“Se le nostre vite non valgono noi scioperiamo”, questo lo slogan principale del movimento #NiUnaMenos (Non una di meno in Italia), che l’8 marzo ha trovato eco nelle piazze di almeno 50 paesi del mondo ed in innumerevoli città italiane. Quella che più ha impressionato è stata la marcia a Montevideo, in Uruguay; Mmasciata.it ha trasmesso in diretta attraverso i suoi canali social la marcia del corteo partito dal Colosseo a Roma, io ho partecipato a quella organizzata tra Cosenza e la sua università.
All’Unical si è occupato dell’organizzazione dello sciopero il Comitato Unico di Garanzia, in collaborazione con il Centro di Women’s Studies “Milly Villa” assieme al Centro antiviolenza “Roberta Lanzino”. Le motivazioni dello sciopero sono differenti, accomunate però da un problema comune: l’ancora irrisolta questione della diseguaglianza di genere. Questioni centrali, oltre alla violenza di genere, sono ad esempio il cosiddetto gender wage gap, la richiesta di maggior sostegno ai centri antiviolenza, anche se uno dei temi più caldi, almeno in Italia, è la rivendicazione del proprio diritto di usufruire di quanto stabilito dalla legge 194/1978 in tema di aborto. Delle pensiline dell’università intorno alle 11 è partito il corteo, che ha percorso l’intero ponte, tra uno slogan ed un altro, fino ad arrivare in piazza Vermicelli. Donne e uomini hanno scioperato assieme sotto la pioggia, una piccola folla, guardata con relativo sospetto dai passanti, che hanno scelto di non aggregarsi. Se tutti, almeno si spera, condividono i motivi della lotta, in molti hanno considerato l’evento “inutile”, seppur per ragioni diverse. Secondo alcuni, ad esempio, è necessario lottare assieme per sovvertire il sistema capitalistico ed instaurare il socialismo, perché questa è l’unica strada possibile da percorrere per superare le diseguaglianze di genere. Oppure ancora, il movimento femminista, per qualcuno, dovrebbe autolimitarsi e comprendere che esistono problematiche più gravi ed urgenti di cui occuparsi. La lotta però, come suggerisce un uomo che ha preso parte al corteo, ha senso ed è indispensabile all’interno di questa società, ma è necessario inserirla in un contesto più ampio perché le discriminazioni di genere sono schemi sociali creati nel corso della storia.
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Nel pomeriggio, verso le 17, la manifestazione si è spostata a Cosenza, partendo dal Comune per arrivare a piazza Kennedy, percorrendo l’isola pedonale di Corso Mazzini. Il corteo era certamente più numeroso e, fortunatamente, non mancavano gli uomini ed emozionante era vedere le bambine ed i bambini manifestare assieme ai propri genitori e nonni. La manifestazione in sé ha mostrato una città attenta, certamente consapevole dell’esistenza di un problema, ma l’interesse dimostrato potrebbe esser stato mosso da passioni passeggere e domani, finita la ricorrenza (nessuno vuole demonizzare le date simboliche), c’è il rischio che si torni a normalizzare tutti quei comportamenti discriminatori oggi condannati.
È stato un tentativo di lotta che ha richiamato all’attenti un certo strato di popolazione e ha mostrato uno dei pochi aspetti positivi della globalizzazione. Come suggerisce un manifestante, l’idea di scioperare assieme in diverse parti del mondo dimostra come sia possibile riuscire ad ottenere una globalizzazione non solo dei mercati, che forse è meno positiva, ma anche e soprattutto dei diritti. La giornata ha mostrato però anche i suoi limiti, acutamente segnalati da chi crede nell’esigenza della lotta, ma è scettico sulle modalità in cui essa viene condotta. Per esempio, se il maschilismo è un male, lo è anche la misandria, proprio per questo non sono stati apprezzati tutti gli slogan proposti. Rivolgersi all’uomo, inteso come maschio, con troppa violenza è controproducente perché aumenta il divario tra i sessi, generando incomunicabilità, come suggerito da un attento osservatore, ed inoltre non tiene conto delle nuove categorie di cui il movimento femminista si occupa: le persone transgender e non binarie.
È insomma indispensabile cercare dei nuovi modi per combattere, utilizzare una comunicazione innovativa, in linea con la quarta ondata del femminismo, che disconosce il ricorso alla violenza e che condanna anche il sessismo di rigetto. La manifestazione si è conclusa in modo allegro e con una piacevole parentesi di femminismo intersezionale, ricordando le lotte di donne discriminate non solo in quanto donne, ma anche a causa della loro etnia e collocazione geografica, facendo ad esempio riferimento al caso di Malala Yousafzai, giovane Premio Nobel per la Pace pakistana nel 2014 e simbolo dei diritti civili e della lotta per l’educazione. Cosa resta di una giornata all’insegna della parità? La certezza che le modalità di lotta possono migliorare, che le nuove generazioni possono ed hanno il dovere di diventare parti attive della società per combattere un sistema ancora maschilista, ma l’unica cosa che non si può smettere di fare è resistere e non arrendersi allo stato delle cose, ricordando che “non è libero l’uomo che opprime la donna”.
20enne tutta ansia che oscilla tra il caos e la precisione maniacale.
Scribacchio, o almeno ci provo, per rabbia o per gioia. Se armata di taccuino e penna sembro poco seria e non è solo un'impressione, ma sto provando a migliorare.
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#NiUnaMenos | Il femminismo nel mondo e a casa mia
Francesca Pignataro
“Se le nostre vite non valgono noi scioperiamo”, questo lo slogan principale del movimento #NiUnaMenos (Non una di meno in Italia), che l’8 marzo ha trovato eco nelle piazze di almeno 50 paesi del mondo ed in innumerevoli città italiane. Quella che più ha impressionato è stata la marcia a Montevideo, in Uruguay; Mmasciata.it ha trasmesso in diretta attraverso i suoi canali social la marcia del corteo partito dal Colosseo a Roma, io ho partecipato a quella organizzata tra Cosenza e la sua università.
All’Unical si è occupato dell’organizzazione dello sciopero il Comitato Unico di Garanzia, in collaborazione con il Centro di Women’s Studies “Milly Villa” assieme al Centro antiviolenza “Roberta Lanzino”. Le motivazioni dello sciopero sono differenti, accomunate però da un problema comune: l’ancora irrisolta questione della diseguaglianza di genere. Questioni centrali, oltre alla violenza di genere, sono ad esempio il cosiddetto gender wage gap, la richiesta di maggior sostegno ai centri antiviolenza, anche se uno dei temi più caldi, almeno in Italia, è la rivendicazione del proprio diritto di usufruire di quanto stabilito dalla legge 194/1978 in tema di aborto. Delle pensiline dell’università intorno alle 11 è partito il corteo, che ha percorso l’intero ponte, tra uno slogan ed un altro, fino ad arrivare in piazza Vermicelli. Donne e uomini hanno scioperato assieme sotto la pioggia, una piccola folla, guardata con relativo sospetto dai passanti, che hanno scelto di non aggregarsi. Se tutti, almeno si spera, condividono i motivi della lotta, in molti hanno considerato l’evento “inutile”, seppur per ragioni diverse. Secondo alcuni, ad esempio, è necessario lottare assieme per sovvertire il sistema capitalistico ed instaurare il socialismo, perché questa è l’unica strada possibile da percorrere per superare le diseguaglianze di genere. Oppure ancora, il movimento femminista, per qualcuno, dovrebbe autolimitarsi e comprendere che esistono problematiche più gravi ed urgenti di cui occuparsi. La lotta però, come suggerisce un uomo che ha preso parte al corteo, ha senso ed è indispensabile all’interno di questa società, ma è necessario inserirla in un contesto più ampio perché le discriminazioni di genere sono schemi sociali creati nel corso della storia.
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Nel pomeriggio, verso le 17, la manifestazione si è spostata a Cosenza, partendo dal Comune per arrivare a piazza Kennedy, percorrendo l’isola pedonale di Corso Mazzini. Il corteo era certamente più numeroso e, fortunatamente, non mancavano gli uomini ed emozionante era vedere le bambine ed i bambini manifestare assieme ai propri genitori e nonni. La manifestazione in sé ha mostrato una città attenta, certamente consapevole dell’esistenza di un problema, ma l’interesse dimostrato potrebbe esser stato mosso da passioni passeggere e domani, finita la ricorrenza (nessuno vuole demonizzare le date simboliche), c’è il rischio che si torni a normalizzare tutti quei comportamenti discriminatori oggi condannati.
È stato un tentativo di lotta che ha richiamato all’attenti un certo strato di popolazione e ha mostrato uno dei pochi aspetti positivi della globalizzazione. Come suggerisce un manifestante, l’idea di scioperare assieme in diverse parti del mondo dimostra come sia possibile riuscire ad ottenere una globalizzazione non solo dei mercati, che forse è meno positiva, ma anche e soprattutto dei diritti. La giornata ha mostrato però anche i suoi limiti, acutamente segnalati da chi crede nell’esigenza della lotta, ma è scettico sulle modalità in cui essa viene condotta. Per esempio, se il maschilismo è un male, lo è anche la misandria, proprio per questo non sono stati apprezzati tutti gli slogan proposti. Rivolgersi all’uomo, inteso come maschio, con troppa violenza è controproducente perché aumenta il divario tra i sessi, generando incomunicabilità, come suggerito da un attento osservatore, ed inoltre non tiene conto delle nuove categorie di cui il movimento femminista si occupa: le persone transgender e non binarie.
È insomma indispensabile cercare dei nuovi modi per combattere, utilizzare una comunicazione innovativa, in linea con la quarta ondata del femminismo, che disconosce il ricorso alla violenza e che condanna anche il sessismo di rigetto. La manifestazione si è conclusa in modo allegro e con una piacevole parentesi di femminismo intersezionale, ricordando le lotte di donne discriminate non solo in quanto donne, ma anche a causa della loro etnia e collocazione geografica, facendo ad esempio riferimento al caso di Malala Yousafzai, giovane Premio Nobel per la Pace pakistana nel 2014 e simbolo dei diritti civili e della lotta per l’educazione. Cosa resta di una giornata all’insegna della parità? La certezza che le modalità di lotta possono migliorare, che le nuove generazioni possono ed hanno il dovere di diventare parti attive della società per combattere un sistema ancora maschilista, ma l’unica cosa che non si può smettere di fare è resistere e non arrendersi allo stato delle cose, ricordando che “non è libero l’uomo che opprime la donna”.
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Francesca Pignataro
Segui i post di Francesca Pignataro20enne tutta ansia che oscilla tra il caos e la precisione maniacale. Scribacchio, o almeno ci provo, per rabbia o per gioia. Se armata di taccuino e penna sembro poco seria e non è solo un'impressione, ma sto provando a migliorare.