Ho una forma mentis settata sul locale più che sul globale, e qualche anno in più di chi sta intervenendo in questo dibattito. Quando ne avevo uno in meno, di questi tempi, ho deciso dalla sera alla mattina – letteralmente – di lasciare il mondo della carta stampata, un contratto appena rinnovato e soprattutto uno stipendio fisso, per costruire qualcosa di mio, senza fare mistero di essermi ispirato anche e soprattutto alla “Mmasciata sampietrese”.
Ho iniziato a scrivere su un quotidiano regionale relativamente tardi, a 28 anni suonati. Quando cerco di spiegarmi il perché, anche durante le brillanti conversazioni con l’amica e bravissima collega Maria Teresa D’Agostino, mi dico che all’età di molti degli attuali redattori dei quotidiani regionali non c’era scelta. Non avevamo alcuna chance. Siamo cresciuti nell’epoca del monopolio dell’informazione quotidiana calabrese, in mano a un giornale messinese. In ogni paese c’era un corrispondente locale “vita natural durante” e per chi aveva voglia di imparare il mestiere, per poi pensare, un giorno, di emergere non c’era spazio alcuno.
Ci restavano le radio e Tv private, le piccole e tutt’altro che durature testate locali (settimanali o mensili) che ci davano la possibilità di imparare qualcosa dai colleghi più anziani e preparati e provare l’ebbrezza della nostra firma in calce ad un articolo, lavorando rigorosamente gratis.
Poi arrivò il Quotidiano.
Era il 1995, dopo qualche anno di vita si cominciò a schiudere qualche spazio a chi aveva fatto parecchia gavetta. Pur di scrivere eravamo tranquillamente disposti a occupare ruoli marginali, corrispondenze da piccolo centro, spesso (come nel mio caso) in un unico settore, come lo sport. Nel frattempo arrivò l’esplosione di Internet con la progressiva diversificazione e moltiplicazione dell’offerta informativa e undici anni dopo venne alla luce del panorama regionale un altro quotidiano, Calabria Ora, che mi vide, seppur non in “pole position”, tra quelli che parteciparono alla fase di nascita.
Qui mi sforzo di non ripetere la solita, trita e ritrita, storia personale, peraltro di dubbio interesse collettivo. Preferisco soffermarmi su un aspetto specifico che, a mio modo di vedere, concorre alla crisi dei quotidiani cartacei almeno quanto tutte le ragioni macroeconomiche, culturali e di cambiamenti di costumi, già e meglio esposte da chi ha partecipato in precedenza a questo dibattito.
Mi riferisco alla mancanza di qualità, originalità e impegno che troppo spesso caratterizza i collaboratori locali dei giornali quotidiani regionali. Così, giusto per arricchire la mia già folta schiera di antipatie.
Più si va avanti e più cresce la distanza, la cosiddetta “forbice”, tra chi facendo parecchia gavetta è arrivato a conquistarsi un posto, seppur sottopagato e sfruttato, in redazione e chi collabora da casa per le cronache di paese e che, al di là del “compenso” tutt’altro che equo, viene gratificato dalle parole intrise di melassa e ipocrisia dal direttore, caporedattore, vicedirettore di turno, che nelle rare riunioni aperte ai collaboratori dice loro che “Sono i corrispondenti quelli che ‘fanno’ il giornale”.
Ovviamente, non si può generalizzare. Alcuni, infatti, fanno i corrispondenti di paese perché non hanno mai avuto l’opportunità di emergere; parecchi, invece, si sono ritrovati in giovanissima età a rivestire ruoli di una certa visibilità e invece di farsi in quattro per provare a meritare la fortuna avuta e accettare nel migliore dei modi la sfida, cercano ogni giorno di considerare il loro rapporto di collaborazione come una rendita di posizione. Sì, il Comune di competenza diventa il loro feudo, la loro “locale” da difendere alla stregua di una ’ndrina, anche tirando fuori il coltello – metaforicamente parlando, s’intende – anche nei confronti di chi vorrebbe dare il proprio contributo alla causa del giornale scrivendo ad audiuvandum e che si vede dare, complice l’insipienza di qualche redattore di turno, il più categorico dei “niet”.
Accade, ahinoi, che chi ha solo avuto la fortuna (se non il canale giusto, la raccomandazione) di collaborare con un giornale per la cronaca locale, diventi, nel secondo decennio del nuovo millennio, quello che nella Gazzetta del Sud (giusto per citare l’esempio più solido, ma vale per tutti i giornali regionali di qualsiasi parte del mondo) degli anni ‘80 era il “corrispondente di paese”.
Insomma, un modello vecchio di trent’anni, superato dalla storia e da un’offerta informativa sempre più ricca, variegata e tempestiva, incarnato troppo spesso da ragazzi che trentanni nemmeno ce l’hanno (a volte perfino sgrammaticati e comunque spesso acerbi). Dello spirito “di rottura”, della tempestività dell’informazione e dell’innovazione dovrebbero farne le armi migliori, ma sono rimasti al modello del corrispondente del XX secolo, quello che fanno entrare gratis alla partita e a teatro, quello che riceve gli inviti per posta al premio estivo della pro loco e alla sagra di paese, quello che fa parte della giuria del concorso di bellezza e che riceve sulla sua casella personale di posta elettronica i comunicati stampa degli attori politici paesani, che puntualmente “rimpasta” per elaborare pezzulli da professionista del “copia e incolla”, naturalmente a firma sua.
L’antigiornalismo, per dirla tutta.
Quel tipo di corrispondente di paese di solito è filogovernativo quando segue i consigli comunali (a meno che la giunta e il sindaco siano avversari suoi o dei propri congiunti), casalingo e tifoso alla Carlo Pellegatti quando segue le partite e che, pur di sentirsi “qualcuno” mantiene la collaborazione anche nelle condizioni contrattuali impossibili da tollerare, accontentandosi anche di non essere pagato per anni, e con la sola gratificazione della copia omaggio che ritira in edicola ogni mattina, tenendola perennemente sotto l’ascella come se fosse la baguette per i francesi.
Non è un caso che tanti che hanno fatto il loro lavoro di corrispondente locale con scrupolo e professionalità per poi rivendicare i giusti diritti dopo anni di collaborazione puntuale e di qualità, a un certo punto abbiano deciso di mollare. Nella mia zona i giornalisti tanto bravi quanto disillusi sono tanti. Ora, piano piano, stanno rimanendo, fatte salve le dovute eccezioni, solo i meno capaci, i professionisti del “copia e incolla” dai comunicati stampa che quando scrivono i loro pezzi (che qualche redattore di buona volontà corregge e spesso, per carità di patria, rivolta come un calzino) esordiscono con uno sciatto “Si è svolto presso…”. Il risultato è che, il più delle volte, le pagine locali dei giornali regionali sono piene di notizie che la gente ha già letto il giorno prima nelle testate online o, peggio, sui Social.
E allora, come categoria, dovremmo fare un po’ di autocritica, e al di là della sacrosante rivendicazioni contro editori che non pagano, o che comunque sottopagano, dovremmo interrogarci sul progressivo scadimento della qualità delle cronache locali, spesso in mano a cialtroni che si autodefiniscono “giornalisti” solo perché hanno in mano un tesserino da pubblicista per il quale non è previsto alcun requisito qualitativo o prove di abilità professionale. Non possono bastare due anni di “Si è svolto presso…”, due anni di sagra della carne di capra e di partite in cui la colpa della mancata vittoria della squadra di casa è sempre da addebitare all’arbitraggio “scandaloso”. Due anni di sciatterie pubblicate grazie alla complicità di redattori compiacenti che hanno chiuso ai contributi dei volenterosi perché “In quella zona il corrispondente c’è già”.
Io da quasi un anno non compro i quotidiani regionali. Quando mi capita di sfogliarli, benedico l’euro e venti risparmiato e rivolgo soltanto un affettuoso e solidale pensiero ai colleghi bravi e volenterosi, quelli che spesso si devono inventare quattro-cinque pagine da confezionare al giorno e costretti, dai tempi e dai costumi della testata, a scrivere di proprio pugno le aperture con argomenti interessanti, per poi completare i mosaici con i pezzulli dei “Si è svolto presso”, piccoli ras del quartiere o della borgata, reucci del loro piccolo mondo antico in cui ogni informazione deve passare da loro, perché pensano di essere loro a decidere tempi e modi di pubblicazione delle notizie, tanto che non sono rari i casi di “cartelli” tra corrispondenti dello stesso paese per testate differenti che, in nome di un’ipocrita cortesia di casta, spesso si mettono d’accordo per far uscire tutti insieme una notizia che invece andrebbe pubblicata subito, finendo col ledere anche quel sano principio di concorrenza che dovrebbe livellare verso l’alto una qualità che invece, anno dopo anno, marchetta dopo marchetta, “si è svolto presso” dopo “si è svolto presso” precipita sempre più verso gli inferi di un mestiere che si svaluta a ritmi vertiginosi.
Anche per colpa loro e di chi li lascia fare.
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Ringraziamo il direttore del coraggioso Lentelocale.it appassionato testimone dei passaggi storici della fondamentale battaglia per una stampa libera a queste latitudini. Una battaglia ancora tutta da combattere riportando lo scontro sui binari della qualità del servizio, come ci ricorda. Non solo questo, Albanese ci porta nelle stantie pozzanghere dell’ultraperiferia e rinnova il ricordo delle leggi studiate da Thompson in materia di mezzi di comunicazione e modernità. “Più è globale la diffusione di un messaggio, più dev’essere locale l’appropriazione del suo contenuto”. Tutto questo può avvenire solo facendo leva su passione e impegno, sacrificio e abnegazione. Facendo in modo che il modello del “Si è svolto presso” venga sconfitto a tutti i livelli. Chi ha la stoffa deve dimostrarlo e lavorare per duro per farne un buon abito. Ma il proverbio dice “stoffa da vendere” e non da regalare, questo è un punto fondamentale. Perché – anche se restano valide le parole di Montanelli quando avvisa che la servitù, in molti casi, non è una violenza dei padroni, ma una tentazione dei servi – tutto questo sta avvenendo perché chi ha in mano le risorse del giornalismo lo vuole sciatto seduto e squattrinato, incapace di riportare ai lettori gli orrori che ogni giorni vengono consumati alle loro spalle. (sas)
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