di Matteo Dalena
Sono davvero giorni da “Oscar”. In chiusura di campagna elettorale arrivano gli ambiti premi a chi recita meglio e tengono banco le storie di vita di chi proprio quel nome lì porta. Se n’è accorto il Tg 1 che sovente, nel memorabile frangente di uno strafalcione, intreccia le due diversissime storie di Pistorius e Giannino, di nome Oscar: vicende di trionfi e tracolli. Dal “taci miserabile” al miserabile messo a tacere, dalle lamine che accarezzavano il selciato all’indicibile svelato. Segreti agghiaccianti, celati nei meandri di menti e corpi avvezzi al fascinoso cosmo del “dandysmo”.
Anche Santa Romana Chiesa ha il proprio Oscar e, in tempi grami di sede vacante, è una gran cosa. Sua eminenza Óscar Andrés Rodríguez Maradiaga, salesiano di origini Maya (particolare questo che apotropaicamente gioca a suo sfavore nell’ascesa alla poltrona petrina), senza pensarci su ha dichiarato: “E’ un lavoro implacabile, sono inadatto”. Siamo già all’emulazione del buon Ratzinger? Nient’affatto. Trattasi di pura strategia, pretattica. Nella fenomenologia conclavista e non solo, infatti “se entri Papa, esci cardinale”. I bookmaker lo danno se non tra i favoritissimi, almeno fra i venti profili “ammissibili”. Lui che al secondo ballottaggio nel conclave post – Wojtyla, secondo il diario segretissimo di un anonimo elettore, prese un paio di voti.
E intanto il prossimo extra omnes, dal profano al sacro, si avvicina: c’è chi si chiama fuori, chi viene fatto fuori e chi, in breve, è fuori di melone. Come le autorità aeroportuali statunitensi che l’altra notte hanno bloccato per ore alla dogana di Los Angeles il “forse Oscar” regista palestinese Emad Burnat, candidato con il film 5 Telecamere rotte, documentario sulla vita di un villaggio palestinese. Sembra che agli uomini dell’ufficio immigrazione risultasse incomprensibile come un palestinese potesse essere uno dei nominati agli Oscar. “Non è di certo qualcosa a cui io non sia abituato – ha dichiarato il regista – quando si vive sotto occupazione, senza
diritti, può accadere tutti i giorni”.
Storie di cacciate o rifiuti, piccoli o immani drammi personali, animi battaglieri, vite interrotte e legate da un nome di per sé emblematico: Oscar deriva dal tedesco arcaico Oskar, latinizzato in Anscarius e significa proprio “guerriero di Dio”. Sulla schiena di Oscar Pistorius, il campione che ha ucciso la moglie e che fra poche ore abbandonerà le celle sudafricane su cauzione, è indelebilmente scritto: “Io quindi corro così; non in modo incerto; combatto, ma non come chi batte l’aria; anzi, tratto duramente il mio corpo e lo riduco in schiavitù, perché non avvenga che, dopo aver predicato agli altri, io stesso sia squalificato”.
Corinzi 9; 26-27