Un mestiere in crisi di identità, che cerca di reinventarsi e di rifinanziarsi. Vecchie lezioni e nuove tecnologie, un bagno d’umiltà collettivo per presentarsi al meglio nella nuova stagione che in tanti intravedono alle porte. Emerge soprattutto questo dalle prime giornate della settima edizione del festival del giornalismo di Perugia. Fra gli addetti ai non lavori si fa meno fatica ad interagire su twitter che a conoscersi davanti ad un caffè. Con i colleghi che lavorano all’estero ci si rende conto che negli eventi proposti il rapporto fra i “quanto sono bravo” e i “ti insegno a fare questa cosa” (QUI lil video dell’incontro con i giornalisti italiani che lavorano all’estero) sono ancora sproporzionati rispetto alle analoghe iniziative internazionali, ma il programma è di tutto rispetto e i fruitori sono un esercito paziente e composto, che anima lo splendido centro storico umbro.
Alla mitica rassegna stampa nella sala maggiore del Brufani, in balia dello humor di Beppe Severgnini e Bill Emmott, ai tavoli sono pochissimi quelli con la mazzetta di quotidiani. Caffè, smartphone, reflex e palmari per tutti. L’ex direttore dell’Economist è l’uomo che è riuscito a portare un giornale oltre il milione di copie in un periodo di crisi generalizzata, dovrebbe essere accolto con le fanfare e invece colpisce per la semplicità. “Capisco bene l’italiano, meno l’Italia”. Un problema di tutti. Anzi, a leggere in giro è viva l’impressione che nella stampa italica non tutti capiscano bene nemmeno più l’italiano. Poco male, alla fine l’italiano e l’Italia stanno mutando senza a loro volta capire molto i giornalisti. La stessa barca.
I volti più prestigiosi aprono i loro interventi raccontando degli anni di precariato, quasi a voler ridurre le distanze con la platea degli accrediti verdi, in modo maggioritario composta da giornalisti senza contratto. Riccardo Iacona della Rai grida la vergogna: “Non basta dire non ci sono i soldi, serve uno scatto collettivo”. Giuseppe Smorto, direttore di Repubblica.it, avverte che il giornalismo non è in crisi, sta solo cercando i soldi per rendere il Web meno schiavo degli inserzionisti. La sua ricetta somiglia alle molte che si ascoltano nei seminari disseminati dal Palazzo della Provincia alla cattedrale di San Lorenzo. I lettore pagherà per l’informazione di qualità online, per gli approfondimenti, ma la sensazione è che ancora nessuno abbia trovato la ricetta giusta sul come farlo. Intanto si sperimenta, si mescolano gli ingredienti e si assaggia come viene, siamo italiani.
Il maestro Gianni Mura, appassionato di buona cucina e ostinatamente refrattario ai new media, dice che “siamo in mezzo al guado, che è meglio di stare in mezzo al guano, e non è detto che non stiamo andando verso qualcosa di positivo”. Intanto dispensa aneddoti e riflessioni di un giornalismo che non c’è più perché nessuno ha voluto tramandarlo. Accantonata con orgoglio e dolore l’unica illuminata esperienza da direttore al mensile di Emergency, si muove come un cammellopardo per il centro di Perugia. Tutto è organizzato al dettaglio da una pattuglia agguerrita di volontari, per restare in tema con i tempi. Se la prende con la lingua inglese che rischia di far passare per novità alcune dimenticanze. Tipo il fact checking, una sorta di moda che arriva dagli Usa ma che dovrebbe essere sempre stata la colonna portante di un pezzo.
La Calabria, nella acclamata declinazione ’ndrangheta, non è più trendy. Se ne parla pochissimo, con approssimqazione e per luoghi comuni. Una buona notizia per lei arriva dal Premio “Una storia da raccontare” dedicato a Walter Tobagi. In una cerimonia organizzata alla meno peggio viene premiato nella sezione video il giovane Luigi Brindisi da Castrovillari, dopo anni nelle trincee dei giornali calabri vince insieme ai suoi nuovi compagni di viaggio meneghini. Dal locale al globale, gli esteri e il sociale continuano a dimostrarsi i grandi dimenticati dai media italiani, l’inviato una figura completamente mutata. Fotografi e grafici travolti dalle nuove gerarchie di redazione, posti giganteschi e sempre più autoreferenziali che somigliano “agli sportelli bancari ma senza clienti”.
Avvitata su se stessa, l’informazione italiana può anche spingersi ad aprire i giornali sui fatti internazionali per rendersi conto, dicendola con Severgnini, che “non abbiamo il monopolio dei problemi”. In questo senso l’online mostra più coraggio anche se è composto da redazioni microscopiche (un esempio, a Repubblica lavorano 400 giornalisti, a Repubblica.it solo 25).
Restano sul tavolo le grandi questioni, le qualità che deve avere un buon giornalista sono sempre le stesse e non le insegna nessuna scuola, enti formativi a cui comunque ci si rivolge con sempre più fiducia e con un po’ di autoassoluzione. Alcune qualità stanno prendendo più peso rispetto al passato e non è per forza un bene. La velocità, in particolare, renderà più competitivi i nativi digitali, ma non si andrà da nessuna parte senza una profonda conoscenza dell’italiano e dell’argomento di cui si parla, di una grande dose di curiosità e dalla sensibilità deontologica. Senza questi ingredienti il giornalismo italiano non ce la farà a varcare le soglie della nuova era.
Su questo sono
d’accordo tutti, bisogna riscoprire l’acqua calda.
FESTIVAL INTERNAZIONALE DEL GIORNALISMO
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