dal nostro inviato Mariarosaria Petrasso
Guardiamoci in faccia. Questo viaggio al Nord ha fin dall’inizio una vena anti-meridionalista, sarà che ho visto da poco il film Bienvenue chez les Ch’tis (Giù al nord per la cinematografia italiana) di Dany Boon, sarà forse perché per una volta c’è la voglia di raccontare l’Italia oltre il Po senza il pregiudizio degli occhi del Sud. Sfatare il cliché della nebbia, del freddo invernale di una Milano con la neve ai bordi delle strade di febbraio che, nell’immaginario collettivo, si sovrappone a milanesi algidi e inospitali che sanno chiamarci solo terroni.
E invece ci accoglie un sole tiepido e l’efficiente cortesia di un luogo dove tutto sembra avere la forma di un grande ingranaggio ben oliato.
Il Sud tuttavia torna prepotente in un regionale veloce per Torino. Il controllore snocciola il suo “buongiorno, biglietti!” in un evidente accento sicilian-reggino. Lancio un’occhiata fuori dal finestrino in un campo innevato e sorrido del mio goffo tentativo di chiudere gli occhi con cui da sempre guardo gli orizzonti, per aprirne di nuovi.
Infrangere il pregiudizio nordista: è questo quello che lascia Torino. Rinata dopo le Olimpiadi invernali, è un posto piacevole con un centro pedonalizzato a misura d’uomo. Niente grigiume post-industrial da fabbrica Fiat. Città esoterica e con una storia ben più antica degli Agnelli che spesso viene dimenticata, ci attrae per la fama del suo museo egizio secondo solo a quello de Il Cairo.
Tuttavia ne rimaniamo delusi. Sarà per il suo allestimento che comincia a sentire gli acciacchi dell’impostazione museale classica, incalzata sempre più dalla necessità d’interattività del visitatore moderno, che preferirebbe un codice QR da scannerizzare con il proprio smartphone, piuttosto che la noiosa audioguida.
È invece una piacevole sorpresa il Museo del Cinema nella Mole Antonelliana. Affrontato con un po’ di diffidenza, si è rivelato al passo con il tempo frenetico pur non dimenticando le origini, tra i giochi del teatro delle ombre e antichi copioni battuti a macchina.
Torino dà un’impressione regale. Le piazze e i viali enormi sembrano riecheggiare delle adunate per salutare il re, serpeggia lungo la riva del Po e a tratti pare già Europa, lontana anni luce da quella Calabria che più volte si è rifugiata tra le sue case.
In questa città non sembrano esserci elezioni. Non ho colto nemmeno una conversazione casuale a proposito, nonostante all’indomani sia prevista l’adunata di Beppe Grillo. Il centro è sgombro da qualsiasi manifesto elettorale, nessuna violenza mediatica. Probabilmente saranno stati messi altrove. Il paradosso è che sotto i portici di via Roma, se proprio vogliamo cercare un segno politico in questa città, sono più frequenti le scritte antifasciste, gli adesivi contro le banche attaccati alle vetrine dei bancomat e i volantini No-Tav. Di faccioni sorridenti dagli slogan banali nemmeno l’ombra.
Mancano soli sette giorni al voto.