Un giro di tre ore su un treno di pendolari intorno a Yangon (Yangon Circle Line) dà la misura di quanto ci sia da fare in Myanmar nell’ambito dei diritti umani e della povertà. In parte spiega anche l’ostinazione di Aung San Suu Kyi, l’orchidea d’acciaio della Birmania – come venne soprannominata dal Time – nel voler dedicare la sua vita a questa nazione. Premio Nobel per la pace nel 1991, agli arresti domiciliari per oltre vent’anni, ha rappresentato (e rappresenta ancora) la maggiore minaccia democratica e non-violenta per il regime militare che ancora oggi detiene il potere. Dopo che i militari hanno annullato le elezioni che vedevano vincente il suo partito, la Lega Nazionale per la Democrazia, le speranze sono riposte nelle consultazioni del prossimo novembre.
Intorno all’ex capitale c’è una sintesi dei gravi disagi in cui vive la popolazione. Nonostante negli ultimi anni il regime stia corteggiando l’Occidente rendendosi più disponibile all’apertura delle sue frontiere e agli scambi commerciali (finora quasi inesistenti a causa delle sanzioni imposte per la continua violazione dei diritti umani), lo stesso non sembra curarsi troppo della povertà in cui versano le immediate vicinanze di una delle città più importanti. Villaggi fatti di baracche, circondati da spazzatura e liquami scorrono dal finestrino del treno che in alcuni tratti procede lentissimo, mentre alcune donne asciugano panni ed essiccano pesce sui binari abbandonati e piccoli mercati affollano le banchine delle microscopiche stazioni. Ad ogni fermata incrocio sguardi curiosi, persone che scrutano, che provano a decifrare i miei tratti sconosciuti, bambini che interrompono i loro giochi e salutano sorridenti, le donne enigmatiche con il volto coperto di thanaka (lo proverò anche io a Taunggyi).
In generale, chi parla un po’ di inglese non perde occasione per fermarci, chiedono da dove veniamo, alcuni vogliono fotografarci e io mi presto volentieri a questo loro entusiasmo, immaginando i racconti che faranno ai loro amici quando mostreranno la mia foto: deve sembrargli davvero strana una donna che mostra le ginocchia e non indossa il longyi, il tradizionale “pareo” usato da uomini e donne che arriva fino alle caviglie. Quando ormai il treno torna verso Yangon, un’anziana sale con il suo carico di verdure da vendere al mercato. Il controllore si avvicina, chiede il biglietto ma lei non ce l’ha. Una donna più giovane segue la scena e ci spiega cosa succede: “E’ sola al mondo e non ha soldi abbastanza per pagare.” Il biglietto costa il corrispettivo di circa due dollari.
Ma non è solo la povertà la grande questione del Myanmar. Dopo la liberazione dal colonialismo inglese nel 1947, grazie anche a Aung San padre di Suu, molte etnie in diverse zone del Paese, cominciarono a rivendicare l’indipendenza dallo Stato centrale. Oggi si contano sette regioni, sette stati e diverse zone auto-amministrate che fanno della Birmania un complesso puzzle di minoranze etniche, lingue e usanze che la rendono una delle nazioni più difficili da comprendere. Oltre alla violazione dei diritti umani, le torture, i lavori forzati e tutto quello che la figura di Aung San Suu Kyi è riuscita a far emergere nella sua provvidenziale esposizione internazionale, il Paese è martoriato da una delle guerre civili più lunghe della storia: interi gruppi etnici, come ad esempio i Karen e i Kachin, rivendicano autonomia e libertà. Questi conflitti hanno dato vita a diversi campi profughi, soprattutto sul confine thailandese, facendo crescere in modo preoccupante i casi di malnutrizione e malattie.
E’ l’ultimo giorno a Yangon. La giornata passa a visitare le altre due pagode più importanti della città, la Sule Paya e la Botataung Paya, ma dopo la Shewedagon tutto sempre meno sfarzoso. Siamo alla fine della stagione delle piogge e improvvisi acquazzoni rendono i pavimenti delle pagode scivolosi come saponette, facendo i miei passi decisamente goffi. Gironzolando nel quartiere del nostro albergo l’ultima sera a Yangon, ho come l’impressione di aver lasciato qualcosa di incompiuto, probabilmente valeva la pena fare un giro sul lago Inya. Ma purtroppo il tempo è sempre troppo poco, ci aspetta un volo per Heho e qualche giorno nei dintorni del lago Inle.
(2. continua)
PRIMA PUNTATA > BIRMANIA MANIA | Perché il fascino di Yangon vale nove aerei