentazione è una fenomenale prova d’attore (fenomenale. Sì, occorre abbondare), fisica, d’impatto (tipo che il pubblico osserva e con gli occhi spalancati sussurra ‘Madonna Santa’), restituita con la solennità tonale della più tradizionale recitazione di maniera. Eppure l’effetto è fresco, moderno. Se fossimo al cinema sarebbe un film girato in piano sequenza, con i colori dei thriller di Hitchcock. La battaglia di Riccardo, combattuta con se stesso oltre che con quel mondo fatto da madre fratelli cognate consigliori e nipoti, si chiude ovviamente sul conosciutissimo ‘Il mio regno per un cavallo!’, ultime parole di un uomo ucciso e schiacciato pubblicamente in segno di giustizia finale per i crimini che ne hanno accompagnato le gesta. Il Rendano di Cosenza, tutto esaurito, a questo punto si alza in piedi e tributa i suoi minuti di meritata standing ovation.
Postum scriptum: niente rose rosse per te dopo l’esibizione (non nel senso di cantare la canzone). Massimo Ranieri, stella dalla sapienza navigata (che poi non si fa che commentare metateatro, essendo Riccardo III a sua volta un attore), a chiusura del sipario scappa non in camerino, ma verso un’uscita laterale al palco dove lo attende un’automobile col motore acceso. Un minuto dopo l’ovazione non è più nello stabile di tradizione cosentino. E visto come si spende sul palco, a fronte del tot di amici calabresi pronti a fare la fila dietro le quinte per un selfie, e a fronte delle cento repliche del suo Riccardo, degli acuti, delle corde vocali, della memoria da allenare, della concentrazione, dell’adrenalina, scarica-adrenalina, sudate eccetera, beh, Massimo, ci hai pure ragione tu. Hai dato, infilati in macchina. Alla prossima.