di Matteo Dalena
“Quanto ti devo per l’intervista?”
Sarebbe tutto nella norma se a chiedertelo fosse l’editore, ma se ti capita che a pronunciare la frase sia l’intervistato devi fermarti a riflettere.
Il “Vida chi tti pigli?!” è una bella consuetidine cosentina che può diventare una sorta di sudditanza culturale. La voglia e l’ansia di assicurarsi la comparsata sulle pagine dei quotidiani infatti genera mostri, o è generata dai mostri.
La tiritera mi si ripete davanti agli occhi ogni volta che da una redazione mi assegnano la classica inchiesta sull’andamento di un determinato settore del commercio o dei servizi. Si tratta, in pratica, di intervistare un buon numero di addetti ai lavori, con tanto di testoni pubblicati con didascalia. Dalle interviste dovrebbe uscire, senza nessuna pretesa scientifica, una “certa tendenza”. Tra i bar del centro, avrei potuto fare colazione gratis almeno otto volte. Nell’ambito dell’intimo, rinnovare il parco mutandine alla mia ragazza almeno per sei mesi. E all’Immacolata tornarmene a casa con un cartoccio di “cuddrurieddri” per tutta la famiglia.
Perché ci si sente come “in difetto” per semplici parole? Perché tutta quest’ansia di baratto? Figlio del do ut des, questo atteggiamento ha prodotto uno spiacevole “livello superiore”. Più volte all’inizio, ma anche al termine delle mie interviste mi sono sentito ripetere: “Quanto ti devo?” oppure “ti devo qualcosa”. Portamonete alle mani, il mio interlocutore avrebbe pagato per essere intervistato.
Se la domanda precedesse l’intervista, la derubricheremmo come diffidenza dei ceti popolari verso i media, ma il fatto che avviene alla fine in un certo senso la giustifica. L’abitudine dell’intervistato a remunerare in vario modo l’intervistatore ci dice che quella del caffè pagato al giornalista è una pratica piuttosto in voga.
E’ la pubblicità, bellezza, la stampa dovrebbe essere un’altra cosa.