Si dice che ad ogni servizio delle tv locali calabresi muore un premio Pulitzer. Il fatto che dalle nottate passate a guardarli a ripetizione ricavo a malapena il raffreddore è la prova che non sono poi questo granché.
L’altra notte la soglia dell’attenzione ha avuto un rialzo simile a quando si imbatte nei canali della Fox. C’era il presidente nazionale dell’Ordine dei giornalisti a Cosenza. Si chiama Enzo Iacopino, è di Reggio Calabria, queste le sue parole: “Qui in Calabria si sta toccando una punta che francamente non avrei immaginato. Si prevedono pagamenti di due euro e mezzo ad articolo solo quando si raggiungono i 120 articoli pubblicati, questo è francamente intollerabile”. Ora invoca l’intervento del presidente nazionale dell’Ordine – quello che ha scritto il libro “Smascheriamo i ladri di sogni”, quello che si batte per l’equo compenso -, mi sono detto. Poi mi sono ricordato che avrebbe dovuto rivolgersi a lui stesso e ho sperato almeno chiamasse i Power Rangers. Niente. Nemmeno nella sala del convegno era successo granché: molti battevano le mani, gli altri invece prendevano appunti. Sono quasi arrivati al centoventesimo articolo.
Il mio primo assegno calabrese arrivò a casa ad ottobre del 2004, in una busta delle lettere molto elegante, con il logo della testata per la quale avevo avuto l’indimenticabile brivido degli inizi. Cinquantaquattro euro per la “collaborazione occasionale da gennaio a maggio”, il brivido ti passa presto.
Quella roba che chiamavano occasionale in realtà significava seguire una squadra di calcio locale in tutte le partite casalinghe. Pioveva sempre e bisognava ripetere religiosamente la stessa routine: prendere la macchina, andare al campo, farsi dare le formazioni, ascoltare le proteste e le minacce dei dirigenti, andare fuori a scattare le foto e prendere appunti, poi fare la cronaca della partita al sabato e un articolo di approfondimento per la domenica. Negli altri giorni eri un corrispondente, chiamato a segnalare tutto quello che succedeva nell’ampia zona che ti avevano assegnato, ogni tanto per farti contento ti pubblicavano qualcosa.
Per quanto ne so quindi, questo succedeva già dieci anni fa, sono certo che Iacopino lo sa e forse lo sanno anche i Power Rangers.
Intanto nell’Italia di oggi, dopo quella con i partiti, si sta allargando rapidamente la crepa fra la società e i media tradizionali. Gli episodi preoccupanti si moltiplicano di ora in ora e, proprio come nel caso dei partiti, nella Calabria del “’nto culu ai giornalisti” tutto è in scena da molto tempo. Il sistema di potere corrotto ha completamente fagocitato la stampa e i giornalisti in tutto questo sono vittime sempre più rammollite, individui sempre più incapaci di reagire.
Un punto ai mei occhi assonati Iacopino lo segna quando ai microfoni aggiunge che gli editori non devono usare la crisi economica come scusa, perché “moltiplicano attraverso le attività di lobbying delle proprie testate gli introiti delle molte altre attività che possiedono”. Questo è il punto centrale. Una verità che detta dal presidente nazionale dell’Ordine dei giornalisti è come un pugno nello stomaco della democrazia, pensate se lo avesse detto Grillo. I grandi giornali fanno lobbying spregiudicato e il discorso riesce persino ad aggravarsi nel locale perché, soprattutto al Sud, le altre attività degli editori sono tutte dipendenti dal finanziamento pubblico e quindi dalle dinamiche politiche.
L’unica cosa che conta per un editore chiamato a imbonirsi i finanziamenti è che nella sua redazione si porti avanti la campagna di stampa che serve al gruppo di governo (o che ambisce a governare), il resto è una farsa.
Ora, come si fa a piegare a questa visione di comodo uomini e donne che fin da bambini sono posseduti dal sacro demone dell’informazione? Intanto si inizia a minacciarli in tanti modi, anche attraverso strumenti di ritorsione giuridici, ma principalmente lo si costringe contrattualmente a scendere a patti con quel demone. Ne ho visto tante e diverse di redazioni in tutta Italia e, almeno nei giornali, ovunque, funziona così: si crea un paradiso e un inferno e si fa in modo che le regole per entrare in paradiso giochino a favore del tuo scopo. Il concorrente di questo gioco a premi, a meno che non ci siano raccomandazioni, inizia all’inferno, sfruttato come raccontavamo sopra. Ventiquattro mesi di pubblicazioni e per una somma superiore a quella che hai faticosamente guadagnato l’ordine regionale ti iscrive all’albo dei pubblicisti.
Se sei bravo e vuoi guadagnarci qualcosina cominci a sperare che ti portino in redazione, che oggi non sono più i posti frenetici e romantici che si vedono nei film americani, ma una sorta di purgatorio dove per qualche centinaio di euro al mese smetti di scrivere e passi a fare in una vita di orari al contrario pagine, titoli riunioni e telefonate. In processione dalla macchinetta del caffè a quella delle agenzie di stampa, in attesa che quelli meno bravi ti mandino l’articolo che gli hai detto di scrivere tu.
In questa tortura per il giornalismo muore piano piano anche quella passione che ti ha fatto studiare giorno e notte per anni. Un sacrificio che fai in nome di quel passe partout del paradiso (il contratto a tempo indeterminato) che chiamano praticantato, un periodo di formazione pagato dignitosamente in attesa di poter sostenere l’esame da giornalista professionista e poter aspirare ad un contratto degno di questo nome. Come in una corte tardo medievale, il praticantato lo concedono l’editore e il direttore agli eletti del castello maggiormente inquadrati nella linea da loro decisa e non per forza esplicitata. Non proprio un sistema che garantisce e premia l’indipendenza del giornalista, insomma.
Va detto che c’è anche un’altra strada per ottenerlo, iscriversi ad una delle scuole di giornalismo riconosciute dall’Ordine e fare l’esame dopo circa due anni di formazione. Sono presenti in tutta Italia tranne che in Calabria, nonostante ci siano tre università; basta passare i test e avere i soldi per pagare le spese, dopo l’esame puoi tornare a rivolgerti ai guardiani del paradiso che ti diranno che non possono assumere professionisti perché costano troppo.
Inserire nuovi “beati” infatti è una pratica rischiosa, perché rischia di affievolire l’efficacia del praticantato/paradiso come mezzo di ricatto contrattuale (“beato chi soffre perché suo sarà il regno dei cieli”/ “sopporta questa condizione e il prossimo praticantato sarà tuo”).
Questa logica perversa e non solo (tanto si potrebbe dire sulle pubblicità o sui sindacati ad esempio) ha alimentato la crisi spaventosa dei media tradizionali, che è solo all’inizio. Nel dibattito che dicevamo una piccola soluzione per i giornalisti calabresi l’ha offerta il buon Giuseppe Soluri, proponendo una piccola alternativa al paradiso delle redazioni. Il presidente regionale dell’Ordine ha affermato: “Non capisco perché non si vogliano fare ad esempio dei consorzi fra Comuni per assumere a poche spese un addetto stampa”.
Ecco, ora dal divano mi sono visto in quella sala, un ragazzo che sognava di raccontare i grandi eventi del mondo come inviato e che invece dopo la laurea era finito a fare la cronaca di un convegno per avvicinarsi ad un assegno di 54 euro.
I vertici del sacro consiglio dei giornalisti a cui destinavo quegli euro mi mettevano di fronte ad un bivio: sognare di diventare addetto stampa per il comprensorio Calopezzati – Crosia – Caloveto – Pietrapaola oppure sognare di tentare in qualsiasi parte del Paese l’indecorosa e lunga scalata al paradiso delle redazioni.
Avrei scelto di sicuro la terza: tornare indietro e fondare una piccola testata indipendente, in modo da scrivere tutte queste cose e fare così in modo che nessuno delle due potesse più realizzarsi.
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