Libertà di parola e parole in libertà non significano la stessa cosa. Alex Crhum lo sa bene. Ha 25 anni, una laurea in letteratura inglese e una specializzazione in “gender studies”. Femminista e di sinistra liberale, abita a St. Louis e per lavoro modera le discussioni del sito Debate.org, ogni giorno in orari di ufficio; Un lavoro come un altro? No. Mashable.com ha di recente raccontato la sua storia di frustrazione quotidiana. Storia di una lotta con tipi che credono che Satana abbia creato l’omosessualità o che Dio ha fatto le donne per servire gli uomini. Certo, in molti casi ma non tutti, diciamo però che tutto ruota intorno a argomentazioni costruite a forza di insulti, minacce e attacchi personali basati sul genere, la razza e la sessualità. Alex vuole salvarsi e non farà questo lavoro a lungo, perché teme di finire per odiare il mondo: «Quando leggi un commento su una cosa a cui sei particolarmente sensibile, poi ti resta dentro anche se non conosci la persona che lo ha scritto. E quando è impersonale e disumanizzato, e sono tanti uno dopo l’altro, cominci a perdere fiducia nell’umanità». Avere a che fare con questo tutto il giorno tutti i giorni può essere terribile, perché ti mette a contatto con una zona di internet ancora più oscura di quella con cui a che fare l’utente medio. L’interrogativo che ti poni, e che prima di imbatterti in un troll nemmeno immaginavi, è fino a dove possa aderire alla realtà tutto quello che leggi ogni giorno nei commenti online.
La questione è decisiva; anche se sono prodotti dal pubblico, i commenti sono contenuti che comunque fanno parte dell’identità di una testata giornalistica, e una testata giornalistica deve combattere e mai assecondare l’imbarbarimento della società. Il dibattito nella comunità internazionale ferve fino allo studio di algoritmi di moderazione, ma in Italia è passato sottogamba al punto che i grandi giornalisti che un giorno davano del “bagni dell’autogrill” ai social network oggi si ritrovano a non saper controllare commenti agli articoli da osteria dell’olio di ricino. Del problema tuttavia, ho recentemente avuto la possibilità di (ri)sentirne parlare con intelligenza un direttore italiano, Luca Sofri. Impegnato in una più restrittiva politica per il suo Post.it, ha ammesso di aver pensato all’eliminarli i commenti perché solo in minima parte aggiungono qualcosa alla discussione e perché, come abbiamo visto con Alex, impegnano in un lavoro massacrante risorse della redazione che potrebbero essere impiegate diversamente. Quella di fare a meno dei commenti sul sito è una scelta coraggiosa, che oltreoceano comincia a farsi spazio. Ha fatto letteratura il caso di Popular Science, ad esempio. Rivista di divulgazione con ben 141 anni di storia alle spalle, dopo uno studio approfondito che dimostra come una minoranza di commentatori litigiosi può arrivare a cambiare nel lettore la percezione del contenuto dell’articolo, ha deciso di chiuderli i commenti perché “possono nuocere alla scienza”.
A questo punto la domanda dovrebbe essere ovvia almeno quanto la risposta: I commenti online possono nuocere al giornalismo? E se la risposta è sì, allora perché il giornalismo non vi rinuncia? Semplice, perché le discussioni generano partecipazione, condivisioni e traffico. Così, soprattutto in un paese di tifoserie come il nostro, un giornalismo già allo sbando si trova completamente in mutande davanti alle dittature del like. Per dirla diversamente, ogni giorno si dopano le notizie prestando consapevolmente il fianco al razzismo più becero solo per racimolare un misero pugno di click, come fra i pochi ben scrive Jacopo Tondelli sul suo GliStatiGenerali.com; come altrimenti spieghereste il caso della settimana? Due bambini che litigano a scuola viene fatto passare per altro e diventa notizia top trend per giorni; a saperlo che questa roba era giornalismo avrei pensato a un libro – inchiesta sulle ricreazioni della mia prima elementare.
Da tempo è stato sdoganato quell’odio razziale che poco ci mette a diventare opportunismo politico e violenza tout court, forse ci siamo già abituati, ma si può tornare indietro. Di buono in questo senso a me capita che, mentre decido di non leggere più le parole atroci dedicate ad un bambino (ad un bambino!) sotto testate che hanno fatto la storia civile di questo Paese, caso vuole che l’occhio e l’orecchio finiscano su un film trasmesso da Sky Cinema. Si chiama “Marina”, è stato un cult fuori dai confini nazionali. Ispirato alla storia di Rocco Granata, il figlio di un minatore calabrese che emigrò a dieci anni dal paesino vicino a quello in cui mia nonna faceva risuonare le sue canzoni. Il film mette in scena i ricordi della sua vita raccontando sopraffazioni quotidiane che vanno dalle risse con i compagni che lo deridevano in classe perché non parlava bene la lingua (eh…) fino all’accusa di uno stupro mai lontanamente commesso. Incriminato solo perché italiano, Rocco Granata cantava “mi sono innamorato di Marina, una ragazza mora, ma carina” in tutti i teatri del mondo perché le due famiglie non scoprissero che in realtà l’amore era sbocciato fra un figlio di immigrati calabresi e una bionda ragazza fiamminga.
Scene da anni ’50, o forse no.
Ps. per chi ha che che fare ogni giorno con commenti online agli articoli si consiglia la lettura di qualche vecchio numero de L’Europeo con la rubrica “Lettere a Enzo Biagi”, sta tutto lì.