
Ci vuole coraggio per raccontare pubblicamente quello che accade nel tuo ambiente di lavoro. Per svelare dialoghi, interazioni, comportamenti, principi organizzativi, pratiche di mobbing. Segreti professionali, insomma. Ci vuole coraggio per raccontare, con occhio critico e spietato nel cogliere i dettagli, le dinamiche che hanno luogo nel tuo ufficio, soprattutto se in quell’ufficio continui ancora a lavorare e non è per te un lontano ricordo magari ammantato di fastidio. Se poi consideriamo che il luogo in questione – il famigerato call center – è uno dei simboli del lavoro flessibile, ricettacolo di giovani dalle belle speranze ma privi di reali opportunità di lavoro e di pecunia, postmoderna industria che sforna umanoidi col cervello modellato e teso verso la “convinzione” telefonica dell’altro, possiamo intuire che con “YES WE CALL“, il libro di Gabriele Fabiani uscito da pochi giorni per i tipi di Periferia, siamo di fronte a un libro che non lascia indifferenti (non a caso il titolo richiama e mutua dal nome di un’applicazione per telefoni, sarcasticamente, il celebre slogan della prima campagna elettorale di Obama, Yes we can)[1].
Il giovane Gabriele Fabiani ha coraggio, penna e cuore. Attraverso resoconti a tratti febbrili, intessuti di vita vissuta, di speranza, di paura, di rabbia, di iracondia, ci conduce nell’universo call center, raccontandolo dal di dentro. Ci svela quello che accade all’interno di questi stanzoni in cui decine e decine di giovani e meno giovani accettano turni di lavoro spesso discutibili per portare a casa uno stipendio (eufemismo). Come se avesse una telecamera in spalla, Fabiani ci porta con la scrittura a vedere quella stanza: gli impiegati con le cuffie alle orecchie e il computer di fronte, i team leader impegnatissimi nel controllare che le risposte alle telefonate rispettino il copione prestabilito.
Se fosse un romanzo, il libro sarebbe davvero divertente. Purtroppo, è un resoconto di vita quotidiana. È vita, nient’altro. E quello che Fabiani scrive è quello che realmente è accaduto nei call center in cui ha lavorato (e che continua ad accadere, probabilmente, visto che lui continua a lavorarci). Anche per questo motivo il lavoro si situa all’intersezione tra l’indagine etnografica e l’inchiesta giornalistica (Fabiani è tutt’altro che avalutativo e non lesina giudizi di valore nelle sue descrizioni). A me, con le dovute prospettive e distanze scientifiche, ha ricordato il diario di Laura Balbo quando descrisse, dal di dentro, la vita quotidiana di un ministro del governo italiano[2]. E in alcuni passaggi ho scorto sfumature di racconto che mi hanno richiamato alla mente note ricerche etnografiche: penso a Philippe Bourgois e al suo studio su alcuni spacciatori di crack statunitensi (la conquista della fiducia ha aspetti simili in entrambi gli studi) o all’immersione di Loïc Wacquant in una palestra di pugilato a Chicago (il percorso che sei costretto a compiere per diventare “uno di loro”, per essere assimilato e assuefatto al raggiungimento dell’obiettivo)[3]. Chiaramente, a differenza delle indagini sopracitate, Fabiani non ha obiettivi scientifici né ha uno studio alle spalle di avvicinamento a un lavoro del genere. Forse, anche per questi motivi, la lettura risulta immediata, diretta. In alcuni dialoghi, ti colpisce come un pugno in faccia. È come se volesse svegliarci dal torpore in cui siamo forse un po’ tutti precipitati, accettando quella che definirei la logica del call center: accettare un lavoro meccanico, spesso svilente, che tende a concepire l’essere umano come una sorta di macchina, privo di qualsiasi forma di emozionalità (per lo meno nelle ore del turno) e programmato al raggiungimento dell’obiettivo. Ricorda alcune delle caratteristiche della burocrazia moderna evidenziate da Max Weber, estremizzandole: efficienza e produttività sopra ogni cosa, rigido ordine gerarchico all’interno dell’organizzazione, esclusione delle emozioni e dei sentimenti personali nello svolgimento dei compiti lavorativi. In alcuni passaggi, quando ad esempio Fabiani racconta gli team leader che controllano a mo’ di mastini che l’operatore non si distragga dall’obiettivo, che non muova un muscolo facciale, che non manifesti un alito di emozione, mi è sembrato di trovarmi nel film Equilibrium, in cui si racconta di un mondo futuristico in cui sono banditi emozioni e sentimenti ed esiste una polizia col compito di scovare, catturare e uccidere coloro che si rifiutano di assumere il siero anti-emozionale, e coltivano segretamente ricordi o cose di un tempo che fu (quadri, libri, lettere) capaci di trasmettere emozioni[4].
Ma è un altro il film che la lettura del libro di Fabiani mi ha riportato più volte alla mente. È abbastanza recente e ha avuto una buona fortuna in termini di pubblico. Il titolo è Tutta la vita davanti, di Paolo Virzì ed è liberamente tratto da un romanzo autobiografico di Michela Murgia[5]. Racconta la storia di una ragazza, neo laureata in filosofia che, non trovando lavoro, accetta l’impiego (provvisorio, non si dice sempre così?) in un call center. Sarà per la sua formazione filosofica, sarà per la sua indomita necessità di comprendere l’esistente, di capire quello che le gira intorno, che la giovane, dopo un po’ di tempo trascorso da operatrice telefonica, abbandona baracca e burattini perché si rende conto che la vita che aveva davanti stava iniziando a passarle alle spalle[6].
Parliamo di un film, di qualcosa di scritto a tavolino, pensato per catturare l’attenzione del pubblico. Leggendo il lavoro di Fabiani ci si renderà conto di quanto, quel film, fosse veritiero. Leggendo i resoconti di Fabiani si proveranno ventate di tristezza e ondate di indignazione. In alcune parti, forse, non si crederà a quello che si sta leggendo. Ma è tutto vero. E noi, per tutto questo tempo, siamo rimasti a guardare.
[1] Sui variegati aspetti lavorativi e sociali dei call-contact center e le differenze territoriali italiane si rimanda alla recente ricerca di V. Fortunato, R. Palidda (a cura di), I call center in Italia. Lavoro e organizzazione tra retoriche e realtà, Carocci, Roma, 2012.
[2] Cfr. L. Balbo, Riflessioni in-attuali di una ex ministro, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2002.
[3] Cfr. P. Bourgois, Cercando rispetto. Drug economy e cultura di strada, trad. it. DeriveApprodi, Roma, 2005; L. Wacquant, Anima e corpo. La fabbrica dei pugili nel ghetto nero americano, DeriveApprodi, Roma, 2002.
[4] Cfr. Equilibrium, di K. Wimmer, Usa, 2002.
[5] Cfr. M. Murgia, Il mondo deve sapere. Romanzo tragicomico di una telefonista precaria, ISBN, Milano, 2006.
[6] Cfr. Tutta la vita davanti, di P. Virzì, Italia, 2008.