Quanti nativi digitali comprano quotidiani, leggono riviste o sfogliano compulsivamente i magazine in edicola?
Pochi, da quanto si evince dai numeri.
Qual è il ciclo vitale dei giornali cartacei su scala nazionale? Breve, potrebbero sopravvivere ancora 10-15 anni, a voler essere ottimisti. Non bisogna essere l’editore di Neewsweek per capire che il modello tradizionale della carta stampata è in crisi (pur con le sue significative eccezioni). E non è solo un problema di finanziamento ai partiti e di forme di giornalismo che si auto cast(r)a in cambio di sovvenzioni pubblicitarie e sponsorizzazioni, oggi vitali, a causa dei letali cali di vendite. Basta fare un giro in metropolitana o sui mezzi pubblici per capire l’influenza popolare che hanno i media tradizionali nel processo di apprendimento e nella fruizione delle notizie. Un tempo il quotidiano era un brand identitario, in una fase successiva al massimo un ventenne esibiva una freepress.
Oggi sono tutti persi nel consultare telefonini ed altri device.
L’approvvigionamento e la ricerca di notizie avviene perlopiù in Rete, nella gratuità più assoluta (in barba ai diritti d’autore, lamentano editori e cronisti). La notizia è confezionata sotto forma di snack, liofilizzata, rispondente a canoni Seo, asciutta, in una chiave semantica diversa rispetto al passato. Talvolta si legge solo un piccolo inciso (su Internet la fretta regna sovrana). L’approfondimento si persegue in maniera personalizzata, l’accesso alla fonte è prevalentemente free, poi semmai si arriva alla condivisione spam sui social network.
Cosa c’entra questo con il dibattito sulle storture del giornalismo e l’ipersfruttamento dei precari a 5 euro a pezzo o 80 centesimi a rigo o duecento euro a settimana (una piaga che riguarda tutta la Penisola, basti pensare al caso più eccellente, quello di Giovanni Tizian)? Il filo è diretto è semplice: il contenuto non è più merce rara. E come tutta le cose di scarso valore si pagano poco.
Tra le giovani leve il Ctrl+c/Ctrl+v delle tastiere dei pc – per intenderci il copia e incolla brutale, smascherabile via Google – ha sicuramente meno implicazioni deontologiche e professionali di una flatulenza emessa nel vagone affollato di un treno. Il calo dell’advertising pubblicitario e delle vendite – il segno meno è una costante da anni – non lascia intravedere grossi margini per la carta stampata, che sta vivendo un vero e proprio bagno di sangue, schiacciata dall’irruzione delle nuove tecnologie. E, nonostante questo, il vecchio modello di business, quello legato all’accoppiata vendite/raccolta pubblicitaria, resta la fonte principale dei ricavi. Dunque la tempesta è perfetta.
Il vecchio modello arranca, senza che non sia sostituito da un altro altrettanto efficiente. Negli Usa per 10 dollari persi su carta, si guadagna un dollaro sul digitale, per intenderci.
L’offerta dei Media si è arricchita e rinnovata a ritmi vorticosi. Tutti fattori con cui un sistema in obsolescenza deve pur fare i conti. Ed è ormai lapalissiano che ci sarà un
effetto dirompente derivante dalla lettura delle notizie su smartphone e tablet, che fa sì che i Cpm (Cost per mille) su mobile siano di gran lunga inferiori a quelli su desktop: un problema da tenere nella dovuta considerazione nelle analisi.
Questo giornalismo dunque non deve morire, è già in fase ultra-agonica, attaccato al respiratore e già falcidiato da tagli a cascata (Corsera docet). E non bisogna essere apocailittici o integrati, Evgenij Morozov o Manuel Castells per sostenerlo con compiutezza. La soluzione alla sostenibilità dei modelli non è univoca e sono nate diverse piattaforme che tentano ancoraggi a realtà in divenire.
Prendiamo il crowdfunding, ossia il reperimento di risorse online. Per il giornalismo d’inchiesta la formula sta dando qualche risultato significativo, sebbene si tratti sempre di un fenomeno con caratteristiche di nicchia, come scrive il blog Pangea, e peraltro, legato a esperienze straniere (americane e inglesi soprattutto). Bisogna insistere allora su nuove forme di mecenatismo (le università, gli ordini professionali, le associazioni di categoria possono assolvere a quella funzione). Puntare sul pionierismo (sarebbe curioso capire quali sono i margini di uno spotify legato alle notizie ad esempio, dicono alcuni esperti), implementare sinergie con i corsi e le scuole di gionalismo, riuscire ad attivare progetti mirati di startup nel mondo dell’informazione, attuare una ricognizione dei centri di spesa e delle possibilità di attrarre investimenti sostenuti con fondi comunitari.
In sintesi, sono tutte strade che possono dare nuovo respiro alla professione, considerando che serve sempre un filtro, una mediazione tra la realtà e il racconto della stessa, per quanto diffusi i social media, non possono sostituire quest’esigenza primaria da Erodoto ai nostri giorni.
Discorsi che però meriterebbero ulteriori delucidazioni, la questione è quanto mai aperta.
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Claudio Careri ha capito le potenzilità del Web molto prima di altri e sa di cosa parla. Ci offre delle possibili cure dopo un nuovo consulto, allargando il respiro della discussione. Con cosa avvolgeremo il pesce a mezzogiorno sarà una questione non meno importante dei fatti. Le innovazioni informative di Google e simili rischiano di piegare la democrazia dal punto di vista culturale, laddove i fatti sono veri non perché sono veri ma perché la maggioranza degli utenti credono che lo sia. Per evitare questo pericolo bisogna sperare che il giornalsimo si innovi presto certo, ma anche e soprattutto che ritorni quello di un tempo. (sas)
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