Molte persone ritengono che Cosenza sia dei Ramones; questa convinzione generalizzata domina da anni le mie riflessioni riguardanti la musica, la ‘cosentinità’ e tutte le implicazioni che scaturiscono dal loro esplosivo connubio. La prima volta che ho sentito dire che la città bruzia ama i Ramones al di sopra di qualsiasi altro gruppo punk le mie profonde convinzioni identitarie hanno cominciato a vacillare. Io sono cresciuto con i Clash, per anni Mick Jones, Paul Simonon, Joe Strummer e Topper Headon mi hanno accompagnato alla scoperta di sonorità e storie che altrimenti non avrei conosciuto. Con Sandinista! sono venuto a conoscenza delle lotte di liberazione nazionale in america latina, con White Riot mi sono avvicinato alla complessità sociale del Regno Unito e con Bank Robber sono arrivato a sognare che mio padre fosse un rapinatore di banche. In tutto ciò i Ramones attraevano la mia attenzione per il loro aspetto, per l’esasperante velocità che non lascia il tempo di capire bene di cosa stessero parlando; ogni pezzo del gruppo newyorkese mi lasciava in bocca il sapore di una gomma da masticare il cui gusto ti rimane in bocca per una ventina di secondi e mentre pensi che ti piace ti ritrovi a una soletta di scarpe fra i denti. Così, qualche settimana fa, appena arrivato a Berlino, ancor prima di fare un giro delle case occupate, senza neanche aver provato un bagel o aver reso omaggio alla Pankow dei CCCP, mi sono fiondato al Ramones Museum, un semplice bar che ospita veri e propri cimeli della band statunitense. In questo locale, nascosto nei pressi della Sinagoga, mi sono ritrovato a pensare al legame che unisce il collettivo musicale nato a Forrest Hills ed i suoi fan che pogano sulle sponde del Busento e del Crati. Ovviamente, come da una quindicina di anni a questa parte, non sono riuscito a darmi una risposta soddisfacente. Perché ‘Cosenza è dei Ramones? Perché?’. Sarà una questione di ritmica? Sarà perché le cosentine ed i cosentini individuano nei Ramones i germi che hanno aperto le strade all’affermazione del punk molto prima della comparsa di gruppi-icona come i Sex Pistols? Sarà perché appartenere ai Ramones designava l’ingresso in una dimensione musicale nuova, nella quale ogni singolo membro lasciava il proprio cognome per entrare a fare parte di una band che ti modifica il dna? Sarà perché a Cosenza ti viene perdonato di votare per i Repubblicani o di aver fatto parte dei Marines se hai inventato un capolavoro come Pet Sematary? Forse il nucleo originario dell’amore tra la città dei Lupi e i Ramones risiede proprio nella stridente sfacciataggine di quattro simboli che, armati di batteria, basso, chitarra e voce, riescono a parlare di blitzkrieg e di colla da sniffare. Sarà perché se titoli un album Road to Ruin hai conquistato i cuori della metà più una delle genti bruzie, sarà perché I just want to have something to do è un inno che dà voce a noi che soffriamo di vilienza* cronica. O semplicemente sarà perché perché Hey ho let’s go! è la migliore traduzione possibile di Iamu, ià.
* vilienza = stato di malessere psicologico simile alla apucundria napoletana.. possiamo dire apatia, scocciatura.. profonda e propria dell’anima