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STAY HUMAN | Negli Usa la pena di morte si fa sempre più nera

Paolo Pirani
Paolo Pirani
Febbraio12/ 2016

di Paolo Pirani

Nel 1979 l’afroamericano Brandon Astor Jones venne condannato a morte per l’assassinio ad Atlanta di un manager bianco durante un tentativo di rapina. Il 3 Febbraio del 2016 è stato eliminato con una iniezione letale. Trentasei anni nel braccio della morte; è il più anziano condannato a morte dello stato della Georgia ed è fra i detenuti che hanno visto passare più tempo tra la condanna e la sua esecuzione nella storia degli Stati Uniti. Si sente spesso sottolineare l’arretratezza dei paesi che ancora prevedono la pena capitale in via ordinaria, ma raramente si fa questo parallelo quando si parla di Stati Uniti dove è prevista in 31 stati su 50. Dall’inizio del nuovo millennio ad oggi le esecuzioni sono state 829; a questo numero, già enorme di suo, l’analisi delle statistiche aggiunge delle ombre particolari. Pregiudizi razziali e tempi sempre più lunghi trascorsi nel braccio della morte: il caso di Jones è in questo senso paradigmatico.

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Proteste fuori dalla prigione georgiana in cui è stata applicata la pena di morte per Brandon Astor Jones. (foto Ben Gray su ajc.com)

La tematica della discriminazione razziale in questi ultimissimi anni si è dimostrata ancora attuale negli Stati Uniti e questo si riflette anche nel sistema della pena di morte. Ad ottobre 2015 nel braccio della morte il 55% di popolazione carceraria era formata da detenuti neri o ispanici a fronte del 43% di detenuti bianchi. A questo dato si uniscono ricerche specifiche. Come quella condotta in California dalla Santa Clara Law Review nel 2005 che dimostra come in quello stato fosse tre volte più probabile venisse applicata la pena di morte nei casi in cui le vittime risultano essere cittadini bianchi. Il professor Beckett, dell’Università di Washington ha dimostrato nel 2014 che i giudici nello stato di Washington fossero tre volte più propensi a suggerire la pena capitale per un imputato nero piuttosto che per un imputato bianco in contesti penali simili. I dati raccolti dalla deathpenaltyinfo.org sono ancora ancora più chiari. I casi di omicidio che sono risultati in una condanna a morte per il colpevole nel 75% dei casi avevano un bianco come vittima, benché le vittime di omicidio solo nel 50% sono bianche. Se, insomma, si può asserire che la pena di morte è certamente lontana dalla concezione moderna del diritto, è chiaro che lo è ancora di più quando è impregnata di razzismo.

Chissà cosa sarebbe accaduto alla sua sorte se Jones avesse ammazzato un afroamericano. La pena di morte è una arcaica concezione della punizione. Al condannato viene preclusa ogni possibilità di reinserimento nella società. La legge è quella antica, un morto per un morto, occhio per occhio. Ma alla punizione in sé, che dovrebbe essere l’esecuzione, se ne aggiunge un’altra, non meno grave. Le statistiche dimostrano come dal 1984 ad oggi vi sia stato un chiaro aumento del tempo che passa tra la sentenza e l’esecuzione. Nel 2012 in media il prigioniero passava quasi 16 anni nel braccio della morte, oggi questo dato è moltiplicato. Scongiurare il rischio di portare all’esecuzione degli innocenti, stare al passo con il continuo cambiamento delle leggi e l’evoluzione delle tecnologie di indagine hanno significato allungare il tempo degli appelli e riesaminare in continuazione le sentenze. Ma l’allungamento dei processi è significato anche introdurre l’istituzione di due forme distinte di pena visto che all’esecuzione si sommano anni di attesa, spesso in regime di isolamento. Più di un giudice della Corte Suprema americana ha sottolineato come l’esecuzione di prigionieri dopo lunghi anni nel braccio della morte sia sostanzialmente in contraddizione con l’ottavo emendamento della Costituzione americana che vieta pene “crudeli o inusuali”. Fra loro, il giudice della corte suprema Stephen Breyer fa notare che “dove una attesa, misurabile in decenni, rispecchia il fallimento dello Stato ad ottemperare alle prerogative della Costituzione, l’affermazione che il tempo abbia reso l’esecuzione inumana è particolarmente valida“. Brandon Astor Jones addirittura ha passato più della metà della sua vita in attesa dell’esecuzione. Questa non è nemmeno una pena eccessiva, è tortura.

Infine, siamo pragmatici: un sistema feroce sarebbe forse giustificabile se avesse una qualche utilità, ma così non è. Nel 2012 una indagine di Gallup rivelava che il 63% degli americani era favorevole alla pena di morte. L’idea che sottintende un risultato simile è che una pena così grave serva come deterrente ai crimini. Niente di più sbagliato. L’Uniform Crime Report della FBI nel 2014 mostra come gli Stati del Sud, che sono responsabili per l’80% delle esecuzioni, c’è anche il tasso più alto di omicidi, mentre negli stati del Nord-Est con solo l’1% delle esecuzioni, il tasso di omicidi è più basso.

Nell’insieme però, il tasso di condanne a morte negli Stati Uniti e le effettive esecuzioni stanno diminuendo di anno in anno. Questo lascia ben sperare per un paese che ha dovuto attendere il 2005 perché la Corte Suprema stabilisse come incostituzionale la pena di morte nei confronti dei minorenni all’epoca del reato, intanto che sempre più paesi dell’Onu – 140 su 160 – sono per legge o di fatto contrari ad un sistema che l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, già nel 2007, ha condannato, votando a larga maggioranza per la risoluzione che chiede la moratoria universale della pena di morte.

Aspettando l’America.

Paolo Pirani
Paolo Pirani

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