Il tutto è la somma delle parti… E qualcosa in più. Se il fallimento della sociologia si consuma attraverso i suoi limiti narrativi – non ce ne vogliano gli studiosi delle province finite di significato di Schütz – è la letteratura che guida le pupille degli occhi che osservano il mondo (contemporaneo). Se poi il punto di vista è rappresentato da La ferocia (quella umana e sociale, divenuta animalesca) eccoti Nicola Lagioia e le sue parti di mondo che flirtano con il tutto. «Un romanzo che è una specie di bestiario», esordisce così Lagioia al secondo appuntamento della rassegna MILF (Musica indipendente letteratura e filosofia) – introdotto, spesso incalzato, da Giuseppe Bornino e Silvia Cosentino del Filo di Sophia.
Un romanzo (La ferocia, Einaudi, pp. 418) che parla di cemento, potere e denaro, ma anche (e naturalmente) di rapporti tra animali-umani, padri, figli e fratelli consumati da una quotidianità non comune e da gesti che mettono in continua discussione il concetto stesso di civiltà.
La famiglia è al centro del romanzo. Non quella ideal-tipica che ritroviamo come #trendtopic dei dibattiti sui diritti civili, argomento ossessivo di una certa politica in cerca di consensi o emblema del cattolicesimo: i Salvemini sono dei “palazzinari”. E non c’è altro modo di definirli. «Raccontare di una famiglia potente mi ha dato la possibilità di descrivere al meglio le dinamiche che reggono una città» – ha raccontato l’autore, citando Le mani sulla città di Francesco Rosi e, successivamente, esplicitando una parentela letteraria con La speculazione edilizia di Italo Calvino. Sia il film di Rosi che il testo di Calvino sono del 1963: lo specchio di un’Italia che non muta nelle sue dinamiche, anzi le ripropone con una certa regolarità come costumanza più emblematica del popolino. Da Roma, città del “romanzo Capitale”, alla Taranto-Bari – luogo in cui La ferocia “si ambienta ed è ambientata” – un pezzo di strada che nulla si fa mancare.
Lagioia usa Thomas Mann per delineare la lontananza tra la borghesia Nord europea e quella italiana. La prima, protestante, con le sue tre generazioni: quella che accumula, quella successiva che gode e l’ultima, quella che sperpera. Comunque ancorata a un principio di responsabilità più saldo: restituire alla comunità parte di quanto guadagnato. E la seconda, quella italiana, che accumula mentre gode e sperpera. Orfana di un’etica sociale, che agisce senza nulla restituire. «Un Paese – sostiene Lagioia – in cui ha vinto il modello FIAT, non il modello Olivetti».
La ferocia racconta un ritorno dello stato di natura, laddove sono le province a fare l’Italia, non viceversa. Si tratta di luoghi marginali del sociale che, come specchi, tutto riflettono. E in genere la parte peggiore, soprattutto quando le difficoltà prendono piede e per i furbetti si aprono larghe e comode strade. In questa prospettiva c’è spazio per una letteratura che parte dai luoghi e crea modelli. Nulla di nuovo se si pensa ai Delillo, Foster Wallace, Welsh o Vonnegut; e in Italia? Per Lagioia «si può fare letteratura liberandosi del provincialismo, il folklore è quasi un complesso di inferiorità, bisogna essere capaci di partire dai luoghi, ma di fare della parte il tutto». E viceversa.