Per un americano che si informa sul New York Times, Matteo Salvini è quel buffo politico italiano che ha condotto su Twitter (con tanto di “manifesto”) una battaglia durissima contro la burocrazia europea: «Dall’anno prossimo, nel nome del “risparmio energetico”, è possibile che l’Europa metta fuori legge i tostapane doppi – scriveva il 24 novembre 2014 –. Sì, avete letto bene. Scaldare due fette di pane insieme non sarà più possibile».
Era, per il nostro, motivo sufficiente a uscire dall’Europa, «questa gabbia di matti» che cova rancore contro gli spalmatori di pane e nutella. Vabbè, era una bufala, smascherata – prima ancora che dal Nyt – da pagellapolitica.it, il sito italiano che si occupa, in (quasi) splendida solitudine, di fact checking. Valutata come “pinocchio andante”, quella sui tostapane non è l’uscita peggiore del leader della Lega. Che si è superato lanciandosi in una considerazione di tipo economico: «Guarda caso le uniche economie europee che stanno crescendo in questo momento sono quelle che hanno avuto la forza e la fortuna di mantenere la loro moneta». Una banale fesseria: le economie in più forte decrescita – Romania e Danimarca – sono entrambe fuori dall’area euro; quelle che crescono – Malta, Slovenia e Lettonia – appartengono all’Eurozona. Quella volta, Matteo Salvini si è beccato un bel “panzana pazzesca”.
In Italia non bastano un paio di stupidaggini per sbattere fuori un politico dal circo mediatico (se è per questo, non bastano neanche un paio di condanne definitive). Specialmente Salvini. Che è un prodotto da esibire sullo scaffale dei talk show di approfondimento (leggi qui). Fa audience, ha lo sguardo feroce, parla alla pancia del Paese (la pancia del Paese evidentemente è disposta ad assorbire parecchio junk food politico) e si serve della tv per via dell’attitudine del tubo catodico a fare da moltiplicatore di bufale e, forse, di consensi.
Salvini è un’applicazione: non “saltella” sul vostro Mac ma da un canale all’altro. Si “apre” da sola sui social network, produce retweet e “mi piace”. Non è un’iperbole: il leader della Lega è davvero un’app. Perché si serve di un sistema che trasforma i suoi follower in portavoce. Gli account ripubblicano tutti i messaggi (anche quelli sui tostapane) del Bossi 2.0 e spesso non fanno altro. Non c’è nulla illegale. Facebook, però, non lo consente, mentre twitter lascia fare. Alcuni sostenitori virtuali non hanno foto né descrizione. E neanche un follower, ma contribuiscono alla macchina del consenso virtuale. Molti dei suoi più fedeli seguaci, insomma, non esistono. Ma fanno numero. [1]
E sui social network – e dire che ci sono stati presentati come luoghi in cui intessere relazioni – contano quasi esclusivamente i numeri. Siamo davanti a una riproposizione (pure questa) 2.0 del celodurismo di Umberto Bossi (la “forza” però viene slittata sul piano del consenso virtuale).
Sì, perché in fondo non è cambiato nulla rispetto a vent’anni fa. La Lega ha sempre saputo come usare i media. Il primo a capirlo fu proprio Bossi: finiva puntualmente in televisione parlando male del Sud e dei meridionali. Il razzismo è spazzatura che si vende bene. E l’app Salvini continua a venderlo. Si indirizza verso nuovi nemici: il voto di un meridionale vale quanto quello di un lumbàrd, dunque tanto vale prendersela con i migranti. E giù ad agitare lo spettro dell’invasione dei “nuovi barbari” dal Sud (del mondo, questa volta).
Il trucco riesce: ce lo hanno ricordato, purtroppo, i due calabresi ritratti nel taxipoll di Missouri4 nell’ultima puntata di Gazebo (qui dal minuto 12:20, più o meno). Loro sono pronti a votare Salvini, certo non fanno un figurone ma non se ne vergognano neanche un po’.
Lo spauracchio migrante e la violenza del messaggio aumentano i like e i preferiti, vera ossessione di Salvini. Non è cambiato nulla rispetto al 2010 e al racconto del futuro leader fatto da Furio Colombo nel suo libro-invettiva “Contro la Lega”: «Osservate Matteo Salvini mentre si lascia mostrare su un monitor del Tg3-Linea notte: cautamente, il conduttore Mannoni sta indietro come un domatore prudente. L’idea che il monitor sia una gabbia che tiene alla giusta distanza un esemplare pericoloso è suggerita dallo sguardo-sfida di Salvini (quando sta in silenzio), dalla smorfia di caratterista cattivo del vecchio cinema, quando ascolta le domande; dall’impeto – diciamo pure dalla violenza – con cui risponde». Era il 4 giugno 2010 e Salvini era: eurodeputato, consigliere comunale di Milano, direttore di Radio Padania e di varie altre cose (la Lega ha praticamente inventato gli incarichi multipli). Assieme a lui c’era la giovane scrittrice napoletana Valeria Parrella. Disse: «Non mi piace un partito xenofobo che governa tutta l’Italia ma è eletto solo in alcune regioni, che perseguita i rom e rimanda in Libia gli immigrati». Ecco, forse solo questo è cambiato. Certe cose a Salvini – mentre moltiplica i tweet, aumenta i “mi piace” e occupa il piccolo schermo – non le dice più nessuno.
[1] Qui, per chi ha un po’ di tempo da dedicare alla lettura, c’è un analisi molto approfondita della questione.