Fabrizio Corona, il re dei paparazzi, in questi giorni sta tornando a far parlare di sé. Merito di un editoriale sul Fatto Quotidiano di Marco Travaglio che arriva per primo a chiedere una grazia che ora in molti pretendono dal Capo dello Stato. Corona è detenuto in regime di carcere duro nella struttura di Opera, a Milano. Deve scontare 13 anni di carcere (poi ridotti a 9) per una serie di reati commessi in una vita senza dubbio spericolata. Anni di reclusione che sono aggravati dalla cosiddetta pena ostativa, scattata per il reato di estorsione ai danni del calciatore francese David Trezeguet perché l’agente si trovava in compagnia del proprio autista. La presenza di due persone al momento dell’estorsione ha fatto quindi sostanzialmente scattare la condanna per metodo mafioso.
Corona però trattato da mafioso si è sempre sentito da parte della giustizia italiana, lo ricorda con una lettera lettera da sua madre in diretta televisiva a Ottoemezzo, la trasmissione di approfondimento di LA7. «Da incensurato – ricorda Corona per voce di sua madre – fui arrestato e portato a Potenza, feci un mese di carcere duro con quel Pepe Iannicelli, boss delle ‘ndrine bruciato vivo con la fidanzata e quell’angelo di suo nipote di soli 3 anni».
Si riferisce al fatto che sconvolse la Calabria lo scorso gennaio, il piccolo Cocò Nicola Campolongo venne ucciso con un colpo di pistola alla testa prima di venire bruciato in macchina insieme al nonno Giuseppe Iannicelli e della sua fidanzata Ibtissa Taoussa. Tutti e tre consumati con 10 litri di benzina nel rogo della Fiat Punto grigia appiccato per cancellare le tracce dei sicari. “Cocò” è morto così sul sedile posteriore di un’auto in una contrada sperduta di Cassano allo Ionio.
Il riferimento di Corona al bambino calabrese, in una lettera che evidenzia le storture del carcere e delle misure di punizione forti con i forti e deboli con i deboli, può avere delle suggestioni. Cocò era il terzo di tre figli. La madre Antonia Iannicelli di 24 anni e il padre di 26 erano finiti in manette il 10 giugno del 2011 per una storia di droga. Cocò all’epoca era ancora in fasce e le sue sorelle avevano 2 e 4 anni. Nella stessa operazione vennero arrestati anche la zia Simona, sorella della madre e a sua volta madre di due figli, e la nonna Carmela Lucera. L’inchiesta della Dda di Catanzaro si chiamava Tsunami e di questo si era realmente trattato per la famiglia Iannicelli. Di una calamità che aveva investito e travolto anche cinque ragazzini. Tutti dentro, ad esclusione di nonno “Peppino” che di suo aveva già scontato 8 anni di carcere ed ora aveva l’obbligo di dimora notturna a casa.
Il bambino venne affidato al nonno, compagno di cella di Corona, che aveva scritto al Quotidiano della Calabria chiedendo il rilascio di Antonia proprio come oggi fa la madre di Corona, preoccupata per l’incolumità in carcere del figlio. Queste le parole di Iannicelli: «Lo so, mia figlia ha sbagliato, ma bisogna capire che è ancora una ragazzina che non ha retto a quella che a noi sembra un’ingiustizia. È necessario che venga perdonata adesso che la situazione è diventata ingestibile, prima che succeda qualcosa di grave».
Qualcosa di gravissimo successe poco dopo e, a differenza di Corona, per quel delitto non sta pagando nessuno.