di Mariassunta Veneziano*
Chi festeggia il lavoro ha spesso lo stesso volto di chi fa la festa ai lavoratori. Valerio Anchino, Marino Barale, Mario Ricca, Massimiliano Manuello, Antonio Cavicchioli. Nessuno ricorda questi nomi. Non li ricordavo nemmeno io i loro nomi, ho dovuto cercarli. Eppure ero lì mentre li portavano fuori da quella trappola mortale che fino a poco prima era stato il loro luogo di lavoro. Ero lí, con il fumo nella gola e la polvere tra i capelli.
Era il 16 luglio 2007, io ero giornalista praticante, cioè un’aspirante giornalista che praticava gratuitamente la professione. Nella redazione della TgR Piemonte, a Torino, arrivò la notizia: è esploso un silos di farina al Molino Cordero di Fossano. Il giornalista che doveva curare il servizio, Alberto Gedda, mi portò con lui. Tornai in redazione dopo qualche ora, dritta al montaggio, con la videocassetta tra le mani e gli occhi pieni di lacrime trattenute, perché pensavo che avrebbe deposto male per una giornalista o aspirante tale mettersi a piangere. Quei cinque operai – cinque uomini, padri, figli, mariti – sono morti a distanza di giorni. Uno stillicidio, come quello che poco meno di cinque mesi dopo avrebbe portato il marchio di fabbrica della Thyssen Krupp di Torino. Il Molino Cordero, però, non si trovava a Torino, la città industriale per eccellenza, con il suo strascico di simboli lasciati dalla storia. Si trovava a Fossano, quasi 25mila anime, in provincia di Cuneo. E cosí ce ne siamo dimenticati di quei morti, se ne sono dimenticati i mezzi di informazione prima di tutti.
Due settimane dopo l’incendio avevo iniziato un altro stage, a Repubblica Torino. Gli operai del Molino Cordero continuavano a morire. Ma non era più “una notizia”. L’esplosione ormai c’era stata, se n’era già scritto e Fossano non era Torino. L’anno successivo mi ritrovai – ancora come stagista – nella redazione on line di RaiNews24, a Roma. Una delle prime cose che mi dissero fu: le notizie di morti sul lavoro vanno messe sempre. Anche in quel periodo – era l’estate del 2008 – il mondo del lavoro ebbe la sua strage: sei operai morti in un depuratore a Mineo, in Sicilia. Fatto che io titolai poco felicemente – e come prima notizia del sito – “La strage di Mineo“, scatenando il panico in redazione (direttore di RaiNews era Corradino Mineo). Lì ho imparato una piccola grande lezione: i morti di lavoro sono sempre una notizia, senza limiti geografici, temporali, “professionali”.
Qualche anni più tardi, dopo essere tornata in Calabria, proposi al mio giornale la storia di Damiano Toscano, morto di lavoro. Damiano Toscano era un calabrese, di Tarsia, emigrato in Svizzera per lavorare all’Eternit. Era riuscito a tornare nel suo paese e con i soldi guadagnati a mettere su un hotel. Seduta a un tavolo in quell’hotel ho ascoltato la sua storia, raccontata dalla moglie Concetta e dal figlio Marco. È un’altra delle cose che non dimenticherò, come non dimenticherò chi in redazione mi disse: “E che c’entra con noi“? Già, che c’entra con noi la storia di un lavoratore, un lavoratore calabrese, un lavoratore calabrese emigrato, uno tornato a casa dopo anni di sacrifici con un pugno di soldi in tasca e la morte appiccicata addosso? Damiano Toscano è morto di mesotelioma pleurico, la malattia dell’amianto, come i tanti di Casale Monferrato, il comune diventato suo malgrado il simbolo della strage silenziosa. Per il direttore, per fortuna, quella storia “c’entrava con noi” e il servizio fu pubblicato (puoi leggerlo QUI).
Da quando sono tornata in Calabria, nel 2009, sono entrata a tutti gli effetti nella schiera dei lavoratori. E ho imparato che il lavoro ti uccide in tanti modi. Non ti uccide solo sulle impalcature o nelle fabbriche. Ti uccide anche negli uffici, dietro alle scrivanie dove dovresti sentirti al sicuro e invece cominci a morire lentamente. Ti uccidono un paio di cuffie e certi gesti che diventano meccanici, frasi ripetute a memoria a volte senza nemmeno afferrarne il significato, ti uccide uno stipendio che non arriva o che arriva ma somiglia più a un’elemosina che a uno stipendio. Ti uccide un lavoro che non è quello per il quale avevi sudato o che è esattamente quello, il tuo sogno che però si è trasformato in un incubo.
Ne sentiremo e leggeremo tante, come ogni anno, sui diritti dei lavoratori. Miscugli di storia e ideologia, purtroppo in molti casi solo belle parole a firma di chi già domani avrà altro a cui pensare. Ma i lavoratori saranno ancora lì, a ripassare a memoria articoli della Costituzione che hanno avuto qualche concretezza forse solo nelle buone intenzioni dei padri costituenti. Il resto sarà storia di tutti i giorni, il lavoro al netto della festa. Il lavoro e i suoi diritti… Il diritto ad avere delle regole che poi sarai l’unico a dover rispettare. Il diritto a dire la tua, ché tanto nessuno ti ascolta. E se alzi la voce per farti ascoltare sei un pazzo o nel migliore dei casi uno che “si lamenta sempre”. Se il cuore comincia a battere all’impazzata, le mani a tremare, le lacrime a sgorgare a causa degli stati d’ansia che ormai ti porti addosso come Marilyn le sue due gocce di Chanel n. 5 è un problema tuo, colpa della tua debolezza che ti porta ad ammalarti facilmente e non di chi “ti ammala”. Quante cose non vorrei più sentir dire da domani. Una su tutte: “Ritieniti fortunato, c’è chi sta peggio di te“. Ma si può considerare una fortuna il fatto di vivere in un mondo che ti affama ma affama altri ancor più di te? Se c’è chi sta peggio di noi, non è che noi siamo fortunati, è che c’è un sistema che non funziona, un sistema che andrebbe migliorato, proprio a partire da quelli che stanno peggio. Quelli che stanno peggio devono essere lo stimolo a guardare al meglio, non una scusa per illudersi di stare bene. Non c’è nessun fortunato, ci sono solo lavoratori. Cominciamo a ripartire dalle parole perché le parole – si sa – sono importanti. I giornalisti – come me – devono saperle usare bene. I lavoratori – come me – farne concetti ai quali (almeno) tendere.
Buon primo maggio a tutti.
*giornalista professionista