Ritrovarsi davanti ad Ascanio Celestini ti costringe a molti interrogativi. Da più di dieci anni è fra i più bravi attori, e soprattutto autori, di “teatro civile” in Italia e non solo. Il termine “teatro civile” non gli piace. Lo dice anche nel suo spettacolo “Discorsi alla nazione” andato in scena nella stagione del Teatro auditorium dell’Università della Calabria. Per lui non esiste teatro che si possa dividere in civile o incivile. Quando però sei davanti a Celestini devi mirare dritto al cuore dell’artista, al cantore del proprio tempo. In fondo è una cosa che ha deciso lui quando ha capito che la Storia deve passare anche dal palcoscenico. Il suo spettacolo va in scena tre giorni dopo gli scontri avvenuti a Milano all’inaugurazione dell’Expo. Se ti trovi davanti Celestini non puoi non chiedergli se quelle scene sarebbero potute finire in questo spettacolo che si rivolge alla nazione. Dice di no, dice che avrebbe scritto un altro tipo di spettacolo forse.
Ma su Milano dice di più. “Io non capisco bene cosa sia successo a Milano – spiega l’attore romano – Rispetto agli scontri c’è qualcosa di molto più grave”. Cosa? “La cosa veramente grave – continua – è che il tipo di conflittualità che si esprime in questo tipo di manifestazioni, da qualche anno, ha assunto per la magistratura un valore completamente diverso ossia si parla di devastazione e saccheggio. La devastazione e il saccheggio sono il Sacco di Roma, gli Unni, i Vandali, è un bombardamento. Non è un bancomat rotto o una macchina incendiata. Sono reati ovvio ma prendere una persona per questo e metterla in galera per dieci anni è decisamente un reato maggiore che spaccare un bancomat. Il carcere non è previsto nella nostra Costituzione, i padri costituzionalisti sono stati in galera durante il Fascismo e sapevano perfettamente che il carcere era una istituzione vecchia, violenta e per nulla rieducativa. La “moda” di mandare la gente in galera è una cosa schifosa”.
Discorsi da nazione civile, discorsi dove essere garantista non significa essere un giustificazionalista. Discorsi che si ispirano a Pietro Calamandrei e Celestini non nasconde di essersi ispirato anche a lui e a tutti quelli che hanno buttato l’anima sulla Costituzione. Nello spettacolo è l’attore stesso a calpestarla la Costituzione, porta all’estremo il conflitto italiano. Anche se non nomina mai l’Italia, il Paese dove la pioggia è il problema più importante è chiaramente il nostro. “Questo Paese non ha bisogno di un mio spettacolo”. La fa semplice Celestini. Bisogno del suo teatro invece ce ne sta, eccome. La sua scrittura tenta di risvegliare il sonno profondo in cui sono cadute le coscienze civili dell’Italia. E’ ovvio che non si può far ricadere sulle spalle di un unico uomo un peso così grande ma aiuta ascoltare i suoi Discorsi alla nazione. Aiuta sentirlo smontare pezzo per pezzo quella classe dirigente, quella elitè di sinistra che per anni ha parlato a questo Paese ma che alla fine poco o nulla ha fatto. E’ terribilmente geniale quando, rivolgendosi al pubblico/popolo sul finire della rappresentazione, impersona un padrone che ringrazia il proletariato; un grazie ai compagni per aver inventato termini e filosofie auliche per addolcire un bastone che quella “classe dirigente” infila nel deretano del popolo, in questo caso, bue. Non si mette a fare il maestrino Celestini, si prende anche lui le sue colpe da “uomo di sinistra” come si definisce nel prologo dello spettacolo ma lui, lui se ne frega. E lo dice col braccio destro alzato prima di dare un’anima ai personaggi che anticipano il discorso del leader alla nazione. E’ un uomo con l’ombrello che caga in testa all’ultimo della società, è il cecchino democratico che spara senza fare differenza fra potenti e non, è l’uomo debole che si sente forte con la rivoltella in tasca e che lo aiuta ad affrontare la vita.
“L’Italia non è in una dittatura propriamente detta – racconta sotto il sole di Arcavacata – c’è una sorta di catena alimentare del potere dove si rovescia il concetto di lotta di classe consapevole quella dove c’è chi vive nel concetto di subalternità e lotta contro il proprio carnefice; oggi ogni vittima cerca una propria vittima su cui esercitare la propria dimensione di carnefice. Chi viene dominato cerca di essere dominate su un altro”. Un concetto che esprime in tutto lo spettacolo. Insinua concetti “fastidiosi” in chi ascolta che impongono una riflessione. Così scomodi persino da scomodare dubbi anche sull’operato di Antonio Gramsci. Ma in fondo il teatro civile non è altro che questo: cercare di togliere quell’ombrello infilato su nel deretano.
Anche se fa male è necessario.