Certi pezzi di nera ormai dovrebbero pagarli al barile, tanto sono redditizi. Per questa nobile e antica branca della cronaca è stato sempre così, ma forse lo è ancor di più nel periodo di più disperata crisi (di contenuti prima che economica) conosciuta dal giornalismo.
Lo sanno tutti, la nera vende anche perché possiamo immedesimarci e giudicare, guardare uno specchio e decidere se riconoscerci. In queste ore abbiamo visto e rivisto come se fosse una puntata di Gomorra (magari proprio quella in cui Ciruzzo uccide l’amata Debora) che questo meccanismo funziona perfettamente quando una coppia di giovani trasforma la fine del proprio amore in un orribile delitto. Scatta questo strano fenomeno – a metà fra potevo essere io e io non sono così – che ci fa giudici senza mai condannarci, che ci rende passivi divoratori di dettagli inutili per il racconto della storia in sé. Siccome il mostro in prima pagina deve pur sempre sbattercelo qualcuno, fare un viaggio nella mente del caporedattore così come lui cerca di farcelo fare in quella dell’assassino potrebbe rivelarsi piuttosto interessante.
Giovane uomo brucia giovane donna. Il lettore tende a dimenticarsene, ma succede spesso, troppo*. Tanto che lo schema del Caporedattore di un grande giornale (che per comodità immagineremo con la faccia di Gianmaria Volontè), si è dimostrato più o meno questo:
“Se succede sulla Magliana (Sara Di Pietrantonio, 22 anni, ndr) approfondiamo con un bell’articolo che spiega i pericoli della tecnologia per i giovani d’oggi, a Corigliano (Fabiana Luzzi, 17 anni, ndr) scriviamo una spalla sul retroterra culturale della Calabria, nella bassa Bresciana (Pinki Kaur Aulak, 26 anni, ndr) è chiaro che lì dovete darmi una spruzzata di fondamentalismo religioso“.
Si chiamano pezzi di appoggio, che si sommano al profilo (“Era una secchiona sorridente“, Corriere della Sera), all’analisi, alla scheda. Per quanto bene e in modo onesto possono essere fatti non sono altro che un modo per infarcire il male, per renderlo merce da vendere al pubblico bue. Non sono nemmeno il peggiore ingradiente se pensiamo che ci sono i plastici e le interviste ai criminologi, il dibattito e la moderazione dei commenti, ma quello semplicemente non è giornalismo quindi qui facciamo finta che non esista.
Il grande scrittore e giornalista Tom Wolfe ne “Le ragioni del sangue” (Mondadori, 2012) scrive:
«Non avevo mai capito bene che cosa intendesse dire Marshall McLuhan quando scrisse che la televisione avrebbe riportato le nazioni al tribalismo e al primitivismo sociale, ma ora, con l’avvento di internet, lo si vede. È cambiata la percezione della realtà. Quando un giornale riportava una notizia, il lettore era scettico, come l’indiano al quale era mostrato un pezzo di carta dall’uomo bianco, e non se ne fidava. Ora le tv, ma soprattutto i blog, i siti, sono come sciamani sulla piazza del villaggio che sussurrano qualcosa all’orecchio e per questo sembra vero».
La sua narrazione da 710 pagine è intrisa di nostalgia per quell’old journalism che in Italia proprio non ce la fa ad essere ripescato con i nuovi strumenti. In America, e di rimbalzo in tutta la cultura anglosassone di cui il giornalismo occidentale è intrisa, non è successo anche per il longevo apporto di tanti protagonisti della scrittura, ma da noi è andata diversamente. Un processo lento e inesorabile, iniziato tanti anni fa. Basta dare un’occhiata alle enciclopedie di giornalismo per vedere come le grandi cronache di nera (forse le ultime sono di Giuseppe D’Avanzo) siano state spazzate dall’ossessivo racconto della banana republic; come se i giornalisti italiani ad un certo punto si siano resi conto di non saper più capire e raccontare i drammi della società italiana se non attraverso le contumelie della sua classe dirigente. Dalla narrazione, insomma, è sparita la piccola borghesia italiana, nello stesso tempo la maggiore consumatrice di giornalismo. Da qui l’inizio della fine, altro che Internet.
A farla ricomparire in un ruolo da convitato di pietra è spesso un’accidentale collisione di eventi, come nel caso di questa ultima povera giovane ragazza romana. Nella sua tragica storia il pubblico ce l’ha messo il magistrato in conferenza stampa, quando ha raccontato come diversi passanti avrebbero potuto salvarla ma non l’hanno fatto. L’indifferenza, la solitudine, la miseria morale di una società come quella dell’Italia contemporanea accusata di concorso in omicidio. Sarà lo spunto che verrà a qualche caporedattore seriale in queste ore, vedrete. Un uomo che ha rinunciato a fare il suo lavoro, che è raccontare i fatti, perché non ha più cronisti sul posto, perché non può più impiegare risorse a curare i talenti e la sua giornata inizia insieme a mille concorrenti dai dettagli contenuti in un dispaccio di agenzia o in una affollata conferenza stampa. Un lavoratore annoiato che ha bisogno di pescare nella fantasia sua e in quella del suo pubblico elementi per infarcire il male, per renderlo merce. Ma il male è banale, e più di uno spettatore ormai si è reso conto del trucco.
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*Minorenni uccise e bruciate in Italia | (maggio 1992) Gisella Treglia 17 anni, viene uccisa a coltellate a Formia (Latina) dall’ex fidanzato della cugina, che poi le dà fuoco. (dicembre 1991) Katiuscia Razio, 16 anni uccisa a Calcinatello (Brescia) dal fidanzato di 19 anni che le spacca la testa con un tubo e poi le dà fuoco. (maggio 1992) Donatella Salari di soli 14 anni viene uccisa e bruciata a Roseto degli Abruzzi (Teramo) dal fratello di una sua amica. (agosto 1993) Manuela Petilli, 15 anni, il suo corpo bruciato viene trovato a Ivrea (Torino) 17 giorni dopo la sua scomparsa; un nomade di 28 anni verrà condannato all’ergastolo. (agosto 2000) Gabriella Mansi di soli 8 anni viene bruciata ancora viva ad Andria (Bari) dopo un tentativo di violenza di un gruppo di cinque ragazzi fra i 18 e i 20 anni.