di Daniel Intrieri
– Hai sentito di quella del 3-H?
– Quale? La secchiona?
– Sì! Proprio lei. Dicono che ieri si sia suicidata perché non si è piazzata tra i primi 10 nella lista dei risultati per il compito di matematica.
In Italia da una conversazione così nascerebbe un caso nazionale, con le troupe appostate come sciacalli che ben presto per gli alunni sarebbero più familiari del bidello.
In Corea del Sud invece tutto sembra normale. Di solito le famiglie protagoniste di questi nefasti accadimenti si vedono recapitare a casa una lettera di condoglianze, con tanto di sigillo nero con scritti pochi caratteri in hangul. 가셔서 유감, gasyeoseo yugam, siamo rammaricati per la Vostra perdita. Niente di più. La scuola rimuoverebbe quel banco ora in eccesso, cancellerebbe il nome dal registro e tutto si resetterebbe. Come se il passare di un giorno potesse cancellare tutto. A ricordare la compagna morta solo pochi amici, compagni di classe costretti a dimenticarla e ad andare avanti, perché chi si attacca ai ricordi e non va avanti viene considerato cittadino di serie B da quelle parti.
Dietro la purezza d’animo e l’allegria di un gangnam style si nasconde ben altro in Corea. Una società troppo focalizzata sull’essere cittadinanza attiva e produttiva, sul non essere di peso.
“O diventi qualcuno o è meglio che ti ammazzi”. Questo è quello che mi disse un amico di penna dalla Corea, che al suo secondo anno di liceo è già stato testimone di un suicidio. Una ragazza, colpita nell’animo da quel gioco diabolico architettato dal sistema scolastico coreano che vuole tutti i risultati dei test scolastici intabellati a mo’ di classifica ed esposti in bacheca davanti agli occhi di tutti. Troppo per lei, studentessa modello vittima di un sistema dalla competività assurda, che in quei momenti dev’essersi sentita persa, amareggiata; inutile e con ancora 12 ore di scuola davanti a sé (in Corea si rimane a scuola per 16 ore). Per tutto quel tempo avrebbe dovuto cercare di rimanere in silenzio, di non piangere, altrimenti il professore l’avrebbe fatta stare in piedi con le braccia tese in avanti per mezz’ora. Ma non ci riuscì e poco prima della fine delle lezioni gli studenti di turno a pulire i gabinetti la trovarono in bagno, con una forbice in gola.
Avevo già sentito parlare del masochismo formativo, ma parlarne con un ragazzo della mia età è tutt’altro. Mi spiega che c’è chi dice che non è solo per il brutto voto in matematica, chi le era vicino dice che “si lamentava delle lezioni difficili e del poco tempo da poter dedicare a divertirsi… non ce la faceva più, insomma. Non mi stupisce che si sia suicidata”.
Che questo maledetto test di matematica sia stato solo la goccia a far traboccare il vaso? Il dubbio rimane, come quelle storie maledette e senza soluzione a cui si uniscono quelle di 101 studenti di scuole medie, superiori e addirittura elementari che nei passati cinque anni hanno raggiunto anche loro quel punto di rottura.
La scuola non dovrebbe mai assomigliare ad un’olimpiade, in nessuna parte del mondo.